DOPO LA GUERRA, UN'ALTRA GUERRA
ANALISI A CALDO DELLA GUERRA, DOPO IL COSIDDETTO ACCORDO DI PACE


giugno 1999, di Andrea Ferrario, dal sito del Comitato di Solidarietà con la Jugoslavia


Solo una settimana fa il sollievo per la cessazione dei bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia e sul Kosovo era generale e condiviso non solo da chi vi si era opposto, ma anche dagli attori delle due guerre strettamente interconnesse, quella della Serbia contro la popolazione albanese del Kosovo e quella, aggiuntasi da fine marzo, della NATO contro la federazione jugoslava. Questo sollievo tuttavia è durato ben poco. A soli dieci giorni dagli accordi raggiunti a Belgrado sta diventando sempre più chiaro che l' "accordo di pace" è stato in realtà una breve tregua, fissata con termini talmente ambigui e indefiniti da rendere chiaro che un'altra guerra dovrà essere combattuta nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, anche se per fortuna il capitolo delle pulizie etniche e dei bombardamenti sembra per il momento chiuso. Per capire quali saranno i probabili connotati di questa nuova guerra che si va delineando è necessario individuare le radici di questo accordo "di pace".

LO STOP AI BOMBARDAMENTI, TRA USA, EUROPA E RUSSIA

Per l'intero mese si maggio si è trascinato l'evidente imbarazzo della NATO di fronte a una situazione che sembrava senza via di uscita: i bombardamenti, che nelle intenzioni originarie avrebbero dovuto durare per breve tempo, restavano dopo pi di un mese ben lontani dall'obiettivo di portare a un cedimento di Belgrado. Allo stesso tempo, l'alleanza atlantica si stava mostrando da una parte sempre meno capace di andare oltre un consenso su obiettivi minimi e dall'altra ampiamente divisa tra gli interessi particolari, mentre gli stati balcanici, tutti estremamente fragili, erano sempre pi impazienti di vedere una rapida cessazione di una guerra dagli effetti per loro disastrosi sotto tutti gli aspetti. Nonostante questo, gli Stati Uniti hanno preparato accuratamente una scenografia per presentare gli accordi come una loro vittoria: alla Casa Bianca si è addirittura tenuta il 2 giugno una riunione ai massimi livelli presieduta da Clinton, ufficialmente per studiare tutte le opzioni possibili e in particolare un eventuale intervento di terra con la partecipazione di decine di migliaia di soldati USA. In realtà, un intervento di terra avrebbe comportato per la NATO problemi logistici e rischi di tale entità che la sua effettuazione è sempre stata da escludersi se non come un'ultima decisione disperata, da prendersi una volta esaurita ogni possibile altra alternativa, senza contare poi che una tale operazione avrebbe richiesto come minimo due mesi di preparativi (per maggiori dettagli sull'argomento, si veda Notizie Est #235, 29 maggio).
A fine maggio l'unico paese a dirsi, a parole, a favore di un intervento di terra era la Gran Bretagna, ma, visti gli enormi problemi e rischi di una tale opzione, è chiaro che si trattava di un'operazione per mettere in imbarazzo gli USA e portarne alla luce l'incapacità di risolvere la guerra con i semplici bombardamenti. Nei Balcani, e in particolare in Kosovo, la Gran Bretagna ha trovato il contesto nel quale svolgere un ruolo di punta tra i paesi europei, distinguendo pi che altrove le proprie posizioni da quelle degli Stati Uniti. Questo suo ruolo "europeo", evidenziatosi lungo tutto il confitto in Kosovo, si è reso particolarmente evidente nei mesi che hanno preceduto gli accordi di Rambouillet così come durante lo svolgimento di questi ultimi, che non a caso sono stati organizzati da britannici e francesi senza alcuna partecipazione USA o NATO, se non l'arrivo all'ultimo momento di Madeleine Albright, che si è vista passare la "patata bollente" del fallimento degli accordi e quella del difficile ottenimento della firma della delegazione albanese. Non solo, già dai primi piani messi a punto in vista di Rambouillet era previsto il ruolo di comando della Gran Bretagna nella forza di intervento KFOR, composta principalmente da paesi europei e con una presenza USA nettamente inferiore nei numeri e limitata alla zona in assoluto meno impegnativa di tutte dal punto di vista militare e della sicurezza, quella di Gnjilane, ancorchè di una certa rilevanza da un punto di vista strategico coprendo parte del confine con la Macedonia. Londra si è assunta così l'importante ruolo di "garante" di un maggiore ruolo militare e politico dell'Europa, come è apparso evidente al summit di Washington per il cinquantenario della NATO, e come rivelava la stampa statunitense: "nel caso della Gran Bretagna, la situazione jugoslava ha consentito a Blair di sottolineare nuovamente la capacità unica del suo paese di mantenere relazioni di particolare fiducia con gli Stati Uniti dall'interno di un contesto europeo [...] offrendo un messaggio interpretato come un volere affidarsi alla soluzione militare in misura maggiore rispetto a quanto lo voglia lo stesso governo degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, l'alto profilo del coinvolgimento della Gran Bretagna la aiuta a rimanere un elemento essenziale nelle discussioni sul futuro strategico dell'Europa e tende a cancellare l'impressione, all'interno dell'UE, che la Gran Bretagna sia meno che pienamente europea a causa della sua scelta di rimanere fuori dall'Unione Monetaria Europea" ("International Herald Tribune", 26 aprile).
