MOVIMENTO OPERAIO E QUESTIONE MACEDONE DAL 1893 AL 1944
INTRODUZIONE


ottobre 2001, di Ilario Salucci

 

In questa sezione presentiamo quattro testi che investigano i rapporti tra le organizzazioni del movimento operaio (socialdemocratiche, comuniste e anarchiche) e la questione macedone nel primo cinquantennio del XX secolo. In questi 50 anni la Macedonia (nell'accezione geografica che comprende l'attuale Repubblica di Macedonia dell'ex Jugoslavia, la Macedonia del Pirin attualmente parte della Bulgaria e la Macedonia egea attualmente parte della Grecia) ha vissuto l'insurrezione di Ilinden nel 1903, due guerre balcaniche, due guerre mondiali, più svariati colpi di stato, insurrezioni, rivolte, repressioni e guerre civili. L'ultimo capitolo di questo sanguinoso ciclo fu la guerra civile greca che si protrasse fino al 1949 e che ebbe uno dei suoi epicentri proprio nella Macedonia egea, e la cui vicenda non è purtroppo rievocata in questo nostro "speciale" storico.
La storia macedone, oltre che essere particolarmente complessa, è terreno di battaglia tra sostenitori di tesi completamente opposte ancora oggi, con forti implicazioni politiche contemporanee, e anche i saggi che qui presentiamo non potevano sfuggire a questa situazione. Di qui i toni polemici presenti in alcuni dei testi presentati.

Tutti i saggi che seguono sono presentati per Balkan senza le note originali. Il primo testo che presentiamo è di Fikret Adanïr, apparso originariamente nel 1994 nel volume Socialism and Nationalism in the Ottoman Empire 1876-1923, edited by Mete Tunçay and Erik Jan Zürcher, London. L'autore è uno stimato studioso sia della questione macedone sia della storia sociale ottomana. Il suo saggio affronta il modo in cui le forze socialiste affrontarono, tra il 1893 e il 1908, la questione macedone: la solida base documentaria e l'estensione delle tematiche affrontate, dalla situazione socio-economica macedone alle concrete opzioni politiche delle organizzazioni socialdemocratiche esistenti al tempo, sono i pregi di questo studio.
Il secondo testo è del grande studioso di storia del movimento operaio, il rumeno George Haupt. Pubblicato in Italia nel lontano 1972 sulla rivista Movimento operaio e socialista, affronta la vicenda della Federazione Operaia Socialista di Salonicco tra il 1908 e il 1914: fino all'incorporazione nella Grecia di Salonicco e della Macedonia egea, al termine della prima guerra balcanica nel 1912, la FOS fu la maggior organizzazione socialista nell'Impero ottomano, con un grande radicamento nel proletariato di Salonicco, che al tempo era la "capitale" della Macedonia, la seconda città dell'Impero e contava una importante popolazione ebraica. L'affascinante vicenda della FOS è stata, dopo questo saggio di Haupt, affrontata in una serie di studi, di Paul Dumont (si veda la bibliografia) e altri ricercatori, e sulla realtà di Salonicco continuano a uscire saggi e volumi, ma questo vecchio lavoro di Haupt rimane valido ancora oggi, rivelando le eccezionali capacità di questo studioso prematuramente scomparso nel 1978.
Il terzo testo è la trascrizione di un intervento del 1978 di Marie-Paule Canapa sulla politica del Comintern relativa alla Macedonia, dal 1918 al 1941, pubblicato nel volume L'experience sovietique et le probleme nationale dans le monde. 1920-1939, edito dall'Institut National des Langues et Civilisations Orientales (Inalco) e pubblicato a Parigi nel 1981. L'argomento trattato da Canapa è quantomai complesso e controverso, ma questa ricercatrice riesce a trattarlo in modo chiaro ed esauriente (per la documentazione disponibile a metà degli anni '70), e cogliendo addirittura snodi politici fino ad allora totalmente ignorati ­ come la svolta del 1934 verso il "macedonismo di sinistra".
L'ultimo testo è di Vladimir Claude Fi_era, ed è tratto dal suo volume Les peuples slaves et communisme de Marx à Gorbatchev, pubblicato a Parigi nel 1992. Fi_era affronta il periodo 1941-1944 in un breve e denso testo, che è, a mio avviso, la migliore trattazione sintetica esistente su questo tema.

