MACEDONIA: OMBRE SULL'IMMEDIATO FUTURO


ottobre 2001, di Tino Brugos*, traduzione di Cinzia Garolla

 

Gli avvenimenti sviluppatisi negli ultimi mesi in Macedonia a partire dall'apparizione pubblica dell'UCK (Esercito di Liberazione Nazionale) hanno aperto le porte a una nuova congiuntura in questa repubblica. Per anni si è insistito sul pericolo che i conflitti etnici della Bosnia Erzegovina e del Kosovo potessero estendersi alla Macedonia. Tuttavia nulla è stato fatto per persuadere le autorità macedoni a iniziare una serie di riforme che permettessero un'effettiva integrazione della popolazione albanese nelle strutture politiche dello stato nonostante risultasse evidente l'esistenza di una grande insoddisfazione e di un clima favorevole alla radicalizzazione delle posizioni etniche.

Dieci anni dopo l'inizio dell'esplosione jugoslava, le guerre non sembrano essere finite. Forse è più difficile che tornino a scoppiare, ma il permanere di vari e gravi conflitti etnico-nazionali fa pensare che tutto può tornare a esplodere in qualsiasi momento. In questo senso il caso macedone è paradigmatico perché evidenzia l'attualità dell'esistenza di un grave problema e la presenza di soggetti politici disposti a usare la violenza per risolverlo in un paese che, fino a pochi mesi fa, era presentato come il modello di convivenza interetnica da imitare dalle altre ex repubbliche jugoslave.

Un'altra constatazione che si può fare è che, ancora una volta, le potenze occidentali hanno cominciato a sviluppare diverse manovre interventiste. Come per i precedenti conflitti in Bosnia e in Kosovo, si tratta di salvaguardare l'integrità territoriale della repubblica. Con ciò si pretende di consolidare alcune frontiere cherisalgono all'epoca di Tito. Sappiamo che quando si impose lo smembramento della Federazione nel 1991, gli stati europei decisero di riconoscere le nuove repubbliche per stabilizzare nell'immediato la situazione, anche se questo implicava l'esclusione di qualsiasi possibilità di riconoscimento del diritto all'autodeterminazione del Kosovo, nonostante lì esistesse un solido blocco etnico albanese che lo richiedeva. Di nuovo tornano le voci autorizzate dai vecchi discorsi: nessuna revisione di frontiere né autodeterminazioni. Nessun cambiamento di frontiere perché ciò implica la possibilità che tutto possa ricominciare. Per evitare che succeda sembra chiaro che è meglio che si continui così, finchè, presto o tardi, tutto ricominci. Perché bisogna avere chiaro che una cosa sono i progetti delle grandi potenze e un'altra quelli delle élite politiche balcaniche, che hanno sempre cercato un'autonomia, maggiore o minore, per far avanzare i loro progetti.

In questo modo si può pensare che un altro conflitto è possibile visto che l'attuale situazione nella regione si caratterizza per:
- l'esistenza di un equilibrio instabile, imposto dall'esterno, con la forza e
- per la continuità dei progetti politici con i quali è iniziata la fase attuale, nonostante che alcuni leggeri cambiamenti si possano percepire (crisi dell'HDZ in Croazia, caduta del PSS di Milosevic, ecc.).Ciò fa supporre che le tendenze politiche degli anni precedenti continueranno a permanere nella zona.

La novità che introduce il caso della Macedonia è che amplia l'area instabile nella regione. Se si osserva l'evoluzione del conflitto, le guerre sono avanzate dal nord al sud e, ad eccezione dei casi sloveno e - con molti dubbi - croato, gli altri conflitti sono stati contenuti, ma senza una soluzione definitiva per gli stessi: Krajina croata, Bosnia Erzegovina, Kosovo e adesso Macedonia.

L'esplosione della Macedonia è avvenuta in un brutto momento, in cui i paesi occidentali sono interessati a normalizzare i rapporti con la Serbia e il suo nuovo governo e, al contempo, cominciano ad essere stanchi dell'intransigenza kosovara sull'indipendenza. Dall'instaurazione del protettorato internazionale non è sorto alcun gruppo disposto a giocare il ruolo moderato e possibilista di cui hanno bisogno le autorità internazionali. Se a ciò si aggiunge l'apertura dei fronti di Presevo e in Macedonia, si comprende che le aspirazioni albanesi cominciano a diventare fastidiose per le cancellerie europee.