Londra ha avuto un ruolo di primo piano, a quanto pare, anche nella spinta verso un'incriminazione di Milosevic da parte del Tribunale dell'Aja ("Washington Post", 26 maggio), uno sviluppo che ha messo in malcelata difficoltà politica la Casa Bianca (come scrive il "New York Times" del 27 maggio: "in privato, funzionari dell'Amministrazione affermano che l'incriminazione con ogni probabilità paralizzerà gli sforzi da essi messi in atto per trovare una soluzione diplomatica attraverso gli attuali canali" al fine di scongiurare un intervento di terra, mentre da parte loro, i "funzionari britannici hanno subito sottolineato che l'incriminazione rende improbabile che quello da loro definito come un accordo che tenta di salvare le apparenze possa essere firmato con Milosevic.
'Pensiamo che [l'incriminazione] possa essere utile a dare loro maggior polsò, ha detto un funzionario britannico parlando dell'effetto dell'incriminazione sull' Amministrazione Clinton"). Queste differenti posizioni sono nuovamente emerse dopo la firma degli accordi con la Jugoslavia: l'arrivo dei russi a Pristina e l'occupazione da parte loro dell'aeroporto della città, cioè della prevista sede del comando britannico, sono stati per esempio sviluppi resi possibili dal vuoto venuto a crearsi in conseguenza di un non ancora chiarito ritardo di 24 ore nell'entrata delle truppe NATO in Kosovo, voluto dagli USA. Le successive trattative condotte dallo statunitense Talbott hanno visto ben presto quest'ultimo riconoscere la "legittimità delle richieste russe di una zona sotto il loro controllo, che noi sosteniamo", provocando le immediate proteste del ministro degli esteri britannico Robin Cook, il quale ha immediatamente definito "inaccettabile la creazione di un settore russo" (AFP e UPI, 13 giugno).
La Francia, da parte sua, ha incassato un'importante vittoria politica sugli Stati Uniti con la crisi dell'ultimo secondo che ha vincolato gli accordi per la forza KFOR in Kosovo a un voto del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, mentre a livello militare Parigi ha mantenuto e conservato una presenza di primo piano in Macedonia, oltre a quella rilevante messa in atto in questi giorni nello stesso Kosovo.
La Germania afferma per la prima volta un suo importante ruolo militare in una missione all'estero e con il suo comportamento ligio alla linea europea e atlantica mira a correggere l'immagine di fomentatrice di separatismi e destabilizzazioni che le era stata cucita addosso dai colleghi europei all'inizio di questo decennio, nel contesto delle tensioni intraeuropee causate dal riassetto del continente dopo la fine della Guerra Fredda.
Il governo italiano, da parte sua, è riuscito a superare senza drammatici sconvolgimenti il problematico ruolo di portaerei della NATO e a conservare il proprio potere contrattuale in vista della futura nuova spartizione della torta balcanica, riuscendo a conservare canali privilegiati con Belgrado e mettendo sotto propria tutela Rugova.
Nel complesso, quindi, l'Europa sembra avere vinto un'importante battaglia nei confronti dell'alleato statunitense. La guerra della NATO era partita, dopo l'ampiamente annunciato fallimento delle trattative di Parigi, secondo la ricetta di un interventismo al di fuori di ogni mandato ONU, con l'emarginazione della Russia e con la volontà di asserire la sola validità di una strategia di "guerra lampo" mediante l'esibizione della potenza militare e di una forza diplomatica basata essenzialmente su di essa. Gli esiti, fino a oggi, sono stati un insuccesso pressochè su tutti i fronti, per gli Stati Uniti: l'ONU viene nuovamente coinvolta, con un diritto di veto reso potenzialmente pi incisivo da un contesto che vede non solo la Russia, ma addirittura anche la lontana Cina acquisire, grazie all'"incidente" del bombardamento della sua ambasciata, maggior voce nelle decisioni della grande diplomazia mondiale. Gli europei sono riusciti a ottenere questo risultato, dando al contempo prova di disciplina e di fedeltà atlantica e dimostrando di essere politicamente in grado di gestire una difficilissima situazione di guerra. Gli Stati Uniti invece si sono trovati in un vicolo cieco, dal quale sono usciti solo attraverso l'aiuto dei russi e l'assegnazione di un maggiore ruolo agli europei (per esempio con la bozza di accordo dei G-8, che è stata la base per la successiva versione definitiva degli accordi).
La strategia dei bombardamenti e dell'esibizione della forza si è dimostrata ineffettiva, in assenza della capacità di trovare con rapidità soluzioni diplomatiche, che nell'attuale situazione balcanica gli USA non sono riusciti a trovare e per le quali l'Unione Europea, vista la sua massiccia presenza nell'area sia a livello economico che politico (e ora anche militare), sembra disporre di carte migliori.
Dal punto di vista economico, non a caso, sembra prospettarsi un dopoguerra tutto europeo, con un piano in cui punti essenziali sono la supervisione europea sull'introduzione del "libero mercato" nei paesi balcanici (e quindi anche delle privatizzazioni, già ampiamente egemonizzate dall'UE, sia a livello di acquisizioni di imprese, che di controllo delle procedure tramite i propri consulenti), la rapida "euroizzazione" dell'intera area, anche attraverso lo strumento dei "consigli valutari", la creazione di un'Agenzia europea per il rinnovo e lo sviluppo dei Balcani, la creazione di un'Agenzia per lo sviluppo della democrazia nei Balcani (andando così a invadere un'area nella quale gli USA erano molto attivi attraverso organizzazioni come la USAID), l'intensificazione della dottrina ESDI della NATO con una progressiva intensificazione del ruolo europeo nelle operazioni di "mantenimento della pace", il controllo diretto delle dogane e dei confini con la scusa della criminalità e dei flussi migratori e nuove modalità di integrazione dei paesi balcanici nelle strutture politiche dell'UE (sono queste le linee principali del "piano Prodi", si veda "Kapital", 15-21 maggio). Detto questo, va tuttavia sottolineato che per l'Europa vi è il rischio di mettere in atto programmi troppo ambiziosi in un'area dove tutti i soggetti statali sono estremamente fragili e dove è necessario un impegno di vasta portata su molteplici fronti: quello economico, quello politico e quello militare.