Adanïr sostiene un'analisi controcorrente (rispetto alla comune opinione storiografica esistente fino a una ventina d'anni or sono) dei rapporti di proprietà nelle campagne macedoni a cavallo tra '800 e '900, e afferma che il sistema del çiftlik (grandi proprietà agricole in mano a non contadini, dove lavoravano schiavi, mezzadri e lavoratori migranti, producendo beni destinati soprattutto al mercato mondiale) era sostanzialmente marginale, negando in questo modo un'origine sociale ed economica delle rivolte nazionali macedoni. Inoltre prende nettamente posizione a favore della politica di riconciliazione nazionale attuata dai Giovani Turchi nei primi mesi dopo la "rivoluzione costituzionale" del luglio 1908 (iniziata in Macedonia con la rivolta dell'esercito ottomano e insurrezioni a Seres, Monastir, ecc.), e critica ferocemente la posizione adottata dai socialisti bulgari "stretti" di Dimitar Blagoev, a suo parere in obiettiva consonanza con l'ala destra nazionalista del governo bulgaro. Il ragionamento di Adanïr, che include anche una serie di forzature, fa perno sulla necessità ­ secondo la sua ricostruzione delle posizioni degli "stretti" di Blagoev - della distruzione dell'Impero Ottomano per arrivare alla costituzione della Federazione Balcanica, obiettivo di sempre dei movimenti socialisti: fissarsi come obiettivo questa distruzione comportava secondo Adanïr il rigetto del tentativo di "riconciliazione nazionale" dei Giovani Turchi, e implicava necessariamente (come fu nel 1912) guerra e divisione della Macedonia.
Personalmente non concordo con questa tesi di Adanïr. Non ritengo che il dilemma mantenimento/distruzione dell'Impero ottomano fosse la chiave di volta per una politica di pace nei Balcani ­ anche se un dilemma ben presente nel movimento socialista di allora. Non fu comunque affrontata quasi mai nei termini secchi del mantenimento o meno dello status quo, ma venne quasi sempre inserita in una o in un'altra visione del progresso economico, democratico e sociale dei Balcani e della Turchia. E considerare che l'elemento decisivo per mantenere la pace fosse allora il mantenimento dello status quo territoriale è a mio avviso un approccio (più giustificabile allora che oggi, a distanza di novant'anni dagli avvenimenti in discussione) che esclude dall'analisi i fattori decisivi all'opera che portarono l'Europa al baratro della prima guerra mondiale. L'approccio di Adanïr porta inoltre a forzature nella lettura di specifici fatti che rivelano l'inadeguatezza della sua lettura complessiva. Così, ad esempio, rievocando "Repubblica" di Kru_evo (dal 3 al 13 agosto 1903), Adanïr, per fornire un'immagine dell'ORIM (Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone) piattamente filobulgara e antimusulmana, omette di ricordare che questa cittadina, di circa 11.000 abitanti all'epoca, era abitata prevalentemente da valacchi, non da slavo-macedoni, e che la struttura dell'ORIM in zona era anch'essa composta maggioritariamente da valacchi; e non cita neppure che il Comitato Rivoluzionario che gestì la città fu composto da due esponenti valacchi, due slavo-macedoni e due albanesi. Adanïr inoltre afferma che l'appello di Kru_evo alla popolazione musulmana fu tardivo, ma in realtà da tempo l'ORIM sosteneva la posizione espressa in quell'appello ­ pur se questo non impedì le uccisioni e le distruzioni ai danni di civili musulmani e delle loro proprietà da parte di alcune ãete dell'ORIM durante la rivolta. Infine pur se la popolazione albanese e in generale musulmana della Macedonia si oppose certamente in grande maggioranza all'ORIM, non mi pare solo anedottico ricordare che nella regione di Ohrid operava anche una ãeta dell'ORIM composta da albanesi e turchi.
Ma al di là di questi, ed eventualmente altri, singoli elementi controversi di ricostruzione e di valutazione storica, ritengo che l'elemento decisivo sia cogliere la dimensione strategica, che nel tempo è cambiata in funzione di numerosi fattori, della parola d'ordine centrale del movimento socialista fin dai lontani anni '70 dell'800, quella di "Federazione Balcanica".

