LA GUERRA DEL KOSOVA: PERCHE'?
TUTTI I PASSI CHE HANNO PORTATO ALLA GUERRA



27 aprile 1999, di Ilario Salucci, dal sito del Comitato di Solidarietà con il Kosova



PICCOLO MANUALE PER FAR LA GUERRA

Le guerre balcaniche hanno iniziato a seguire - almeno nella loro fase iniziale - un copione definito: il modello che sembra imporsi per efficacia sia militare che propagandistica e' quello delineato dalla preparazione e dal dilagare della guerra in Bosnia Erzegovina, nell'anno 1992 (1).

In questa preparazione i fattori simbolici hanno un peso non marginale - sia per meglio agire sulla popolazione fatta oggetto dell'attacco, sia per permettere a posteriori costruzioni politiche controverse sulle responsabilita' e sulla dinamica degli avvenimenti.
Cosi' in Bosnia l'inizio delle operazioni militari venne attuata dall'esercito serbo durante la festivita' musulmana del Bajram (Eid ul-Fitr). In Kosova verra' fatto lo stesso nel 1998 (2) - nel 1999 il corso degli avvenimenti non permettera' la realizzazione di questo dettaglio. In Bosnia le operazioni militari iniziarono in provincia, a Bosanski Brod, a meta' marzo 1992, per poi estendersi in Bijeljina dal 1 aprile (grazie agli uomini di Arkan) e per esplodere infine nella capitale Sarajevo il giorno stesso dei riconoscimenti internazionali della Bosnia, il 6 aprile. Similmente l'attacco dell'esercito jugoslavo in Kosova inizia il 18 marzo 1999 nella regione di Drenica, per investire la capitale Pristina il giorno dell'inizio dei bombardamenti Nato, il 24-25 marzo. Nell'uno e nell'altro caso vi sono e vi saranno innumerevoli commentatori che stabiliranno un rapporto di causa ed effetto tra l'azione internazionale e l'inizio della carneficina - lo spessore dell'argomentazione sara' nullo, ma la sua presa a livello di settori di opinione pubblica sara' garantita dalla sua stessa semplicita'.

In entrambe le operazioni vi e' una sorta di prova generale per le operazioni nelle capitali, che per le loro dimensioni comportano maggiori problemi operativi. Il 2 marzo '92 a Sarajevo il Partito Democratico Serbo di Karadzic fa una prova di forza a Sarajevo, e blocca mezza citta'. A gennaio del '99 Pristina viene divisa in settori e bloccate tutte le sue vie d'accesso (AIM, 14 febbraio, NE 168).

Entrambe le operazioni militari si configurano come dei "blitzkrieg", delle "guerre lampo", almeno nelle intenzioni originarie. In Bosnia le operazioni militari vere e proprie si estendono dal marzo al settembre 1992 - a questa data il fallimento militare dell'offensiva serba risulta evidente, ed inizia una guerra di posizione che durera' per altri tre anni. In Kosova le valutazioni sulla durata del "blitzkrieg" sono variabili, ma oscillano comunque su un lasso temporale che va da una a due settimane, nelle intenzioni dei vertici militari di Belgrado.

Entrambe le operazioni militari sono accuratamente preparate da mesi, nei loro aspetti logistici, civili e di operativita' militari. Vengono coordinate le operazioni di esercito, truppe del ministero degli interni, formazioni paramilitari e formazioni di civili armati ad hoc. Le amministrazioni civili vengono mobilitate ed anch'esse coordinate nelle operazioni di deportazione e di detenzione di massa - oltre che nella logistica dei rifornimenti alle truppe. Vengono create linee di comando apposite e strutture di coordinamento efficenti. Una volta iniziate le operazioni militari nei villaggi e nelle citta', le azioni di razzia e di saccheggio sono un elemento essenziale, funzionando come "premio" ai soldati.

Entrambe le operazioni vengono denunciate dai mass media internazionali, che tuttavia si guardano bene dal fornire informazioni, pur se diponibili, sulla dinamica militare in atto - al contempo in entrambe le situazioni si registra una sostanziale complicita' da parte delle cancellerie occidentali.

In Bosnia Erzegovina la cosiddetta "comunita' occidentale" prima ha tentato di giungere ad una divisione etnica per via pacifica del paese, successivamente ha osservato l'evoluzione sul campo, ed infine e' stata impotente nella "gestione" del conflitto per oltre tre anni. Il "fallimento dell'occidente" in Bosnia e' stato d'insegnamento.
Ma solo in parte.

IN KOSOVA LA PRIMAVERA ARRIVA PRESTO

Dopo il movimento insurrezionale kosovaro della primavera 1998, la successiva repressione serba e il "congelamento" della situazione attuato grazie all'accordo Milosevic-Hoolbroke dell'ottobre '98, era convinzione generalizzata che si sarebbe assistito ad una nuova esplosione in Kosova nella primavera successiva.
Ma in largo anticipo, il 15 gennaio, a Racak, vicino a Stimlje, le truppe serbe massacrano 45 civili, subito esibiti ai verificatori internazionali, chiamati sul posto dalle stesse autorita' serbe. In questo modo le autorita' serbe danno alla "comunita' internazionale" il messaggio che la guerra civile e' inevitabile, e sempre piu' vicina. Belgrado punta le sue carte sull'innalzamento della tensione (3).

Secondo informazioni fornite dal Washington Post del 18 aprile, la decisione statunitense di "risolvere" anziche' "mantenere confinato senza rischi" il problema kosovaro viene presa dagli Stati Uniti il 19 gennaio: "lo sforzo durato sei anni di soffocare il conflitto in Kosovo e' finito", la guerra civile e' inevitabile, e cosi' inizia una campagna per portare la NATO in Kosova.

Secondo un alto funzionario Usa nel piano americano

"un elemento era la presenza di una credibile minaccia militare. Un altro era di domandare a tutte le parti di mettersi insieme in un meeting dove sul tavolo ci dovevano essere delle richieste avanzate dal Gruppo di Contatto, Russia inclusa. I principi base non dovevano essere negoziabili, inclusa una forza di implementazione della Nato"

L'elemento centrale era la presenza militare in Kosova. Il piano politico era un elemento subordinato. A livello anedottico, Clinton avrebbe detto, a Blair, il 21 gennaio: "se facciamo un'azione militare senza un piano politico avremo dei problemi..." (fonti ufficiali della Casa Bianca).