Quali siano stati i problemi in cui sono venuti a trovarsi gli Stati Uniti lo illustrano con chiarezza le parole di Ivo Daalder, ex-membro del Consiglio di sicurezza nazionale di Clinton, citate da Jane Perlez nel suo articolo per il "New York Times" del 7 giugno: "Alla fine, l'obiettivo primario di Clinton, quello di dimostrare la serietà degli intenti della NATO, è stato conseguito: nonostante le forti tensioni e le differenze di opinione, l'alleanza è rimasta unita. Ma nei fatti, l'unità della NATO è stata raggiunta a spese di altri obiettivi. I costi sono stati straordinariamente alti" in termini di profughi, nonchè di destabilizzazione a lungo termine della Macedonia, dell'Albania e dell'intera regione. » vero, prosegue il giornale, "l'obiettivo di mantenere la credibilità della NATO è stato raggiunto. L'alleanza ha dato seguito alle proprie minacce di bombardamenti, è riuscita a fare accettare a Milosevic un accordo in base ai propri termini e non ha smesso di bombardare fino a quando non è stato raggiunto un accordo finale. Ma l'obiettivo non è stato conseguito senza alti costi. Mentre le notizie di un accordo con Milosevic cominciavano a giungere insistenti alla sede generale della NATO, racconta un alto ufficiale del Patto Atlantico, l'alleanza è riuscita a stare insieme pi andando avanti in maniera barcollante che con decisioni risolute. Si può dubitare che la NATO si avventurerà mai in un'altra campagna del tipo di quella per il Kosovo. Dopo cinquant'anni di redazione di documenti, di analisi e di preparativi, la prima guerra della NATO potrebbe essere anche la sua ultima. 'Questa guerra ha dimostrato l'incredibile difficoltà di un'azione umanitaria-militare condotta da un'alleanzà, ha detto l'ufficiale.
'Personalmente ritengo che si tratti di un'esperienza che non debba mai pi ripetersi. Ha lasciato un amaro sapore di disaccordi all'interno dei vari governi, tra questi stessi governi e tra il quartiere generale della NATO a Bruxelles e la direzione militare a Mons. Si è trattato di un'esperienza scottantè". E in effetti nei principali giornali statunitensi sono stati non pochi i commenti e le dichiarazioni secondo cui nei prossimi anni sarà difficile che vi sia una disponibilità di Washington a effettuare interventi del genere. Anche i problemi di coordinamento dell'Alleanza atlantica sono stati rilevati da varie fonti, come "Le Monde" del 13 maggio, che riferiva della creazione di una specie di "Consiglio di sicurezza" della NATO formato da USA, Gran Bretagna, Francia e Germania, per snellire le procedure decisionali, ma lo stesso quotidiano definiva questa soluzione come pi di facciata che reale, affermando che per tutto il periodo della guerra vi è stata la necessità di adottare un "minimo comun denominatore" negli obiettivi degli attacchi, cosa che avrebbe innervosito numerosi responsabili militari. Un altro elemento, a livello militare, è stata la scarsissima incisività degli attacchi sulle forze militari jugoslave in Kosovo. Come doveva ammettere il "Washington Post" (2 giugno) in un articolo peraltro teso a lodare l'incisività degli interventi NATO, i tentativi messi in atto dall'UCK tra fine maggio e i primi di giugno di penetrare all'interno del Kosovo dalle proprie basi in Albania, hanno in realtà messo in luce l'alta mobilità di cui ancora godeva il nutrito numero di carri armati, cannoni e altri mezzi pesanti dell'esercito jugoslavo. Un dato confermato di lì a breve nei giorni del ritiro delle forze jugoslave, che hanno visto partire dalla sola zona di Podujevo, una di quelle in cui l'esercito jugoslavo si era impegnato di meno negli ultimi due mesi, una colonna di pi di quattrocento mezzi, tra cui pi di cento tra carri armati, cannoni della contraerea e altri corazzati, oltre a radar mobili (AFP, 11 giugno), mentre dall'aeroporto di Pristina, uno dei pi intensamente bombardati, sono partiti perfettamente integri ben 11 MIG-21 (qualcuno parla di un numero doppio di MIG, comprendente anche altri modelli meno recenti) ("New York Times", 12 giugno). A ulteriore conferma, il "Times" di Londra (16 giugno) raccontava che sotto gli occhi degli osservatori militari britannici appostati sulle colline intorno a Pristina, il 14 giugno erano passati 700 mezzi militari e il giorno successivo ben 1000, sottolineando che si trattava di mezzi non di poco conto: carri armati T-72, T-55, T-54 e S-1, batterie lanciamissili D-90 e corazzati MTLB. Il giornale concludeva scrivendo che: "la quantità di mezzi corazzati di cui l'esercito jugoslavo ha fatto sfoggio in enorme quantità sulla strada rende dubbie le affermazioni della NATO secondo cui la sua aviazione avrebbe danneggiato o distrutto dal 40 al 50 per cento dei carri armati e dell'artiglieria jugoslavi in Kosovo". Si tratta di una delle conseguenze della necessità di proseguire a ogni costo gli attacchi aerei, con l'obiettivo, tra gli altri, di tenere unita l'alleanza, e che a sua volta si è tradotta nel bombardamento, spesso ripetuto, di obiettivi civili molto pi facili da colpire, con i conseguenti "errori", costosi per la NATO in termini di consenso pubblico interno.