Tuttavia, per quanto si tenti di contenere le aspirazioni albanesi, è certo che questa corrente è diventata uno dei maggiori ostacoli per ottenere la pacificazione della regione. Si può affermare che finchè la questione albanese non troverà una soluzione, con impostazioni non necessariamente indipendentiste, non si potrà assicurare un cammino sicuro verso la stabilità per la regione. A questo riguardo è sorprendente constatare il livello di improvvisazione di molti analisti che dall'inizio hanno centrato la loro preoccupazione, nel caso della Macedonia, sulle aspirazioni greche, serbe e bulgare, lasciando da parte il problema albanese. Oggi, dieci anni dopo, è il problema albanese che minaccia più seriamente la repubblica.

Curiosamente, albanesi e macedoni sono stati, tra i popoli balcanici sottomessi all'Impero Ottomano, gli ultimi ad accedere a una coscienza nazionale nella regione, quando gli altri già avevano definito i loro progetti ed elaborato i presupposti ideologici che giustificavano le loro aspirazioni espansioniste. Ciò influirà negativamente nel processo di consolidamento e renderà molto difficile il loro accesso alla statalizzazione. Non è un caso che le frontiere dell'Albania raccolgano solo la metà della sua etnia né che la Macedonia sia stata divisa tra Serbia, Grecia e Bulgaria, dando origine a un'importante diaspora. Questo processo storico ha facilitato la strumentalizzazione esterna delle aspirazioni nazionali, le tutele e infine la frammentazione territoriale. Bisogna ricordare che sia l'Albania che la Macedonia mantengono impostazioni irredentiste rispetto ai loro vicini e che, anche le loro rispettive costituzioni, riconoscono come loro connazionale chi vive all'estero.

La situazione del popolo albanese in Macedonia non è paragonabile con quella che hanno conosciuto i loro connazionali in Kosovo. Se ci si rifà all'esperienza recente, degli ultimi 25 anni si possono rilevare importanti differenze. Da un lato si deve segnalare la grande differenza in relazione al peso demografico in ambedue i paesi. In Kosovo si riconosce che circa il 90% della popolazione è di origine albanese, mentre in Macedonia questa percentuale si riduce al 25%. La cifra è approssimativa perché si è sprovvisti di dati aggiornati sulla composizione del censimento macedone che in questi anni è diventato un campo di battaglia tra macedoni e albanesi. Comunque, questa percentuale ci pone di fronte a una minoranza, considerevole, che si concentra nella parte occidentale del paese, una zona che, a differenza del Kosovo, non ha avuto una tradizione storica particolarmente rilevante, o in altre parole, una propria identità. Anche se rivendicata come zona albanese dal XIX secolo, la regione occidentale della Macedonia appare con una carica simbolica inferiore a quella del Kosovo. Inoltre, in Macedonia la popolazione albanese ha goduto di un riconoscimento sociale e politico sia all'epoca di Tito sia dopo l'indipendenza, a differenza del Kosovo dove l'esperienza storica dell'autonomia del 1974, l'annullamento della stessa da parte di Milosevic, la dura repressione sofferta per dieci anni, la costruzione di strutture statali parallele e infine la guerra hanno contribuito a dare un'identità molto più accentuata. Le rivendicazioni nazionali in Macedonia si sono canalizzate, bene o male, utilizzando i diritti democratici esistenti. Inoltre, l'élite politica albanese partecipa dall'indipendenza della repubblica ai lavori parlamentari e di governo,contrariamente al Kosovo.

La dura esperienza kosovara ha portato, come risultato, alla comparsa di una leadership carismatica, quella di Ibrahim Rugova, che si mantiene dopo l'intervento internazionale nonostante la competizione con l'UCK. Nel caso macedone esistono diversi uomini politici popolari, ma nessuno di loro attualmente svolge un ruolo chiave simile a quello di Rugova in Kosovo. Al contrario, la mappa politica degli albanesi della Macedonia è diventata più pluralista con gli anni e i partiti più importanti hanno contato su una significativa rappresentanza parlamentare che ha anche partecipato a diversi governi di coalizione.