I giorni tra il 18 e il 29 gennaio sono scadenzati da frenetiche trattative segrete tra i vari alleati atlantici e con la Russia. Che vi siano delle resistenze in alcuni settori verra' evidenziato dal nulla di fatto della riunione Nato convocata il 18 gennaio e dalla battaglia di presunte rivelazioni sull' "affare Racak" combattuta da un lato da Le Monde (20 e 21 gennaio) e dall'altro dal Washington Post (28 gennaio). Qual'e' stata la responsabilita' delle forze serbe? Quale invece quella dell'UCK? Il massacro era davvero avvenuto? In questa "battaglia" non un grammo di verita' emerge a proposito di Racak, la cui dinamica era lampante, ma viene utilizzata strumentalmente Racak per opporsi o favorire il piano Usa di "soluzione" del problema Kosova.
Il 29 gennaio il Gruppo di Contatto concorda su un documento, in cui viene affermato

"l'escalation della violenza - per la quale sono responsabili sia le forze di sicurezza di Belgrado che l'UCK - deve terminare [...] i rappresentanti del governo Jugoslavo e Serbo e i rappresentanti degli albanesi del Kosovo [si devono riunire] a Rambouillet entro il 6 di febbraio sotto la copresidenza di Hubert Vedrine e Robin Cook [...] i partecipanti [devono] lavorare in modo tale da terminare i loro negoziati entro un termine di sette giorni" [Dnevni Telegraf, 30 gennaio, NE 155]

Il documento elaborato dai mediatori (datato 27 gennaio e reso pubblico dal "Balkan Action Council") consegnato alle parti serbe ed albanesi il 30 gennaio, e' largamente uno "specchietto per allodole". Da un lato non vien fatta parola della Nato, dall'altro non figura "l'integrita' territoriale della Repubblica Federale di Jugoslavia" e tra i signatari compare una misteriosa "Repubblica Federale della Repubblica del Kosovo". L'importante e' che le parti convengano a ritrovarsi a Rambouillet - e l'importante e' che la delegazione albanese (la cui composizione secondo Adem Demaci e' imposta dai mediatori internazionali) firmi qualsiasi ipotesi, in modo che venga neutralizzata come soggetto politico, lasciando il campo ai due veri attori, la Nato e Belgrado.
Il rappresentante politico dell'UCK, Adem Demaci si oppone inutilmente alla partecipazione dell'UCK alle trattative di Rambouillet, vista la assenza di garanzie che venga rispettata la volonta' della popolazione kosovara.

Finalmente il 6 febbraio iniziano le "trattative" a Rambouillet, in Francia. Il testo che viene elaborato nel corso dei 17 giorni successivi viene diviso in un blocco di "principi", in una parte politica (Costituzione, polizia e sicurezza pubblica, elezioni, questioni economiche umanitarie e economiche, e "Ombudsman") e in una parte di implementazione militare. Nel testo vengono fissate le regole per un periodo transitorio di tre anni. Il testo che ne esce risulta pesantemente sbilanciato verso le posizioni di Belgrado. In specifico:
- il Kosova viene diviso in comunita' nazionali separate, con sistemi scolastici e sanitari separati; ogni minoranza nazionale ha diritto di veto sul governo kosovaro, ma il governo kosovaro non ha diritto di veto verso quello serbo e jugoslavo (tutta una serie di misure vengono riprese dall'esperienza bosniaca, una sorta di "daytonizzazione" del Kosova). Il Kosova permane all'interno della Repubblica Serba, con un grado di autonomia inferiore a quello di cui godeva in base alla Costituzione Jugoslava del 1974, modificata manu militari da Belgrado nel 1989;
- non si parla di referendum in Kosova alla fine del periodo transitorio per determinare la volonta' della popolazione sullo statuto definitivo del Kosova;
- viene piu' volte riaffermata "la sovranita' e l'integrita' territoriale della Repubblica Federativa Jugoslava";
- l'UCK (in realta' il testo non la nomina mai, ma si riferisce ad essa come "altre forze diverse dalla KFOR, Esercito Jugoslavo e MUP" - MUP sono le truppe del ministero degli interni) dovra' essere sciolta come forza militare e disarmarsi dal 30esimo giorno dal cessate il fuoco (il processo dovra' completarsi al piu' tardi entro il 120esimo giorno); l'esercito e le forze del ministero degli interni di Belgrado manterranno complessivamente 5.000 uomini in Kosova, cifra da raggiungere entro 180 giorni dal cessate il fuoco (con inizio il 60esimo giorno) con armi non superiori a 82mm;
- viene stabilita una forza militare di implementazione dell'accordo, la KFOR, composta di truppe di paesi Nato e non Nato, che agiranno sotto l'autorita', la guida e la supervisione politica del Consiglio della Nato attraverso la catena di comando della Nato.
Il 23 febbraio Belgrado approva nei fatti la parte politica dell'accordo e rigetta quella militare. La delegazione albanese kosovara esprime un'accettazione condizionata - richiedendo due settimane ulteriori di tempo.

L'unica cosa che conta realmente in tutto questo macchinoso testo e' la presenza della Nato in Kosova, l'unica cosa che realmente interessi alle varie potenze occidentali - non certo i diritti della popolazione kosovara, che vengono negati "nero su bianco". Le regole di funzionamento del "Kosovo autonomo" sono talmente macchinose che solo una forza militare internazionale puo' permettere a questa strana creatura di sopravvivere - come in Bosnia (dove con gli accordi di Dayton le promessse che i rifugiati potessero tornare a casa sono rimaste lettera morta, e si e' invece rafforzata la divisione lungo linee etniche con il conseguente rafforzamento delle tendenze sciovinistiche). L'unico interesse della Nato e' quello di rafforzare il proprio ruolo come arbitro della regione.

Quello che segue non riserva sorprese. Il rappresentante politico dell'UCK, Adem Demaci, tenta dal 24 febbraio un colpo di mano nella sua organizzazione perche' non si arrivi alla firma dell'accordo, che considera, giustamente, una capitolazione politica e una neutralizzazione dell'UCK. Dichiara al giornale Kosova Sot (NE 177):

"dobbiamo fare affidamento sulle nostre forze e avere fiducia nel nostro esercito di liberazione e nella vittoria. Possiamo farcela solo unendo le forze con il nostro esercito e non attendendo che qualcuno ci conceda la liberta'".

Dalla sua parte vi e' il nuovo comandante in capo dell'UCK, Suleiman Selimi, il comandante della seconda zona operativa (Llap), Nuredin Ibishi ( "Remi") e quello della prima zona operativa (Drenica), Sami Ljustaku. Queste due zone operative sono il "fiore all'occhiello" dell'UCK, ma non sara' sufficiente. L'operazione non gli riuscira'. Secondo alcune informazioni non confermate anche all'interno del Movimento Popolare del Kosova (LPK) - da taluni ritenuta "l' ala politica dell'UCK" - scoppia uno scontro politico durissimo sulla valutazione della situazione. La vecchia direzione, sulle posizioni di Demaci, viene esautorata.