Questa "sconfitta" degli Stati Uniti naturalmente non è definitiva e la posizione estremamente impegnativa e delicata in cui si trovano ora gli europei, fa di questi ultimi anche un obiettivo estremamente vulnerabile, tanto pi che in ambito europeo manca una stretta coesione di interessi (per essere precisi, anche l'amministrazione americana ha dato ampia prova di forti divisioni tra le varie lobby interne, che spesso si intrecciano in alleanze pi o meno momentanee con gli europei - come dimostra, per fare un solo esempio, l'avvicendarsi in Kosovo dei mediatori statunitensi Gelbard, Holbrooke e Hill, o l'altalenarsi delle posizioni USA all'interno della missione di verifica OSCE). Anche se entrambe la parti sono interessate a conservare l'unità dell'Alleanza atlantica (l'unico vero successo occidentale di questa guerra), il reciproco conflitto continuerà senz'altro in Kosovo e in tutta l'area, se si tiene presente l'importanza, per entrambe le parti, di conseguire i propri obiettivi particolari (per gli USA la conservazione dell'egemonia politico-militare con un minore impegno in termini di uomini e mezzi, per l'Europa il rafforzamento del proprio ruolo politico, economico e militare, e la consolidazione interna). In questo conflitto non dichiarato la Russia, già coinvolta per trovare un'uscita dal vicolo cieco dei bombardamenti, avrà sicuramente un suo importante ruolo di terzo incomodo, come hanno dimostrato le modalità dell'insediamento dei soldati russi a Pristina. Il ruolo di Mosca non va tuttavia esagerato e la sua difficoltà nel muoversi è stata dimostrata, per fare solo un esempio, dagli sviluppi immediatamente successivi all'insediamento dei suoi soldati a Pristina. La Russia, infatti, alcuni giorni fa ha annunciato di avere l'intenzione di inviare in Kosovo con un ponte aereo un nutrito contingente (da 5.000 a 7.000 uomini), ma si è poi vista subito negare la concessione del permesso di transito da parte di tutti i paesi ai quali ne ha fatto richiesta (Ungheria, Romania e Bulgaria). La capacità di Mosca di esercitare pressioni contemporaneamente a livello militare, diplomatico ed economico è di gran lunga inferiore a quella di USA ed Europa, nonostante la sua presenza economica nei Balcani rimanga non trascurabile. Il fatto però che la missione KFOR sia sotto il "patrocinio" del Consiglio di sicurezza dà ai russi un fondamentale potere di veto, che diventerà tanto pi inciviso quanto pi permarranno le divergenze tra Europa e Stati Uniti. A tale proposito, riprendiamo quanto scritto con efficacia da Michael Karadjis nel settimanale "Green Left Review" del 19 maggio: "mentre vogliono dimostrare di avere in mano le redini della situazione, gli Stati Uniti puntano anche ad avere la Russia come proprio partner subordinato in Europa, in considerazione del suo enorme peso diplomatico e militare. Se l'ignorare la Russia e l'ONU nel lanciare l'attacco NATO mirava da una parte a dimostrare questo ruolo subordinato, dall'altro questa non era una mossa aggressiva contro la Russia. La Russia è pi una colonia del FMI che un rivale economico. Uno degli obiettivi degli USA è stato quello di evitare la pericolosa possibilità di un accordo regionale tra l'imperialismo franco-tedesco e la Russia, che potrebbe lasciare gli USA fuori dall'Europa. Gli USA vogliono dare alla Russia un ruolo politico nelle aree vicine alle sue frontiere. Quando Boris Eltsin ha reso pubblica una versione russa della "Dottrina Monroe" nel 1994 Washington ha avuto poco da obiettare; e quando Mosca ha dimostrato con i fatti quello che intendeva con il circolo vizioso della guerra in Cecenia, ha ottenuto l'acquiscenza occidentale. L'inclusione di truppe russe nella forza guidata dalla NATO in Bosnia in seguito agli accordi di Dayton nel 1995 ha cementato questa 'partnership con subordinazionè. » per questo che gli USA spingono ora fortemente per un ruolo della Russia come intermediario con la Serbia. E il 7 maggio Clinton ha descritto l'operazione in Bosnia come un modello per il Kosova - un particolare interessante, visto che in Bosnia la NATO provvede all'applicazione di una spartizione etnica..."