Così con questi dati in che consiste l'insoddisfazione albanese? La risposta bisogna cercarla nell'ambito della Costituzione della Repubblica di Macedonia. Infatti, la Costituzione del nuovo stato precisa nel suo preambolo che la Repubblica è lo stato nazionale del popolo macedone, all'interno del quale vivono numerose minoranze nazionali alle quali è garantito l'esercizio delle loro libertà. Così è chiaro che tutte le etnie, ad eccezione di quella nazionale macedone, sono minoranze e, quindi, sono sottomesse alla nazione dominante. Non è strano che, alla fine, alcuni gruppi albanesi abbiano optato per la via insurrezionale se si considera che proprio contro questo status di minoranza nazionale si sono levati in armi i serbi di Bosnia e Croazia, i croati di Bosnia e i kosovari che esigevano all'inizio, il recupero delle loro istituzioni così come erano state riconosciute dalla costituzione federale del 1974.

La stessa Costituzione macedone stabilisce che la lingua ufficiale della Repubblica è il macedone e che il suo alfabeto è il cirillico. Anche se si riconosce il diritto a usare altre lingue e alfabeti in quei comuni in cui predomini una delle diverse minoranze etniche. Ma questa concessione è insufficiente per la popolazione albanese che aspira a vedere i propri figli studiare nell'Università albanese di Tetovo e a non dover spostarsi fino a Pristina.

Come è successo con queste precedenti esperienze, l'Europa occidentale ha manifestato il suo interesse, prima di tutto, per il mantenimento dell'integrità della Macedonia e, in secondo luogo per l'importanza di negoziare prima che il problema diventasse incontrollabile. Tuttavia, le esperienze accumulate dagli albanesi di Macedonia in questi anni chiariscono bene dove si può arrivare con questa posizione subalterna nelle strutture della nuova Macedonia indipendente. Basta ricordare che il partito tradizionale albanese in Macedonia, il Partito della Prosperità Democratica (PDP) si è scisso nel 1994 dando origine al DPA (Partito Democratico degli Albanesi) e che recentemente è sorto il Partito Democratico Nazionale (NPD). In tutti i casi l'elemento all'origine della separazione sono stati gli scarsi risultati raggiunti dopo anni di collaborazione nel governo macedone. Nello stesso modo, ogni nuovo gruppo ha radicalizzato i suoi messaggi, così che il NPD è stato considerato fin dall'inizio una specie di braccio politico dell'UCK.

In questi giorni successivi all'inizio della prima offensiva militare della guerriglia, sono emersi diversi dati che sono considerati da parte albanese come un'affronto che giustifica la ribellione: la posizione ufficiale contraria alla legalizzazione dell'Università albanese diTetovo, il rifiuto di riconoscere i simboli ufficiali del nazionalismo albanese (bandiera e scudo soprattutto), le difficoltà di pubblicare libri scolastici in lingua albanese, la scarsa rappresentanza di albanesi in strutture ufficiali come esercito e polizia, le brutalità poliziesche contro la popolazione albanese, ecc. Tutti questi elementi fungono da brodo di coltura per denunciare, da parte dei settori più aggressivi del nazionalismo albanese perfino il genocidio culturale in Macedonia. Al contrario l'impegno nel normalizzare questi obiettivi è visto dalla parte macedone come il riconoscimento implicito che le aspirazioni alla secessione sono latenti a qualsiasi rivendicazione posta dagli albanesi.