Il 15 marzo si riaprono le trattative a Parigi. La delegazione albanese firma all'ultimo minuto, il 18 marzo, quando ormai e' diventato chiaro che quella serba non l'avrebbe fatto. Quest'ultima arriva addirittura a Parigi con un voluminoso testo che riscrive integralmente anche tutta la parte politica del testo di Rambouillet, e il presidente serbo Milan Milutinovic, che capeggiava la delegazione jugoslava a Rambouillet, afferma che avrebbe firmato un accordo solo con l'inclusione di tutti gli emendamenti della sua delegazione. Il capo delegazione a Parigi, Ratko Markovic, appena arrivato a Parigi afferma (Vreme News Digest, 22 marzo):

"il Kosovo e' il simbolo dell'entita' statale e nazionale serba, e per questo motivo la Serbia puo' perdere il Kosovo solo in un modo: con una vittoria militare da parte di qualcuno che oggi e' piu' forte di noi, e assolutamente, in nessun modo, attraverso negoziati attorno ad un tavolo. La Serbia non cedera' il Kosovo volontariamente - il Kosovo puo' essere preso solo con la forza. E a questo punto il maggior impegno dei serbi sara' quello di riaverlo indietro".

L'ultimo regalo a Belgrado non sortisce effetti: l'Unione Europea secreta i referti autoptici sulle vittime di Racak effettuati da un team di patologi finlandesi. Il 16 marzo iniziano a entrare nuove truppe serbe in Kosova. Il 18 marzo inizia l'offensiva, sia pure in sordina, a Drenica. Il 20 marzo escono dal Kosova i "verificatori internazionali", l'offensiva serba si scatena. Mitrovica inizia ad essere svuotata il 23 marzo. La notte tra il 24 e il 25 marzo iniziano i raid aerei della Nato. Le truppe serbe investono Pristina, e dal 29 marzo procedono allo svuotamento.

IL GOLGOTA ALBANESE

Belgrado elabora il piano di guerra in Kosova fin dalla fine del 1998. Ne parla come di una rivelazione il ministro degli affari esteri tedesco Joschka Fisher il 7 aprile - stavolta in concordia Le Monde dell' 8, 9 e 10 aprile e il Washington Post dell'11 aprile ne rivelano alcuni dettagli. Il piano sarebbe stato denominato "ferro di cavallo" ed "ha come finalita' battere, o almeno neutralizzare, l'UCK", ed anche "la deportazione di tutta la popolazione albanese del Kosovo". Sarebbe suddiviso in tre fasi, e sarebbe stato messo in opera a partire dall'ottobre-novembre 1998 [?]. Il documento esibito (ma non reso pubblico dalle autorita' tedesche nella sua versione originale) porterebbe la data del 26 febbraio, e che e' nelle mani degli alleati dall'inizio di aprile.
In realta' non si tratta di una rivelazione, ne' per quanto riguarda il piano serbo, ne' per la progettata pulizia etnica del Kosova.
Fin dal 18 gennaio (sul Corriere della Sera) il ministro italiano alla difesa, Scognamiglio, si dimostrava ben informato, parlando di attrezzarsi per evitare l'approdo in Italia di mezzo milione di profughi in fuga dal Kosova nei mesi seguenti.
Ma non c'era bisogno dell'intelligence italiana, o di "un paese confinante della Serbia" o dell'Austria per essere a conoscenza di questi piani. Erano semplicemente pubblici. All'inizio di febbraio l'agenzia stampa dell'UCK, KosovaPress, aveva affermato in un suo lancio:

"Il Servizio Informativo del Quartier Generale dell'UCK ha nelle sue mani un piano segreto delle forze Jugoslave che mostra i dettagli delle prossime operazioni dell'esercito serbo nell'area [...] gli obiettivi operativi a livello militare sono l'eliminazione dell'UCK, in particolare nella parte settentrionale e centrale del Kosova, la purificazione [etnica] completa di un'ampia regione che ha come asse la strada Pristina-Peja[Pec], la purificazione [etnica] completa a est del fiume Sitnica. Gli obiettivi operativi a livello politico sono il raggiungimento di una sicurezza completa e di un controllo politico sulle parti del Kosova oggi sotto controllo dell'UCK e la preparazione di questo spazio come supporto operativo in caso di una possibile divisione del Kosova e nel caso la comunita' internazionale interferisca per fermare ulteriori combattimenti [...]"

Il 24 febbraio il Daily Telegraph (NE 178) pubblica una dichiarazione del gen. John Drewienkiewicz, a capo della divisione operativa della missione di verifica OSCE in Kosova, secondo il quale

"la missione di verifica ha avuto indicazioni dirette dalle autorita' serbe che esse si stanno preparando a inviare 50.000 soldati in Kosovo per annientare l'UCK".

Il 27 febbraio il vice-presidente del governo serbo e presidente del Partito Radicale Serbo (SRS), Vojislav Seselj, afferma in un'assemblea a Zemun (da Vreme News Digest, 8 marzo '99):

"in caso di attacchi americani alla Serbia molti serbi moriranno, ma non ci sara' piu' neppur un albanese in Kosovo e Metohija".

All'inizio di marzo l'agenzia serba Beta (ripreso dal giornale bulgaro Sega dell'11 marzo, NE 188), pubblica un testo titolato "Il peggior scenario possibile":

"varie fonti, vicine ai comandi militari e al governo della Serbia, accennano al cosiddetto "peggiore scenario possibile ", secondo il quale le cose potrebbero essere portate intenzionalmente fino agli attacchi aerei della Nato. Questi ultimi verranno utilizzati come pretesto per un'offensiva decisiva dell'esercito e della polizia, ma non contro le forze del patto, quanto piuttosto contro l'UCK per distruggerla e per ripulire la massima superfice possibile del Kosovo dalla popolazione albanese... con massicci flussi di profughi [...] Sul piano politico [Milosevic] potrebbe mettere in atto delle manovre ad effetto, proponendo nuove trattative sulla base di nuove posizioni di partenza, con un Kosovo ormai nei fatti diviso e con le forze internazionali che garantirebbero una linea di demarcazione e la divisione [...] Il rischio di un tale scenario e' che l'esercito e la polizia finiscano fin dal principio in un pantano nel Kosovo e non riescano nei tempi brevi che richiederebbe una tale operazione a ripulire una parte significativa di territorio [...]"

A rafforzare queste informazioni vi sono le dichiarazioni di Pierre Henri Bunel, l'ufficiale francese che lo scorso ottobre passo' ai servizi serbi i piani d'attacco della Nato. In una sua lettera a Libe'ration, pubblicata il 15 aprile, afferma che informo' Belgrado per convincerla della serieta' delle minacce Nato, e che piu' volte Belgrado, a sua volta, informo' la Nato che avrebbe proceduto alla deportazione di massa della popolazione albanese del Kosova.