GLI ACCORDI, L'UCK, IL FUTURO DEL KOSOVO

Che tutto l'assetto del Kosovo sia ancora da decidere, e che esso verrà deciso sul campo, lo dimostrano la vaghezza e la mancanza di definizioni precise negli accordi stipolati (come al solito, con la sola Jugoslavia - con la parte albanese si sta trattando un accordo in questi giorni, ma unicamente in relazione al disarmo dell'UCK), così come i problemi che ci sono stati immediatamente nella definizione dei dettagli militari con la parte jugoslava e quelli successivi relativi all'ingresso delle truppe NATO in Kosovo. Rispetto agli accordi di Rambouillet, la prima differenza che salta agli occhi è quella relativa al ritiro delle forze serbe, che deve essere completo e rapido, mentre i precedenti accordi prevedevano tempi pi lunghi e regolavano nei dettagli la permanenza di un contingente limitato, in particolare ai confini della Federazione. Nella risoluzione del Consiglio di sicurezza, invece, si dice che truppe jugoslave potranno tornare in un secondo tempo per proteggere i confini e il patrimonio culturale e religioso serbo (centinaia di siti disseminati su tutto il territorio del Kosovo), rimandando a un annesso nel quale si dice che questo rientro sarà "nell'ordine delle centinaia, e non delle migliaia" di uomini, ma non si può non notare che subito dopo la firma dell'accordo, la delegazione NATO che trattava a Blace i dettagli militari parlava già di 2.500 uomini (Belgrado ne chiede 15.000). Anche la definizione dello status del Kosovo diventa ancora pi confusa. L'unico particolare ribadito a chiare lettere nei nuovi accordi, così come lo era in quelli di Rambouillet, è il rispetto dell'integrità territoriale della Jugoslavia, alla quale si aggiunge ora quella dei paesi confinanti. Ma per il Kosovo, tra la risoluzione del Consiglio di sicurezza e il documento dei G-8 al quale essa fa esplicitamente riferimento, si prevede un periodo indefinito di amministrazione ONU (alcuni mesi? svariati anni?), al quale farà seguito un periodo di "ampia autonomia" (non definita in alcun modo), anche in questo caso per un periodo indefinito. Si fa riferimento, in questo caso come in altri punti, al rispetto dello "spirito di Rambouillet" (che comunque negava ai kosovari ogni diritto all'autodeterminazione [1]), ma si tratta di una formula estremamente vaga, che nell'indefinitezza generale del quadro degli accordi può comportare tutto e il contrario di tutto. Riguardo all'UCK, a differenza degli accordi di Rambouillet (dove rientrava nel calderone delle "altre formazioni armate") viene citato esplicitamente e quindi riconosciuto, anche se non è una delle parti contraenti. Rambouillet prevedeva un piano con tempi precisi per il suo disarmo e per la sua integrazione in forze di polizia "multietniche" del Kosovo. Gli attuali accordi parlano di una sua "smilitarizzazione", termine ambiguo che potrebbe significare sia la sua completa dissoluzione come forza armata, che la sua trasformazione o integrazione in una forza di sicurezza. » chiaro quindi che non solo i dettagli, ma tutti i particolari fondamentali devono essere ancora definiti (non ultimo quello di chi si prenderà carico dell'amministrazione civile - si è già fatta avanti l'OSCE) tra un caos di soggetti diversi, che vanno dall'ONU, alla NATO, all'Europa, agli Stati Uniti, alla Russia, alla Jugoslavia, all'UCK e ai moderati di Rugova.
Nei primi giorni dell'occupazione NATO in Kosovo questa situazione è stata sfruttata a proprio vantaggio da due soggetti opposti: la Russia, di cui abbiamo già parlato, e l'UCK. Quest'ultimo si trova oggi di fronte a quella che sarà una tappa decisiva della sua evoluzione. La prima radicale trasformazione di questa formazione si era avuta tra il marzo e l'aprile del 1998, quando, di fronte alle massicce offensive e ai massacri messi in atto dalle forze di Belgrado, l'allora ristretto gruppo armato si è trasformato in una forza insurrezionalista di massa, sicuramente al di là di quelle che erano le intenzioni dei suoi organizzatori. Nei mesi successivi l'UCK si è trovato a dovere fare contemporaneamente fronte a massicce e ininterrotte cruente offensive su tutto il territorio del Kosovo, da una parte, e dall'altra ai tentativi di una sua liquidazione da parte di Rugova, il quale ha agito prima a livello politico, collaborando con i paesi NATO e aprendo a Milosevic, e poi a livello militare, con la creazione e l'infiltrazione delle FARK (Forze Armate della Repubblica del Kosovo). In tutto questo periodo e fino al gennaio del 1999, l'UCK ha inoltre dovuto fare fronte a una perseverante ostilità da parte dell'Occidente, che gli ha sempre preferito come interlocutore Milosevic, fino al punto di dare due volte nei fatti il via libera ai tentativi di quest'ultimo di cancellare la resistenza kosovara con ampie offensive militari (febbraio-marzo e luglio-settembre '98). Per riassumere, le fasi passate da questa organizzazione sono state quelle: 1) della formazione terroristica di èlite fino al febbraio '98 (con un primo salto di qualità dal novembre del '97, quando vi è stata la prima conquista di una seppure molto limitata area di territorio, il cuore della Drenica); 2) del movimento insurrezionale di massa, con strutture ampiamente orizzontali e autorganizzate, un radicamento fortemente territoriale e privo di vertici centralizzati, dal marzo a tutta l'estate del '98; 3) del tentativo di razionalizzazione militare (in larga parte riuscito), di centralizzazione dei comandi (conseguito