L'idea e l'ideale di una Federazione balcanica venne lasciata in eredità al movimento socialista dalla generazione di democratici radicali e socialisti eclettici che operarono negli anni '70 del XIX secolo, generazione che espresse personalità come Karavelov, Levski e Botev in Bulgaria, e Markovic in Serbia: il movimento socialista rivendicò nei decenni successivi con tenacia la propria filiazione da questi "apostoli del movimento". Per i rivoluzionari degli anni '70, impegnati nella liberazione nazionale della Bulgaria e nell'organizzazione dell'insurrezione in Bosnia, furono certo importanti il modello risorgimentale italiano, e la figura e l'esempio di Garibaldi (più che quello di Mazzini, aspramente criticato da Markovic), ma altrettanto, se non più importante, fu l'influenza, i contatti, i rapporti, il comune lavoro, con il "socialismo russo" dell'epoca, quel populismo dove confluivano e si scontravano Chernyshevskii, Lavrov, Tkachev, Bakunin, Neãaev, la generazione del nihilismo, quella dell' "andata al popolo" e quella delle scelte eroiche della "Narodnaia Volja".
L'obiettivo di questi rivoluzionari non fu mai l'esclusiva liberazione nazionale. "Noi vogliamo tutto o niente, vogliamo la libertà completa" scriveva Karavelov: rivoluzione nazionale contro gli ottomani, rivoluzione sociale contro i ricchi e ateismo militante erano termini inscindibili per Botev. La necessità di liberarsi al contempo dagli "oppressori domestici e stranieri" fu uno degli argomenti più volte ripresi e sviluppati dal successivo movimento socialista. Ma l'elemento decisivo fu quello mutuato proprio dal movimento populista russo: la possibilità di "saltare un'intera epoca storica di sviluppo economico ­ l'epoca dell'economia capitalista" (Markovic), la possibilità di creare una società socialista senza passare per le forche caudine, le distruzioni e la miseria del capitalismo, appoggiandosi alle forme comunitarie presenti nelle campagne e nei villaggi (la zadruga e l'op_tina) e al progresso tecnico dell'Europa occidentale. Un altro importante elemento fu la centralità della battaglia contro lo zarismo russo e contro la sua influenza nei Balcani: l'Impero russo era allora visto (e venne visto dai socialisti per i successivi decenni, almeno fino alla guerra russo-giapponese del 1904) come il baluardo delle forze più reazionarie, barbare ed "asiatiche", che metteva in pericolo tutto lo sviluppo sociale dell'Europa degli ultimi secoli.
La Federazione balcanica per la quale lottavano questi rivoluzionari era per loro la forma adeguata ad un'organizzazione socialista, mutualista e collettivista, non burocratica e decentrata di questa regione. La liberazione nazionale era condotta a nome della fratellanza dei popoli, e nella Federazione futura di popoli liberi sarebbero entrati anche i popoli non slavi, liberatisi dalle catene della schiavitù, e non avrebbero più avuto corso le "stupidaggini nazionali" della Grande Serbia o della Grande Bulgaria, che significavano oppressione di altri popoli e che erano l'espressione degli interessi dinastici e della burocrazia che aveva assunto il potere negli stati balcanici.