Risulta cosi' verosimile quello che afferma il Washington Post il 18 aprile, e che cioe' gli Stati Uniti, al momento della strage di Racak il 15 gennaio, erano informati da tempo dei piani serbi relativi al Kosova. Anche se non lo fossero stati, avrebbero dovuto attendere pochi giorni per poterne venire a conoscenza direttamente dalle agenzie stampa.

La versione ufficiale del ministro della difesa tedesco - che cioe' gli alleati vennero a conoscenza dei piani militari serbi solo dopo l'inizio delle operazioni militari, per l'esattezza l'1 o il 2 aprile - e' quindi una bugia patente. La versione data da diversi esponenti della Nato (in primo luogo il suo comandante in capo, il gen. Wesley Clark) e' ancora piu' insostenibile di quella ufficiale: viene infatti affermato che era attesa un'offensiva serba solo contro l'UCK, e non le misure di deportazione di massa (e un "ufficiale Usa" aggiunge, alla faccia della presunta alleanza Usa-UCK, che si aspettavano la distruzione dell'UCK nell'arco di una settimana di combattimenti [fonte Washington Post cit.]). Quanto avvenne lo scorso anno nel Kosova e' di dominio pubblico. Altrettanto quanto avvenne per anni in Bosnia. Altrettanto tutte le informazioni - provenienti direttamente da Belgrado! - sulle intenzioni del regime serbo. Altrettanto i movimenti militari serbi. Come ha ben osservato un "ufficiale occidentale" al Washington Post: "Non ti servono i carri armati per combattere un'insurrezione [una guerriglia]. Ti servono per distruggere i villaggi".

Ancor piu' patetico il commento per cui l'intervento Nato sarebbe stato giustificato proprio dall'esistenza di questi piani - ufficialmente "rivelati" due settimane dopo l'inizio delle operazioni militari. Tutta la conduzione dell'operazione Nato mostra che non e' stato mosso un dito per impedire o ostacolare questi piani, ne' a livello militare, ne' a livello umanitario. La situazione attuale ne e' la dimostrazione lampante, e l'imbarazzo e le contraddizioni in cui cadono gli esponenti della Nato allorquando ne parlano ne e' la logica conseguenza. Per dimostrare che la repressione serba in Kosova non e' stata causata dagli attacchi della Nato, gli esponenti statunitensi ed europei si autoaccusano ben piu' pesantemente.
L'offensiva serba in Kosova, la distruzione dell'UCK e la deportazione di massa dei kosovari era preventivata. Washington, Londra, Berlino, Parigi e Roma ne erano perfettamente a conoscenza da mesi.

NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE ORIENTALE

Perche' la Nato aveva, ed ha, come principale obiettivo la propria presenza in Kosova? Perche' ha accettato (ben prima dell'inizio della guerra) che il popolo kosovaro venisse espulso in massa dal proprio paese? Perche' il regime di Belgrado non solo ha accettato, ma ha fatto di tutto per precipitare il proprio paese in una guerra con la Nato? Perche' la direzione albanese del Kosova ha firmato un "accordo" che la cancella come soggetto politico? Perche' per evitare una guerra civile la si e' favorita?

Strana guerra quella della Nato contro la Federazione Jugoslava. Una guerra, per le potenzialita' della Nato, estremamente limitata. Al 24 aprile, dopo esattamente un mese di guerra, i raid aerei effettuati sono ufficialmente circa 9.000 (di cui molti, forse quasi la meta', terminati senza l'effettuazione del bombardamento). Durante la guerra del Golfo del 1991, i 42 giorni di bombardamenti videro effettuare piu' di 110.000 raid aerei. Una guerra per alcuni aspetti con sorprendenti preoccupazioni "umanitarie". I generali della Nato, in una serie di situazioni, hanno avvisato Belgrado degli obiettivi dei propri aerei (bombardamento di una serie di caserme, bombardamento del Ministero degli Interni di Belgrado, bombardamento della Zastava) - non fosse stato cosi' le centinaia di vittime serbe sarebbero state un numero enormemente maggiore: solo la Zastava era presidiata fino a poche ore prima del bombardamento da migliaia di persone. La guerriglia dell'UCK, formalmente "alleata" della Nato, denuncia il blocco totale di armi e viveri nei suoi confronti da parte dei paesi Nato, in primo luogo da parte dell'Italia (Corriere della Sera, 23 aprile). I paesi Nato non rilasciano alcuna informazione seria sulla situazione che si sviluppa nel Kosova nonostante i sofisticatissimi sistemi satellitari e di aerei spia di cui dispone. Le minacce roboanti si susseguono, ma talvolta si rivelano dei semplici bluff, come la fantomatica "fase due" delle operazioni militari, la farsa dell'invio degli elicotteri Apache, quella di 300 aerei aggiuntivi, ecc. ecc.
Ancora piu' strana la guerra della Federazione Jugoslava contro la Nato. Sembra che in realta' la Federazione Jugoslava non sia affatto in guerra con la Nato. L'utilizzo dell'antiaerea e' addirittura limitatissimo - provocando nei commentatori militari dei mal di testa nel tentativo di spiegarsi il perche'. Non vi e' stato alcun tentativo di coinvolgere la Bosnia nel conflitto in corso, un paese dove stazionano truppe Nato che sarebbero degli obiettivi relativamenti semplici da colpire. Dopo una fiammata iniziale di manifestazioni anti Nato in Macedonia, le stesse forze filoserbe macedoni si sono ritirate in buon ordine. Il flusso di profughi kosovari cacciati dalle proprie case prosegue in direzione di Macedonia e Albania a ritmi irregolari, quasi a non voler creare situazioni troppo ingestibili in questi paesi.
Il tedesco Hans Magnus Enzensberger l'ha definita "la guerra dei paradossi". A voler prendere alla lettera la propaganda occidentale si finisce in contraddizioni insolubili (La Repubblica, 15 aprile):

"Le vittime in questione [i kosovari] non vengono interpellate sulla loro visione delle cose. Nessuno sembra considerarle competenti. Eppure e' la loro terra quella per cui si combatte. Esse conoscono il Kosovo meglio di ogni militare a Bruxelles o a Washington. Il territorio e' a loro familiare, sono motivate al massimo e molto piu' decise a combattere i loro aguzzini che non un soldato proveniente dal Minnesota, da Shieffeld o da Mainz. Perche' l'Occidente non le arma?"

Una logica, in tutta questa follia, c'e'. Ed e' una logica vecchia di anni, che abbiamo gia' incontrato in Bosnia.