Forse per questo dai primi giorni la parte macedone aveva insistito sul fatto che l'origine del problema non stava tanto in problemi interni, quanto nell'evoluzione degli avvenimenti del Kosovo. Si tratta in questo modo di nascondere la problematica interna, con il pretesto di un'origine esterna del conflitto di cui si gettano le responsabilità sull'UCK del Kosovo. Tuttavia, questa idea, ben accetta alle cancellerie occidentali, non sembra mettere d'accordo troppi attori politici perché, al di fuori dei partiti etnici macedoni più nazionalisti, gli altri, soprattutto le formazioni albanesi, concordano nel segnalare l'esistenza di gravi problemi che hanno le loro radici nell'evoluzione politica macedone. In questo senso si può segnalare che dieci anni dopo l'inizio del cammino indipendente del paese, non si trova una formula che consenta di coinvolgere in modo giusto gli albanesi nella nuova legalità. Nel 1990 venne fondato il PDP con l'idea di garantire una presenza albanese nella nuova congiuntura che si apriva in quel momento.Molto presto cominciò la febbre dell'autodeterminazione che ogni popolo cercava di legittimare con l'organizzazione di un proprio referendum. Anche in Macedonia gli albanesi tennero il loro, imitando il Kosovo e altre zone (Krajina, Presevo, ecc.). Il settore più radicale prevedeva la creazione di una Repubblica di Illiria nella parte occidentale, a partireda Struga e, anche se votò a favore il 74% della popolazione, la consultazione non ebbe rilevanza, come invece successe in Kosovo, Krajina, Presevo e in altre zone della Federazione che non godevano dello statuto ufficiale di repubblica.

Il PDP di Imer Imeri decise di giocare la carta possibilista e moderata partecipando al governo insieme all'Alleanza Sociale Democratica di Macedonia (SDMS) di Branko Crvenkosvki sostenendo, tra le altre giustificazioni, che in questo modo si poteva contribuire a fermare l'avanzata dei settori macedoni più nazionalisti, che venivano presentati come una minaccia per il popolo albanese. Tuttavia, la partecipazione governativa non diede risultati importanti, oltre a quello di consolidare una clientela elettorale che si mantiene grazie all'esercizio di porzioni di potere corrispondenti e alla spartizione di una serie di prebende. Anche se il PDP si presentava come il partito albanese maggioritario, il logoramento politico fu serio e dal suo interno sorse un settore dissidente che, da Tetovo, guadagnò consenso e alla fine diventò il Dpa che dovette far fronte ai problemi legali per l'utilizzazione indebita della simbologia nazionalista albanese. Questa formazione si presentò con un profilo politico più aggressivo, sia verso il governo macedone che verso chi partecipava allo stesso senza ottenere risultati concreti favorevoli al riconoscimento della nazionalità albanese come parte costituente della nuova repubblica indipendente.

Nelle elezioni del 1998 si ebbe il trionfo del partito nazionalista VMRO-DPNME (Organizzazione Rivoluzionaria Interna di Macedonia - Partito dell'Unità Nazionale Macedone). Contro ogni previsione si verificò anche un cambio della guardia in campo albanese perché fu il radicale DPA di Arben Xhaferi che passò a far parte del nuovo governo di coalizione. Furono le circostanze del momento che obbligarono a una coabitazione che sembrava impossibile fino a qualche mese prima. Infatti, le elezioni si svilupparono in piena crisi del Kosovo. Fattori come il timore dell'estensione del conflitto, le pressioni internazionali crescenti, la presenza della Nato ecc., contribuirono al prodursi di una flessibilizzazione di posizioni rendendo possibile la formazione del nuovo governo, anche se presto, lo sviluppo del conflitto legato ai bombardamenti della Nato e la marea di rifugiati fece sì che ogni parte giungesse a interpretazioni diverse. Per la parte albanese si trattava di essere all'altezza delle circostanze in quei momenti e di mantenere un atteggiamento di collaborazione di fronte alle diverse istanze internazionali (Nato soprattutto) che si apprestavano a lottare per il Kosovo. Pochi mesi dopo si sarebbe visto che più che lottare per il Kosovo la politica di bombardamenti sulla Serbia voleva farla finita con Milosevic. Da parte loro i macedoni temevano un'estensione incontrollata del conflitto, e anche un'ondata di rifugiati kosovari che avrebbe potuto alterare gravemente il precario equilibrio etnico esistente. Per questo si sforzarono di comportarsi come bravi alunni di fronte alle potenze occidentali e insisterono sulla necessità di far uscire dalla Macedonia le decine di migliaia di rifugiati affermando che non esistevano condizioni nel paese per assorbire una tale ondata. Curiosamente proponevano come soluzione il loro trasferimento verso l'Albania dove nemmeno esisteva un'infrastruttura adeguata per far fronte a un problema così grande.