solo in maniera molto limitata) e di creazione di una propria fisionomia politica (completamente fallito), fino al febbraio '99; 4) quello di una nuova divisione interna, della conquista definitiva del potere da parte di un ristretto gruppo (Thaci, Krasnici e i loro stretti collaboratori) sull'onda dell'emergenza di guerra e con il sostegno occidentale, tra il febbraio '99 e oggi. Che la fiducia dell'Occidente sia non solo di recente data, ma vada esclusivamente ai suoi alti dirigenti lo dimostra il fatto che durante i due mesi e mezzo di guerra, e nonostante si sia trovata in forti difficoltà, la NATO non ha mai dato alcun aiuto all'UCK (nemmeno alimentare o sanitario) e ha lasciato tranquillamente che venisse sconfitto e in massima parte espulso dal Kosovo insieme alla sua popolazione. L'unico "aiuto" c'è stato nell'ultima settimana della guerra, quando l'imminenza di un accordo era ormai chiara, con i bombardamenti effettuati dagli aerei NATO in coincidenza con l'offensiva del monte Pastrik, al confine con l'Albania, rivelatasi comunque un disastro. Da Rambouillet in poi, il gruppo dirigente guidato da Thaci non ha perso occasione per dimostrare la propria subordinazione all'Occidente, raggiungendo punte di estremo cinismo, a volte tragicomico, durante il periodo dei bombardamenti della NATO e dopo. Non solo non una critica è stata rivolta all'alleanza occidentale per il modo in cui ha lasciato massacrare e deportare la popolazione albanese del Kosovo (e ciò era già avvenuto in passato) - l'agenzia Kosovapress, controllata dal vertice UCK, ha continuato con un incredibile servilismo a sostenere che a bombardare le colonne di profughi o la base UCK di Koshare fossero stati "probabilmente Mig jugoslavi" anche dopo che la stessa NATO aveva riconosciuto la propria responsabilità. Oggi Thaci sembra accettare quasi ogni condizione che gli viene posta: dal disarmo, alla rinuncia all'indipendenza (naturalmente non lo può dire a chiare lettere, ma ora afferma di "sperare in un referendum tra tre, cinque o sette anni") e, soprattutto, accettando un protettorato incondizionato e a tempo indeterminato da parte della NATO. Paradossalmente, questo era il progetto originario non dell'UCK, ma dei "moderati" di Rugova, che un tale protettorato richiedevano da anni, così come lo richiedeva il loro punto di riferimento a Tirana, Sali Berisha, il quale, per la cronaca, in un comunicato del 5 ottobre 1998, dopo avere attaccato l'allora dirigenza dell'UCK, chiedeva i bombardamenti della NATO e scriveva che "vi deve essere un nuovo accordo del tipo di quello di Dayton nel quale il principio secondo il quale i confini non devono essere cambiati con la violenza e il principio della autodeterminazione vengano armonizzati" (comunicato del Partito Democratico Albanese, in "Albanews", 5 ottobre 1999). In realtà tra i moderati di Rugova e l'UCK gli scontri sono stati durissimi quando quest'ultimo conquistava un seguito popolare ed era un movimento dalle caratteristiche ampiamente antiautoritarie, oppure, più di recente, quando si è trattato di lottare per i favori dell'Occidente, ma i punti di contatto in realtà non mancano. La presenza di rugoviani all'interno dell'UCK non è per nulla trascurabile. Innanzitutto, quando per forza di cose, di fronte alle offensive e ai massacri di Belgrado, l'UCK ha dovuto ampliarsi su tutto il territorio, l'urgenza di organizzare la difesa ha fatto entrare nelle strutture dell'Esercito di Liberazione del Kosovo numerosi dirigenti locali della LDK, il partito di Rugova che per anni ha avuto un controllo capillare del Kosovo "parallelo". Sono stati molti anche i rugoviani che hanno aderito all'UCK per dissidi personali o tattici, ma non di fondo, con il leader della resistenza passiva e tra questi vi è un esponente di primo piano dell'UCK come Jakup Krasnici. Infine, dall'estate scorsa vi è una nutrita presenza militare all'interno dell'UCK che aderisce sì a questo "marchio di fabbrica", ma che in realtà ha le proprie origini nelle FARK e riconosce in Rugova il proprio capo politico. Le divisioni tra le due fazioni hanno ormai quasi completamente perso ogni caratteristica di sostanza e si stanno riducendo a una pura e semplice lotta per il potere, che ha un suo parallelo a Tirana (Berisha e i democratici con Rugova, Majko e i socialisti con Thaci). Questo svuotamento di contenuto non ha reso però minori le inimicizie e la lotta per il potere in Kosovo sarà sicuramente molto aspra, senza esclusioni di colpi, sia a Pristina che a Tirana. Se Rugova può contare sulla lunga esperienza e i consolidati canali di contatto con l'Occidente, e addirittura anche con la leadership di Belgrado, il curriculum di Thaci da questo punto di vista è pi fragile, nonostante sia momentaneamente sulla cresta dell'onda, fatto dovuto in buona parte al particolare che la presenza dell'UCK sul terreno in presenza di un'occupazione NATO è una non indifferente "gatta da pelare" e sono necessari interlocutori che si spera possano tenere sotto controllo la situazione, e da questo punto di vista Rugova non ha molto da offrire. Per migliorare la propria immagine di "garante della stabilità", Thaci ha compiuto mosse che non possono essere definite che vergognose, come l'incontro con uno dei maggiori finanziatori e sostenitori politici del regime di Belgrado, il ministro degli esteri Dini, o quello con il primo ministro macedone Georgievski, con il quale Thaci si è congratulato per il trattamento riservato dal suo