Gli Stati sorti dalla disgregazione della ex-Jugoslavia (ma si potrebbe allargare il discorso ad altri paesi balcanici e dell'est europeo) sono Stati intimamente fragilissimi, governati da oligarchie sorte dalla metamorfosi delle vecchie burocrazie al potere. La loro legittimita' agli occhi della popolazione puo' esser messa in discussione ad ogni maggiore svolta politica o economica.
Gli stessi apparati repressivi tradizionali (l'esercito) sono inaffidabili, e alcuni di questi Stati (Serbia e Macedonia) hanno proceduto a un drastico ridimensionamento delle proprie forze armate, affidandosi invece a truppe dei vari ministeri degli interni e/o a forze paramilitari, entrambe piu' legate al regime al potere per le promozioni e i ruoli assunti o per i rapporti di aperto "mercenariato". Anche dove le forze armate sono state rafforzate, come in Croazia, l'autonomia dei vertici militari e' pressoche' nulla, dipendendo da un complesso intreccio di lobbies all'interno del partito al potere. In tutte queste situazioni l'atteggiamento delle forze repressive a fronte di una rivolta generalizzata nel paese e' piu' che mai soggetta a dubbi - anche senza voler arrivare al caso albanese, dove gli apparati repressivi nel corso della rivolta del marzo 1997 si sono letteralmente liquefatti nel giro di pochi giorni.
Tutti questi paesi hanno una struttura sociale semplificata all'estremo - un pugno di oligarchi arrichitisi in questi anni a dismisura, circondati da un numero ristretto di mafiosi, manager e capitalisti d'assalto; ed una popolazione costretta ad una pauperizzazione senza vie d'uscita (se non l'emigrazione, contro cui pero' i paesi dell'Europa occidentale hanno eretto il "muro di Schengen"), con sacche di sottoproletarizzazione che coinvolgono milioni di persone - in primo luogo i rifugiati: 250.000 serbi cacciati dalla Croazia e 1.200.000 tra serbi, croati e bosniak cacciati dalle proprie case in Bosnia, e prima dell'attuale pulizia etnica in Kosova centinaia di migliaia di persone costrette al non-lavoro (85% di disoccupazione!), dipendenti dalle rimesse degli emigranti, per i licenziamenti etnici del 1989-1990 e il successivo sistema di apartheid nelle assunzioni.
Lo "scenario" albanese del 1997 per tutti questi paesi e' reale, soprattutto in una situazione in cui non si intravede alcun miglioramento economico della situazione, ma addirittura un peggioramento, in seguito all'andamento sempre piu' preoccupante dell'economia mondiale.

La prospettiva che si stava delineando nella primavera del 1999 in Kosova era quanto di piu' preoccupante si poteva immaginare per le potenze imperialiste: una seconda ondata insurrezionale kosovara, meglio organizzata e preparata di quella dello scorso anno, a fronte di uno stato serbo che decideva di giocare il "tutto per tutto". Tutto cio' in una situazione estremamente instabile ed "infiammabile" in tutta l'area. Dalla guerra bosniaca le potenze imperialiste hanno imparato che queste situazioni sono gestibili solo a due condizioni: una neutralizzazione degli attori piu' incontrollabili (in Bosnia la direzione serbo-bosniaca, esautorata al momento delle trattative di Dayton, e con l'allora promozione sul campo di Milosevic al loro posto), ed una presenza militare diretta ed effettiva nelle zone chiave piu' "calde". L'effettivita' della presenza militare non e' relativa solo alla consistenza delle forze impegnate, ma anche e soprattutto all'esistenza di una linea di comando chiara e definita che permetta di rispondere alle varie situazioni che si possono venire a creare - di qui l'opposizione determinatissima degli Usa ad un comando Onu delle forze internazionali in Kosova, vista l'esperienza catastrofica, l'inaffidabilita' di questo tipo di missione in Bosnia nel 1992-1995.
Questo e' il copione che ha mosso Usa ed Europa nell'anno 1999. Gli obiettivi erano quindi due: neutralizzare l'UCK e essere presenti a livello militare in zona, per scongiurare ogni situazione incontrollabile nella sua dinamica e nelle sue conseguenze - e soprattutto gestita da altri.

Pace e sicurezza nei Balcani, viene affermato dai propagandisti occidentali. Hanno sinistramente ragione. La pace dei cimiteri e la sicurezza dei loro mercati.
I fragili stati balcanici o ex-jugoslavi si reggono grazie ad una generalizzata oppressione nazionale di altri gruppi nazionali. La presunta corresponsabilita' di massa che viene creata in questa oppressione e' l'unico cemento che lega regimi oligarchici e masse depauperizzate. I regimi al potere nei Balcani cercano questa corresponsabilizzazione: organizzando massacri compiuti da settori di massa (non solo le bande paramilitari, ma anche gli eserciti a coscrizione obbligatoria, e gruppi di civili armati), oppure organizzando il "sostegno popolare" ai peggiori misfatti (Canak, il segretario della Lega Socialdemocratica di Voivodina, ricordava qualche giorno fa i cittadini di Novi Sad che gettavano fiori sui carri armati di ritorno dal macello di Vukovar; o l'epica festa popolare che coinvolse tutta Belgrado il giorno in cui venne dichiarato lo stato di guerra in Kosova nel 1989, e si iniziava a sparare sui manifestanti...). I regimi al potere nei Balcani vivono nella misura in cui questa corresponsabilizzazione e' sentita come tale dai diretti interessati, "che credono di avere in pugno la propria vita mentre sono trascinati da una spirale di follia" (4) accuratamente organizzata dai poteri in carica, creando un "legame di sangue" che puo' essere spezzato solo dalla presa di coscienza che la "colpevolezza collettiva" non esiste, ma solo quella degli istigatori e degli organizzatori delle pulizie etniche.
Relativamente alla Bosnia e' stato scritto (5):

"E' necessario che la condanna degli istigatori della pulizia etnica ne sveli gli obiettivi e i meccanismi, espellendone la responsabilita' al fuori del tessuto della societa' bosniaca. Questa condanna degli istigatori non ha tuttavia senso se non nella misura in cui e' accompagnata da una larga amnistia degli attori, se mostra che la minaccia non e' negli occhi del komsija [il vicino in un sistema di coesistenza quotidiana tra differenti comunita', secondo regole strette di rispetto e reciprocita'], ma nella testa del politico, e permette all'assassino di oggi di tornare ad essere il komsija di ieri. La condanna di atti individuali deve combattere l'idea della colpevolezza collettiva e non rinforzarla".

Un Kosova indipendente e democratico avrebbe spezzato questo "legame di sangue", aprendo le porte alla caduta di Milosevic, non ad opera dei fascisti di Seselj, ma ad opera di un rinnovato protagonismo di massa (e la caduta del regime di Milosevic avrebbe aperto prospettive dirompenti in tutti i Balcani). Non e' una questione ideologica di "nazionalismo", o di "nazionalismo etnicista ", quanto di realta' materiale di oppressioni nazionali, di "pulizie etniche" e di "cattiva coscienza" di massa per queste realta'.