La fine dei bombardamenti e lo stabilirsi del protettorato internazionale mitigò le tensioni, ma servì a mostrare l'esistenza di un fossato tra entrambi i blocchi. La diffidenza di entrambi che potessero esistere obiettivi occulti, soprattutto da parte macedone rispetto agli albanesi, fece fare un passo avanti alla polarizzazione etnica. E' stata proprio questa polarizzazione crescente tra le due comunità che ha mantenuto unito il blocco albanese di fronte a temi puntuali, ma percepiti nello stesso tempo come centrali per la comunità. In questo modo sono state sviluppate campagne congiunte tra il PDP e il DPA per raccogliere firme a favore dei prigionieri politici albanesi, manifestazioni a favore dell'intervento della Nato in Kosovo, ecc., fino ad arrivare, lo scorso maggio, a firmare un documento congiunto a Prizren con la stessa UCK dopo le forti pressioni internazionali per partecipare a un governo di ampia coalizione che bloccasse l'avanzata della via armata della guerriglia. Si trattava di segnare il campo con la parte macedone segnalando, da un luogo così simbolico come Prizren, culla del nazionalismo albanese, che le rivendicazioni albanesi continuano a esistere. In questo modo si marcavano le distanze necessarie con la parte macedone evitando nello stesso tempo che le rivendicazioni nazionali fossero patrimonio esclusivo della nuova guerriglia.

Indipendentemente da come si voglia definire l'UCK, è certo che la sua comparsa è servita ad invertire tutte le precedenti alleanze. Da un lato la Nato e l'Ue hanno dato credito alla versione macedone che ha messo in circolazione l'idea di un conflitto con origini esterne, in Kosovo, concretamente. L'arrivo al potere di Kostunica ha aperto la porta a una soluzione negoziata in cui i kosovari hanno tutto da perdere, almeno finchè mantengono come prima richiesta la loro indipendenza. In questo senso l'evoluzione degli avvenimenti in Montenegro, con una ristretta maggioranza indipendentista apre la strada a un processo di confederazione che potrebbe restituire al Kosovo quella autonomia sostanziale di cui si parlava negli accordi di Rambouillet, anche se resta da sapere chi tra le sue forze politiche farà il primo passo per accettare questo nuovo quadro politico che si allontana dall'indipendenza. La nuova guerriglia macedone appare in un momento cruciale che permette di accusare la parte albanese di intransigenza e di essere l'altra faccia della medaglia nazionalista radicale incarnata da Milosevic.

Dall'altra parte, Grecia e Bulgaria, tradizionali rivali del nuovo stato macedone hanno reagito immediatamente offrendo il loro appoggio al governo di Skopje, temendo che un avanzamento nel processo di costruzione della Grande Albania finisca per alterare profondamente la situazione e, nel caso della Grecia, interessando le sue frontiere. Anche la Serbia ha cambiato atteggiamento, ed è passata a una posizione più costruttiva con la Macedonia prima firmando accordi per la demarcazione definitiva della linea di confine e adesso collaborando nella lotta contro un nemico comune, il radicalismo albanese.

Si apre quindi un futuro immediato pieno di incertezze nel quale non mancheranno né una prova di forza tra le due parti in conflitto, né le ingerenze esterne per imporre una soluzione non voluta o desiderata dalla maggioranza, anche se tenuta insieme per miracolo. E' anche probabile che si assista a una ridefinizione della mappa politica, soprattutto in campo albanese, tra coloro che preferiscono continuare a fare un'esperienza di partecipazione in alcune istituzioni che non danno una risposta positiva alle loro esigenze e coloro che optano per scardinare dall'esterno queste stesse istituzioni. In questo modo, l'instabilità continuerà nella zona dando nuovi mal di testa ai diplomatici occidentali.

Giugno 2001

 

 

L'evoluzione della situazione nei mesi estivi in Macedonia ha confermato alcuni dei timori della scorsa primavera. Brevemente i punti più significativi sono i seguenti:

1 - La crisi continua a svilupparsi. Anche se ufficialmente l'UCK non mette in discussione le attuali frontiere, sono entrati in azione nuovi soggetti politici che non nascondono le loro posizioni indipendentiste panalbanesi (Esercito Nazionale Albanese, AKSh) con un'influenza sconosciuta ancora, ma che non è il caso di sottovalutare perché introduce un fattore di destabilizzazione regionale molto importante.