governo ai profughi albanesi [sic!] e ha delineato un'ampia collaborazione. Nel perseguire questi suoi piani, Thaci ha correttamente compreso che i suoi principali nemici sono i russi - un loro importante ruolo, infatti, non farebbe che andare a vantaggio di Rugova, maggiormente gradito a Belgrado. Entrambi i leader possono comunque solidalmente fare affidamento, per i loro piani, sul fatto che il Kosovo ormai è distrutto e totalmente dipendente dall'estero, nonchè sul desiderio della popolazione di potere tornare alle proprie case e riprendere una vita pacifica. Questi sono anche i motivi del totale sostegno popolare alla NATO, ai quali va aggiunto il fatto che l'UCK non è riuscito a proteggere la popolazione di fronte alla macchina da guerra jugoslava, comunque di gran lunga pi potente. Questo sostegno incondizionato proseguirà fino a quando i primi seri nodi verranno al pettine. A tale proposito, va notato che anche se a parole i vari comandanti di zona appoggiano la NATO, nei fatti il loro atteggiamento non è così scontatamente remissivo, come testimoniano il comportamento, per fare due esempi, del comandante della zona di Llap, il noto e apprezzato in Kosovo "Remi", uno di coloro che si sono opposti agli accordi di Rambouillet, il quale ha escluso qualsiasi consegna di armi che non siano di piccolo calibro e di vecchio tipo, affermando che l'UCK rimarrà l'esercito del Kosovo ("The Times", 16 giugno), pur augurandosi diplomaticamente una collaborazione con la NATO, o le dichiarazioni del comandante "Drini", che nel caos dei primi giorni dell'occupazione NATO è riuscito a prendere il controllo di Prizren e rifiuta di prendere in considerazione l'obbedienza a un comando NATO ("The Guardian", 15 giugno). Che i rapporti all'interno dell'UCK siano tesissimi lo testimonia un articolo pubblicato da "The Observer" il 13 giugno (riportato da RFE/RL il 14 giugno), nel quale si riferiscono le parole di un combattente dell'UCK a Kukes, secondo cui "ci sono scontri... tra gli ufficiali e [i soldati regolari di un campo UCK in Albania]... Gli uomini vogliono entrare in Kosova. Se la NATO è lì con centinaia di giornalisti ritengono che anche loro dovrebbero esserci. » anche la loro vittoria e sono scontenti per il fatto che nessuno riconosca il loro ruolo" Un altro soldato sottolinea che "tutti i soldati che sono qui sulla linea del fronte vogliono andare a casa a controllare i loro villaggi... L'UCK avrà difficoltà a cercare di tenere insieme i propri uomini". Un mercenario olandese, che si è dimesso dall'UCK, ha raccontato che "i comandanti stanno combattendo tra di loro per le rispettive posizioni. Ogni comandante ha due guardie del corpo... I comandanti hanno paura l'uno dell'altro. Le cose si metteranno davvero molto male". Il regime di occupazione NATO, la concentazione degli interessi imperialisti in genere nell'area, ma anche il legittimo desiderio di pace e di ordine da parte degli albanesi che rientrano in Kosovo, tenderanno certamente a inibire ogni spinta al cambiamento. Rimane il fatto che non è possibile vedere un futuro di liberazione per il Kosovo senza la rimozione delle attuali dirigenze albanesi (radicali o moderate che siano), come avevamo già scritto all'inizio dei bombardamenti, e senza una politica autonoma dagli interessi dell'imperialismo. La preziosa, seppure tragicissima, esperienza della lotta di liberazione degli albanesi del Kosovo nel corso dell'ultimo anno e mezzo rimane tuttavia un capitolo fondamentale dal quale non sarà possibile prescindere per una ripresa della battaglia per l'emancipazione da ogni dominio, anche se le attuali condizioni materiali, politiche, militari e internazionali sono l'esatto contrario di quello che sarebbe il contesto ideale di una lotta per un'autentica autodeterminazione.
Belgrado continuerà ad avere una forte voce in capitolo riguardo al Kosovo, nonostante la riduzione di quest'ultimo a un protettorato della NATO (o dell'ONU, se la Russia acquisirà un ruolo effettivamente importante). La misura di tale influenza dipenderà dalle modalità dei tentativi di stabilizzazione dell'area da parte delle grandi potenze, dall'intensità dello scontro Europa-USA per l'egemonia e dall'arrivo al potere o meno, in Serbia, di una nuova classe politica. Una leadership moderata pi presentabile a Belgrado aumenterebbe sicuramente il ruolo della Serbia agli occhi dell'Occidente, a condizione tuttavia che tale dirigenza sia in grado di avere basi sufficientemente solide, cosa che sembra al momento difficile a realizzarsi. I danni e le distruzioni causate dai bombardamenti NATO alla struttura economica della Serbia sono enormi, sicuramente pi ingenti di quelli subiti dalla macchina militare, la demoralizzazione tra la popolazione serba è alta, la necessità di concentrarsi sulla ricostruzione e la ripresa di una vita normale avranno con ogni probabilità il sopravvento su ogni altro tipo di mobilitazione ed è difficile che possano riprendere le proteste di studenti, lavoratori e pensionati che sono state intensissime nel 1998. Il salto di qualità fatto negli ultimi due mesi nella limitazione dei diritti democratici in Jugoslavia è stato notevole e, viste le condizioni assolutamente sfavorevoli, anche in questo campo sarà difficile un ricupero. Rimane da vedere quanto resterà coesa l'oligarchia al potere a Belgrado in un momento in cui in Occidente circolano con insistenza i nomi di possibili successori di Milosevic (esponenti governativi come Granic o Karic, oppure, tra