Da questo punto di vista il rispetto di "pace e sicurezza" secondo la vulgata occidentale si coniuga perfettamente con le bande di Arkan. Le potenze occidentali non hanno mai fatto alcunche' contro le operazioni di pulizia etnica compiute nell'ex Jugoslavia, in Croazia o in Bosnia - anzi ne hanno sempre mantenuto, garantito e legittimato i risultati, perche' questi risultati sono essenziali alla sopravvivenza di questi Stati. A livello propagandistico viene certo detto l'opposto, qualche sparuta famiglia e' tornata in Croazia o nella propria casa in Bosnia, e questo serve a dimostrare le "buone intenzioni occidentali". La realta' rimane comunque indiscutibile: ben piu' del 95% dei profughi di questi paesi e' ancora tale, in un remake di tante altre situazioni, a cominciare da quella palestinese. L'offensiva serba in Kosova e la cacciata della popolazione kosovara dalle sue terre e' un "danno collaterale" della missione Nato, tutto sommato benvenuto - non e' certo la prima volta, e le volte precedenti ha funzionato egregiamente per la "stabilita'" regionale.
In ultima analisi, cio' che conta davvero per l'Occidente e' evitare che le masse di disperati, lavoratori, rifugiati, disoccupati, si muovano per proprio conto ed inizino ad imparare dalla propria esperienza. Se Milosevic deve cadere meglio che sia per una congiura di palazzo che per una sommossa di piazza.

Belgrado ha giocato il "tutto per tutto", ma nelle condizioni migliori - nel momento di un'aggressione esterna, il che ha permesso un compattamento interno prima impensabile. La guerra con la Nato ha facilitato e coperto la "guerra vera", quella dove si battono i soldati e dove la motivazione degli esseri umani coinvolti e' decisiva - quella che e' in corso in Kosova. Per questo ha giocato al rialzo in tutti questi mesi nei confronti della "comunita' internazionale", trovando un'ottima disponibilita' da questo punto di vista. Le "trattative" di Rambouillet e di Parigi avevano come unico scopo la neutralizzazione dell'UCK - Washington e Belgrado avevano gia' preso le proprie decisioni. La Nato era interessata ad essere presente in Kosova, Belgrado era interessata a "risolvere" la questione kosovara a modo suo. I due interessi non necessariamente erano contrastanti. Non lo sono stati.

Fin da gennaio la posta in gioco era data: pulizia etnica del Kosova, presenza della Nato nella zona. Come ha affermato un analista del Pentagono anche le regole del gioco erano date: Belgrado non poteva sopportare un'iniziativa militare Nato troppo pesante e la Nato non poteva sopportare un'operazione troppo lunga. Dal 24 marzo la partita e' iniziata ("come un gioco a carte su Internet", ha scritto qualcuno con efficace cinismo). Ma scenari e realta' possono divergere. Dopo due-tre settimane (il tempo approssimativamente preventivato) la partita non era ancora finita - l'esercito Jugoslavo si e' "impantanato" in Kosova come temeva il documento pubblicato da Beta, e nonostante tutte le dichiarazioni (informazioni o auspici?) occidentali che fin dall'inizio di aprile dicevano che "l'UCK e' finito", la guerra in Kosova continuava. Allora sono iniziati i nervosismi, le prese diposizioni contraddittorie, gli interrogativi su "come uscirne".
Man mano che il tempo passa rispettare "le regole del gioco" tacitamente pattuite dai due attori diventa sempre piu' difficile, se non impossibile - ed allora, ad un certo punto, lo scenario cambiera' in modo radicale, ed anche la posta in gioco sara' un'altra. Mentre scriviamo (27 aprile) non abbiamo gli elementi per poter affermare se questo punto sia gia' stato raggiunto, o se sia ancora davanti a noi.

L'unica questione che non era scontata e' stata il posizionamento della direzione albanese del Kosova. Non era scontata la capitolazione che ha effettuato - gli elementi necessari a cogliere la posta in gioco erano a sua disposizione. Infatti su questo si e' creato un grande scontro politico, vinto purtroppo dai settori che non volevano fare affidamento al proprio popolo, ma alle cancellerie e alle cannoniere occidentali - la posizione che da sempre ha sostenuto la Lega Democratica del Kosova di Rugova (incomprensibilmente appoggiato ed apprezzato dalla sinistra occidentale). Si e' cioe' consumato a febbraio- marzo un processo di "rugovizzazione" dell'UCK.
Tutto cio' puo' essere comprensibile avendo coscienza della sproporzione di forze tra la guerriglia kosovara e le forze armate serbe. L'errore e' stato di ritenere tale rapporto di forze come dato ed immutabile. L'errore e' stato ritenere che la strada della liberazione del Kosova non passava anche da Belgrado. E' vero tuttavia che la sinistra occidentale ha commesso errori ben maggiori.

UNO SGUARDO AL FUTURO

Alcuni commentatori hanno centrato l'attenzione sulle concorrenzialita' interimperialiste nel cercare un "razionale" all'attuale intervento Nato. In quest'ottica Washington cercherebbe di mettere in difficolta' i suoi concorrenti europei creando un'area di instabilita' nei Balcani, ponendo quindi delle forti ipoteche alla costruzione di un'Europa politica unificata. Tale interpretazione ci pare totalmente insostenibile. Non si spiegherebbero ne' i dispendiosi interventi anche statunitensi in Bosnia Erzegovina da quasi quattro anni, che possono avere molte finalita' ma non certo quella di creare un'area di instabilita', ne' la politica statunitense in questi ultimi sette anni in Kosova, miranti a "contenere" ogni tipo di conflittualita' in quest'area, ne' il motivo di un'eventuale cambiamento strategico cosi' repentino, ne' il perche' la scelta di destabilizzazione dei Balcani sia stata fatta agendo tramite una guerra alla Federazione Jugoslava, e non invece in modo molto piu' semplice e senza esporsi troppo, "gettando un po' di benzina" nella ricettiva situazione bosniaca.
Anche l'ipotesi secondo la quale la presenza di truppe nei Balcani avrebbe per Washington un risvolto antieuropeo non ci sembra - a questo livello - molto convincente, considerando tra l'altro che l'eventuale forza Nato in Kosova, la KFOR prevista da Rambouillet, avrebbe dovuto avere un comando europeo.
La concorrenzialita' europeo-statunitense, se non e' causa, motivo delle decisioni Nato di bombardare la Federazione Jugoslava, e' sicuramente pero' un elemento importante che fa da sfondo alla dinamica di queste settimane. A questo proposito e' importante inquadrare da un lato le scelte strategiche dei vari attori imperialisti coinvolti, dall'altro ancorare queste scelte ai concreti interessi che li muovono (6).