2 - L'accordo firmato lo scorso agosto a Okrid ha un'importanza storica poiché presuppone una legittimazione delle rivendicazioni albanesi. Finora parte della società albanese era fuori dalle istituzioni statali. Con questo trattato, che contempla questioni in materia di educazione, lingua, polizia e la riforma della costituzione, si cerca la piena integrazione politica della popolazione albanese avanzando verso un'equiparazione di diritti.
Tuttavia esistono molte possibilità che tale accordo non venga applicato. La forte pressione dei settori macedoni più nazionalisti, contrari a qualsiasi concessione al "terrorismo separatista albanese", pone difficoltà immediate per la loro influenza sia tra la gente, che tra le file dello stesso governo macedone. D'altro lato, la prospettiva elettorale nel 2002 fa sì che i partiti macedoni mantengano un atteggiamento timoroso di fronte alla possibililità di una punizione elettorale se fanno troppe concessioni. La cosa più penosa è che questi calcoli politici si fanno in un clima che porta, secondo gli stessi protagonisti, a una guerra generalizzata.
Anche nella parte albanese esistono molti dubbi e timori. Dichiarazioni come quelle di Fadil Suleijmani, Rettore dell'Università di Tetovo, che mostra il suo rifiuto e scetticismo, o la comparsa dell'AKSh, mostrano che questo accordo è lungi dal soddisfare le aspirazioni del nazionalismo albanese.
Il problema nazionale albanese resta aperto e senza soluzioni immediate. Il mantenimento dello status provvisorio nel quale si trova il Kosovo e le difficoltà a risolvere la crisi attuale macedone permettono di mantenere aperte le aspettative di quelli che credono possibile una modificazione di frontiere e di scenari politici (indipendenza del Kosovo, confederazione della Macedonia o progetto della Grande Albania). Finchè resterà aperta la discussione sul futuro del Kosovo, sarà difficile risolvere il problema albanese in Macedonia.

3 - Il rischio di guerra civile generalizzata è ora maggiore che tre mesi fa. Nonostante la firma dell'accordo e la consegna - parziale? - delle armi da parte dell'UCK, nulla fa pensare che il rischio di conflitto armato sia scomparso. Al contrario. Questi mesi hanno aperto la strada che conduce alla guerra: la comparsa di milizie albanesi e macedoni, la crescita d'influenza dell'UCK, i primi rifugiati che fuggono dalle zone miste di popolazione, ecc., sono fattori che annunciano che il processo di spartizione del territorio e di omogeneizzazione etnica è cominciato. Gli attentati simbolici contro moschee o chiese ortodosse servono a rinforzare questa impressione e a creare le condizioni psicologiche tra la popolazione. Per evitare che questa logica militare continui ad avanzare è necessaria molta audacia politica, soprattutto nella parte macedone che è quella chiamata a cedere per evitare che scoppi la catastrofe.

4 - L'intervento esterno continua a svolgere nella zona una politica sbagliata caratterizzata dall'improvvisare in funzione degli avvenimenti, dall'applicare diverse soluzioni in ogni conflitto e dal credere che dall'esterno si può imporre ai contendenti la soluzione appropriata. Questo punto ha bisogno di un'analisi più ampia e dettagliata, ma si possono segnalare alcuni aspetti. Forse il più significativo è il fatto che per ognuno dei conflitti avvenuti negli anninovanta sono state date soluzioni diverse, e contraddittorie. Così nel1991 si riconobbe la separazione di Slovenia, Croazia, Bosnia e Macedonia in cambio della garanzia della continuità e inviolabilità delle rispettive frontiere. Tuttavia, in Bosnia, con Dayton, si impose un'uscita federativa che, pur non riconoscendo le aspirazioni serbo-bosniache, almeno servì a riconoscere la sua autoproclamata repubblica. Seguendo l'esempio serbo-bosniaco, i radicali del Kosovo si lanciarono nella lotta armata, ma in questo caso dopo la campagna aerea della Nato si stabilì un protettorato internazionale che nega la possibilità al popolo kosovaro di proclamare la sua anelata repubblica. Ora con la crisi macedone si cerca, attraverso negoziati, di mettere in piedi una federazione tra le due parti in conflitto. Si dirà che ogni conflitto ha le sue peculiarità e che per questo ha bisogno di soluzioni diverse. Ma il problema sta nel fatto che nei Balcani ogni crisi serve ad anticipare la successiva visto che c'è sempre un leader disposto a trarne lezioni per preparare il successivo scenario di crisi. Qui s'inscrive la radicalizzazione kosovara dopo gli accordi di Dayton o l'insurrezione albanese-macedone dopo l'intervento della Nato in Kosovo.