le fila dell'opposizione, i nomi ormai piuttosto logori di Djindjic, Panic o Djukanovic) - non è infatti da escludersi che al vertice,ì o ad altri livelli il potere di Belgrado, nel caos del dopoguerra, cominci a sfaldarsi. Milosevic e i suoi si trovano probabilmente in una situazione difficile perchè si sono lasciati sfuggire quella che con ogni evidenza poteva essere una loro parziale vittoria personale (non certo per il loro paese). Naturalmente ci si muove qui nel terreno delle ipotesi, ma all'inizio di maggio sembrava chiaro che ci si stesse avvicinando a una soluzione diplomatica con ogni probabilità pi vantaggiosa per Belgrado, nel momento in cui erano stati liberati i tre soldati americani e Rugova era stato inviato in Italia. In quei giorni si parlava di un accordo imminente, addirittura si prevedeva la data del 15-16 maggio, ma poi tutto è saltato, con lo strano "incidente" del bombardamento dell'ambasciata cinese il 7 maggio e l'avvio della campagna per un intervento di terra guidata da Tony Blair, di cui abbiamo già riferito nella prima parte. Sempre per fare delle ipotesi a posteriori, non è difficile immaginare che chi doveva poi assumersi il comando della missione KFOR e il controllo delle zone maggiormente a rischio (l'Europa), abbia premuto per una soluzione con un'iniziale inferiore presenza serba e, soprattutto, russa. Anche il tempismo dell'incriminazione di Milosevic alla vigilia di un probabile accordo è stato un segno di nervosismo e di lotte interne all'alleanza occidentale. Questo non esclude che poi in un secondo tempo non vi potranno essere nuove aperture dell'Europa nei confronti di Belgrado e Mosca, con i quali i paesi UE hanno salde relazioni, ma non si può non notare in questi giorni che uno dei politici occidentali pi intensamente legati a Belgrado e in particolare a Milosevic e a Milutinovic, cioè il solito Lamberto Dini, abbia nel giro di una decina di giorni elegantemente scaricato il presidente jugoslavo con ripetuti interventi sul "Corriere della Sera", cambiando decisamente registro rispetto a solo due settimane fa. Il regime jugoslavo quindi in questo momento sembra essere perdente, mentre solo fino a poco tempo fa avrebbe potuto capitalizzare molto di pi sulle difficoltà della NATO. Ma, lo ripetiamo, tutti i giochi fondamentali devono ancora essere fatti sul terreno e Milosevic, o un suo eventuale successore, avranno ampio spazio di manovra.

Solo due parole sul contesto balcanico, sul quale ritorneremo più ampiamente nelle prossime settimane. Il "ventre molle" dei Balcani, la Macedonia, ha retto bene solo apparentemente alla guerra. Il trattamento riservato ai profughi albanesi e l'esplicitarsi dell'ostilità dei macedoni nei confronti degli albanesi hanno fortemente alterato la già difficile convivenza tra le due nazionalità. Il problema dei diritti nazionali degli albanesi rimane in larga parte irrisolto e il contesto generale è reso ancora pi grave da un enorme peggioramento della crisi economica, senza prospettive di miglioramento nemmeno a medio termine (e con la conseguente iniezione di enormi aiuti assistenzialistici). Rimangono intatte invece le ambizioni egemoniche di stati vicini come Grecia e Bulgaria. Quest'ultima ha subìto, e subirà ancora, enormi danni dalla guerra contro la Jugoslavia, che il governo di Sofia sta già utilizzando per coprire il fallimento delle proprie politiche economiche, delineatosi con chiarezza già all'inizio di quest'anno, e per ottenere il rinvio della chiusura delle aziende in passivo (e quindi delle conseguenti tensioni sociali), nella speranza di ottenere anch'essa aiuti assistenzialistici dall'Occidente. In Romania la situazione continua a essere catastrofica e tesissima, ai limiti dello "scenario albanese", con un governo che va avanti ormai da mesi tappando buchi e dilapidando mezzi senza alcuna strategia, per fa fronte nell'immediato alle lotte sociali, ma che ha dimostrato la preoccupante tendenza a essere pronto a ricorrere ai carri armati per sedare eventuali proteste di massa. La Croazia è anch'essa sull'orlo di una crisi economica di vasta portata, con ampi segni di mobilitazione dei lavoratori e della popolazione in genere. La guerra della NATO, se si eccettuano la Bosnia e la Croazia, ha provocato un'ampia diffidenza, come minimo, nei confronti dell'Occidente e le difficoltà incontrate dall'alleanza atlantica ne hanno intaccato l'autorevolezza, non solo nei Balcani, ma anche nell'Europa Centro-Orientale. Gli ambiziosi progetti di "patti di stabilità" sembrano in un tale contesto pi una pia illusione che qualcosa che abbia qualche possibilità di riuscita. La partita, nei Balcani, rimane quindi completamente aperta, sotto ogni punto di vista.


NOTA:

[1] Il testo degli accordi di Rambouillet, di cui molti vanno dicendo che prevedeva l'indipendenza per il Kosovo, stabiliva una semplice "revisione degli accordi" dopo tre anni, "prendendo in considerazione la volontà della popolazione, quella delle autorità competenti" e "l'atto finale della conferenza di Helsinki" (quella che prevede l'intangibilità dei confini statali in Europa). Prendere in considerazione la volontà della popolazione (senza specificare se quella del Kosovo o dell'intera Jugoslavia), cincolandola comunque a quella delle "autorità competenti" (quali?) e a un atto internazionale che prevede l'intangibilità dei confini internazionali non può proprio essere considerato nemmeno un impegno tacito per un referendum sull'indipendenza.