Per quanto riguarda gli Stati Uniti un elemento centrale e' la leadership militare che hanno sempre piu' assunto in questi anni. Le spese per la difesa in Usa sono oggi molto piu' alte che in molti degli anni della guerra fredda, circa 260 miliardi di dollari nel 1997, incrementati di 20 miliardi (secondo una decisione del settembre 1998) ogni anno fino al 2008, anno in cui questa spesa raggiungerebbe il tetto di 460 miliardi di dollari. Questa cifra finale supera di gran lunga anche la spesa che venne effettuata negli anni delle "guerre stellari" di reaganiana memoria, che ebbe un picco nel 1985 (anno in cui arrivo' a 350 milioni). Le spese militari hanno un senso nel confronto con quelle degli altri paesi: a questo proposito gia' oggi le spese statunitensi sono pari a quelle combinate di Russia, Giappone, Francia, Germania, Gran Bretagna e Cina. Il complesso dei paesi Nato nel 1985 spendeva per la difesa il 48% del totale di questo tipo di spese a livello mondiale - nel 1996 questa cifra era arrivata al 57%.
Questo livello altissimo di spese militari - nonostante la fine della guerra fredda - viene giustificato ufficialmente negli Stati Uniti con la necessita' di poter far fronte a due crisi regionali simultanee, ipotizzando classicamente Iraq e Corea del Nord. Questo tipo di giustificazione non regge alla prova dei numeri: le spese per la difesa dell'Iraq sono oggi probabilmente vicine ai 2 miliardi di dollari l'anno e quelle della Corea del Nord, 3 miliardi di dollari - oltre a considerare gia' l'altissima spesa militare dei paesi alleati agli Usa che confinano con Iraq e Corea del Nord, gia' solo la loro di gran lunga superiore a quella di questi due paesi.
Secondo diversi analisti il "peggiore scenario possibile" a cui la macchina militare statunitense si sta attrezzando e' quella di far fronte simultaneamente ai due soli oppositori dichiarati all'egemonia americana il cui comportamento non e' prevedibile a medio e lungo termine, e la cui scala fisica li pone su un piano paragonabile a quella degli Usa: la Russia e la Cina. Solo questi due potenziali avversari possono giustificare il livello militare mantenuto dagli Usa. Ma questa politica di "contenimento attivo" della Russia e della Cina si avvicina molto alle "profezie autorealizzantisi", con la Russia in specifico che reagisce allo spostamento strategico a est della Nato cercando di riorganizzare il suo tradizionale campo imperiale.
In questo quadro l'atteggiamento degli Usa verso i suoi partner-concorrenti europei e' ambivalente: cosi' ad esempio viene favorito un incremento del ruolo militare della Germania (e dell'Europa nel suo complesso, con lo slogan "condividere il fardello"), nel contesto di una alleanza americana diretta contro la Russia, in modo tale da aumentare le ansieta' della Russia, e portarla quindi a cercare le buone grazie degli Usa. Dall'altro la scelta strategica statunitense di mantenere un significativo livello di tensione con la Russia giustifica la sovranita' statunitense sui paesi paesi europei, bloccando ogni movimento verso alleanze regionali (in questo caso euro-russe) che potrebbero sfidare l'egemonia americana. Una particolare applicazione delle vecchie regole kissingeriane.
La scelta di Washington non e' quella di fare il "poliziotto mondiale", ma di controllare le zone geostrategiche chiave - il Mar Caspio in considerazione dei flussi di idrocarburi, ed il Mar Nero nella prospettiva di "contenimento" della Russia. Questi interessi strategici si concretizzano infine secondo taluni non tanto in un'ipotetica "aggressione militare" russa (o cinese), ma nell'ipotesi ben piu' realistica di implosione, disgregazione di questi stati, grazie anche alle tempeste economiche del sistema capitalistico mondiale. In questo senso la dichiarazione di Madeleine Albright secondo la quale la Bosnia e l'Albania sono i "modelli" ai quali la Nato deve far fronte, assume una rilevanza particolarmente importante.

Da parte europea e' necessario tenere a mente due date chiave: una e' il 1992, quando una troppo pubblicizzata PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune dell'Europa) viene messa in soffitta dopo il fallimento clamoroso subito di fronte alla crisi jugoslava; l'altra e' il dicembre 1996, quando in uno storico vertice franco-tedesco (che produsse l' "accordo di Nuremberg", sostanzialmente riconfermato dall'accordo franco-britannico del dicembre 1998 di Saint Malo) viene fissato da un lato che il quadro atlantico non e' superabile, con la rinuncia da parte francese delle velleita' di armamento nucleare indipendente secondo un'asse franco-inglese; dall'altro viene deciso di procedere a una politica militare integrata europea spostando il conflitto tra Unione Europea e Stati Uniti esclusivamente nel quadro della Nato, e fissando una politica a lungo termine di cooperazione industriale militare a livello continentale, e di progressiva integrazione a livello di comandi, intelligence, logistica e addestramento (tra l'altro si e' avuta la nascita di un corpo franco-tedesco, di "Euromarforce", ecc.).
Da questo orientamento nasce il continuo braccio di ferro tra Washington e l'Europa durante il vertice di Madrid della Nato del luglio 1997, e quello di Washington dell'aprile 1999 sul tema della "europeizzazione" della Nato.
Il fallimento del PESC (sostanzialmente mai piu' ripreso dalla soffitta dal lontano '92, se non a livello puramente cartaceo di "buone intenzioni") mina tuttavia questi sforzi di coordinamento militare. L'Unione Europea continua ad essere una combinazione di interessi imperialisti tra loro contraddittori a tutta una serie di livelli, e piu' che una mancanza di opzioni militari e' la mancanza di opzioni politiche univoche che costituisce un handicap decisivo nell'antagonismo strutturale tra Usa ed Unione Europea. Se la direzione e' sicuramente quella della costruzione di un "imperialismo europeo", la strada appare ancora lunga.

La politica balcanica dei vari imperialismi ne e' una buona illustrazione. In termini economici le uniche potenze imperialiste presenti nella zona sono quelle europee (gli Stati Uniti sono sicuramenti presenti nella zona, ma comparativamente ai paesi europei lo sono in modo del tutto marginale), che puntano alla conquista di interi monopoli, come quelli delle telecomunicazioni, delle banche, delle materie prime o delle forniture militari e sono interessate ai grandi progetti infrastrutturali, spesso finanziati con aiuti occidentali (come i vari grandi corridoi di trasporto o energetici), con un livello pero' di concorrenzialita' molto accentuata tra Italia, Germania, Francia, Gran Bretagna e Grecia (7). A livello militare i vari paesi europei puntano a interventi di cui possano avere anche il comando (o almeno parte del comando), riuscendovi in svariate occasioni: missione italiana in Albania, missione Nato in Macedonia, forze di pronto intervento balcaniche, ecc. Nonostante questo, tutti gli interventi politici e militari significativi da parte imperialista nell'area balcanica si sono realizzati grazie soprattutto all'apporto statunitense (intervento Nato in Bosnia nel settembre 1995; trattative di Dayton; trattative di Rambouillet; intervento Nato nella Federazione Jugoslava nell'aprile 1999).