In mezzo a tutto ciò bisogna situare i diversi interessi delle potenze interventiste. Gli Usa stanno sviluppando il loro progetto che si concretizza nella necessità di garantire un alleato stabile nella zona, meglio se debole in modo da garantirsi una presenza solida e permanente. Da parte sua l'Unione Europea sta mantenendo una politica ambigua che non coincide pienamente con quella nordamericana. Da un lato si tenta di rafforzare lo stato macedone, minacciato dal terrorismo, ma nello stesso tempo si fanno pressioni su questo stato perché firmi un accordo che non soddisfa pienamente gli albanesi e, contemporaneamente irrita profondamente il popolo macedone, che vede nella Nato e nell'UE soltanto delle grandi potenze disposte a favorire la parte albanese. In cambio si offrono investimenti economici e garanzie per un processo di associazione alla stessa Unione Europea.

La necessità di essere presente in uno scenario di crisi come quello macedone obbliga a disegnare un piano di intervento che include lo spiegamento militare; tuttavia, le diffidenze e i timori che come conseguenza possano morire soldati occidentali, così come il timore di imbarcarsi in un'operazione che si svolge in un luogo per il quale non esistono risposte solide ed efficaci fa sì che il disegno dell'operazione "Raccolta essenziale" si caratterizzi per le scarse risorse e per i suoi obiettivi limitati. In effetti, uno spiegamento soltanto di un mese per raccogliere circa tremila armi non sembra sia una misura necessaria e adeguata per cercare di imporre un clima di pace stabile e duratura nella zona. Più che mai l'intervento della Nato ha un significato molto lontano da questa propaganda ufficiale che parla sempre di intervento umanitario e di prevenzione dei conflitti. Esistono condizioni perché questo intervento sia strumentalizzato da alcuni e rifiutato da altri.

E' opportuno ricordare che nella politica balcanica esiste sempre un contendente che aspira a provocare un intervento esterno che contribuisca a migliorare i suoi rapporti di forza nei confronti dell'avversario. In questo caso, sembra che la parte albanese senta la tentazione di appoggiarsi alla Nato per raggiungere i suoi obiettivi. Ciò significa che non ha ancora imparato la lezione della campagna del Kosovo. Nulla da fuori, e tanto meno la Nato, agirà in suo favore, a meno che si abbia una necessità superiore per farlo. All'inizio furono gli Usa e la UE che rifiutarono di includere il problema del Kosovo nel negoziato che portò alla pace di Dayton. Milosevic era imprescindibile in quel momento. Il problema kosovaro rimase cinicamente da parte fino a che Milosevic diventò un governante scomodo e si decise di incoraggiare e appoggiare le richieste dell'UCK per indebolirlo. Tuttavia, non si autorizzò la proclamazione dell'indipendenza del Kosovo. Niente fa pensare che i problemi della popolazione albanese-macedone si risolveranno con un intervento della Nato. Chi pensa questo si sbaglia di grosso. L'intervento occidentale durerà solo un mese per evitare di essere coinvolti in un conflitto dalla dubbia uscita e, nel caso di un suo prolungamento, ciò avverrà perché negli uffici politici qualcuno ha altri piani che, senza dubbio, non sono quelli di cui hanno bisogno i popoli della zona.

6 settembre 2001

 

* L'autore, Tino Brugos, è membro dei Comitati di Solidarietà con l'America Latina (COSAL) in Asturia/Stato Spagnolo, e attivista del movimento per la pace nei Balcani e in Kurdistan.

 


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