Tutto cio' sta a nostro avviso a indicare che l'interesse dei vari imperialismi per l'area balcanica e' strutturato a vari livelli:
1. interessi economici contraddittori da parte dei vari paesi europei, senza un significativo coinvolgimento degli Stati Uniti
2. interessi geostrategici comuni tra Europa e Stati Uniti nella misura in cui i Balcani sono un ponte di passaggio delle risorse energetiche esistenti nell'area caspica
3. interessi geostrategici comuni tra Europa e Stati Uniti nella misura in cui i Balcani assicurano un'avanzata a Est nel quadro di una politica di "contenimento attivo" della Russia
4. interessi politici comuni sul mantenimento di un'area di stabilita' in quest'area (la "pace e sicurezza" dei propagandisti), a fronte di rischi crescenti di collasso dei paesi considerati, sia per motivi economici che sociali. Per questo motivo viene considerata decisiva la presenza militare della Nato (costituzione della SFOR in Bosnia), o di strumentazioni militari ad hoc (protettorato de facto dell'Italia sull'Albania), nonostante i conseguenti costi economici sproporzionati che i paesi occidentali si devono accollare.

A nostro parere se i motivi indicati ai punti (2) e (3) forniscono una giustificazione del perche' i paesi occidentali non "lasciano andare per i fatti propri" i paesi balcanici, e continuano ad occuparsene, il motivo indicato al punto (4) e' l'elemento chiave a base della decisione della Nato di intervenire dalla notte tra il 24 e il 25 marzo 1999, di fronte ad una situazione in cui da un lato s'annunciava una insurrezione kosovara e lo stato serbo si decideva a giocare "il tutto per tutto" - anche la propria esistenza - contro questo movimento. Il tutto in un quadro di etrema fragilita' sociale di tutta l'area balcanica.
La comunanza di interessi strategici relativi a tutti questi punti cementa l'Alleanza Atlantica. Gli specifici interessi economici difformi all'interno dell'Europa moltiplicano invece la cacofonia europea sulle modalita' specifiche di raggiungimento di questi obiettivi - nonostante i documenti cartacei che periodicamente ribadiscono la necessita' della cosiddetta PESC. L'esempio piu' lampante e' dato dal comportamento del ministro degli esteri italiano Dini, a capo di una potente lobby filo-Milosevic e filo-Berisha, con grossi interessi economici in questi paesi.
L'esperienza politico-militare che le potenze occidentali stanno acquisendo nel caso kosovaro, e che si viene ad aggiungere all'esperienza acquisita in Bosnia ed in Albania, costituisce infine un test importante per una strategia che si pone come orizzonte quello di far fronte a situazioni similari a livello ben maggiore - a livello della Federazione Russa.

La contraddizione tra Europa nel suo complesso e Stati Uniti, pur rimanendo largamente inoperante nel conflitto attuale (oltreche' in quelli passati) nei Balcani, e' comunque un dato strutturale che non sara' aggirabile nei prossimi anni, o decenni. Convergenza politica tra i vari paesi europei per la realizzazione della PESC, europeizzazione della Nato, consolidamento di un reale capitale europeo (a partire da quello militare), sono tra i vari elementi posti sul tavolo, ed oggi ancora irrisolti. Lo stadio ancora embrionale di questi processi non permette tuttavia di effettuare scenari che non siano largamente ipotetici.

Meno ipotetica e' invece la prefigurazione di una uscita in positivo dall'attuale situazione. Questa "uscita" non puo' non basarsi sul soddisfacimento dei diritti individuali e collettivi, nazionali e di classe, di tutte le popolazioni di questi paesi. Sia pur contraddittoriamente, ed in modo limitato, assistiamo al riemergere di lotte classiche della classe operaia, a sviluppi di formazioni che praticano una guerra di guerriglia nelle situazioni socialmente piu' disgregate, e a rivolte - jacquerie di massa con l'espressione a livello territoriale di organismi di rappresentativita' autonoma. Il futuro che il moderno mondo "globalizzato" riserva ai popoli balcanici e' un futuro di deindustrializzazione, miseria ed oppressione la piu' spietata. Solo sulle spalle di questi popoli e su quelle del movimento operaio occidentale riposa l'alternativa a questo inferno.



*Desideriamo ringraziare per l'apporto di informazioni e riflessioni da parte delle seguenti mailing list: "Notizie Est" (nel testo abbreviato come NE), "Inprecor-International Viewpoint", "Solidarity-Against the Current".*



NOTE:

(1) Sulle vicende che hanno preceduto lo scoppio della guerra in Bosnia si veda Paul Shoup, The Bosnian Crisis in 1992, in: S. Petra Ramet - L. S. Adamovich (eds), Beyond Yugoslavia. Politics, Economics, and Culture in a Shattered Community, Westview Press, 1995.
(2) Prendiamo questa informazione da un posting del prof. Stephen Schwartz su H-DIPLO.
(3) Sul massacro di Racak si veda lo "Speciale NE", 148-153.
(4) La frase e' del regista Paskalievic.
(5) Xavier Bougarel, Bosnie. Anatomie d'un conflit, La Decouverte, 1996.
(6) Per approfondimenti su quanto segue rinviamo a: Gilbert Achcar, The Strategic Triad: The United States, Russia and China, New Left Review, january-march 1998; Luis Oviedo, Un nuevo papel para la OTAN, En defensa del marxismo, enero 1999; Jean-Louis Michel, Una NATO sempre nuova, Guerre & Pace, dicembre 1998; Bruno Carchedi-Guglielmo Carchedi, Contradictions of European Integration, Capital & Class, january-march, 1999.
(7) Molto si e' discusso in Italia su questi corridoi come motivo dell'intervento militare della Nato contro la Federazione Jugoslava - con tutto uno spettro molto ampio di interpretazioni (tra di loro incompatibili). Rimane il fatto che la questione dei "corridoi" est-ovest e' da un lato materia di concorrenzialita' intraeuropea ben piu' che tra Usa ed Eu, e dall'altro il fatto che la questione "corridoi" e' ancora in larga parte progettuale - mancano protocolli d'intesa tra i paesi interessati, i finanziamenti effettuati sono risibili, ecc. Sul cosiddetto "corridoio 8", che dovrebbe sboccare in Albania, ricordiamo che i suoi maggiori sostenitori sono stati fin'ora Italia ed Usa, che sulla questione Federazione Jugoslava-Kosova hanno assunto le due posizioni piu' distanti all'interno dell'Alleanza Atlantica - ci pare la dimostrazione piu' lampante dell'assenza di correlazione tra le scelte politiche effettuate in questi ultimi mesi e specifici interessi economici relativi ai cosiddetti "corridoi".