L'orientamento socialdemocratico sulle questioni nazionali nei Balcani emerse lentamente a partire dagli anni '80. Il peso degli "apostoli del movimento" e il retaggio populista si fece sentire nei primi orientamenti assunti da Blagoev, che scrisse il suo primo articolo in Bulgaria nel 1885 (espulso dalla Russia, dove aveva organizzato il primo circolo socialdemocratico che la Russia abbia conosciuto) proprio su "La Federazione balcanica e la Macedonia": Blagoev vi parla dell'importanza della lotta antidinastica e antipatriottica, contro le mire annessioniste della Bulgaria sulla Macedonia, a favore di una Macedonia libera dal giogo ottomano ma integrata in una Federazione balcanica che sola poteva opporsi alle mire imperialiste ­ soprattutto russe ­ sulla regione. L'anno successivo Blagoev si impegnò in una durissima battaglia polemica contro l'unificazione tra Principato di Bulgaria e Rumelia orientale in nome dei princìpi propugnati da Karavelov e Botev (riconsiderò questa posizione una ventina d'anni dopo, considerando l'impatto dell'unificazione sullo sviluppo capitalistico del suo paese).
Alla fine dell'800 si era definita una coerente visione "marxista" ortodossa, con la formazione dei vari partiti socialdemocratici nei vari paesi: i temi e le preoccupazioni non erano più quelle degli anni '70 ­ se non per il ruolo decisivo sempre assegnato alla battaglia contro le trame internazionali dello zarismo russo. La fase capitalista venne vista non solo come inevitabile, ma come il passaggio obbligato perché potesse crescere ed affermarsi un proletariato numeroso, dotato di coscienza ed organizzato, il solo soggetto in grado di costruire il socialismo. I socialisti balcanici da un lato seguirono attentamente i progressi del modo di produzione capitalistico nei loro paesi, dall'altro individuarono la causa della lentezza di questi progressi nel potere e negli interessi particolari delle dinastie e delle burocrazie al potere. La questione centrale era l'assenza di una vera borghesia cosciente del proprio ruolo storico, in grado di completare la rivoluzione borghese inaugurata con la distruzione dei rapporti "feudali" vigenti sotto gli ottomani. Fino a che il nodo del completamento della rivoluzione borghese non era sciolto non vi sarebbe stato futuro per i paesi balcanici: niente fuoriuscita dall'arretratezza, poco e marginale capitalismo industriale e vero proletariato industriale, mancanza dei presupposti del socialismo. Questa è il problema, teorico e politico, attorno al quale si concentravano le riflessioni dei socialisti balcanici. Problema comune, anche se non identico, a quello con cui fecero i conti tutte le varie tendenze del socialismo russo, in modo esplosivo dopo l'esperienza rivoluzionaria del 1905, con le varie soluzioni della "dittatura democratica dei contadini e degli operai", della "rivoluzione in permanenza", dell'alleanza con i settori liberali.
La tematica della Federazione balcanica venne ripresa dal movimento socialista in questo quadro mutato, e veniva ora considerato l'elemento necessario perché si realizzasse il completamento della rivoluzione borghese, con la creazione di un mercato sufficientemente ampio per un vero sviluppo capitalistico e con l'unificazione nazionale dei vari popoli esistenti nei Balcani, unificazione possibile solo in un quadro federativo per l'estrema mescolanza di questi diversi popoli, mescolanza esistente all'estremo proprio in Macedonia (anche la tematica dell'unificazione nazionale era ricondotta a un elemento materiale necessario perché i lavoratori potessero costituirsi in classe per sé).
Se negli anni '70 dell'800 la Federazione balcanica era la via per evitare i mali conosciuti dall'Europa provocati dal capitalismo, a cavallo tra '800 e '900 era la via della necessaria europeizzazione capitalistica dei Balcani.

Ma se nei paesi balcanici vi era un problema di completamento della rivoluzione borghese, nell'Impero ottomano vi era un problema di rivoluzione borghese tout court. Manca purtroppo una seria analisi di come il movimento socialista internazionale recepì la rivoluzione giovane turca, il che implica un pesante lavoro di reperimento e di studio delle fonti primarie. Posso comunque azzardare che le diverse valutazioni che vi furono nel movimento socialista, balcanico e internazionale, derivavano da due ordini di considerazioni che andavano intrecciandosi. Da un lato vi era chi riteneva la rivoluzione del luglio 1908 una rivoluzione condotta da uno strato di intellighenzia (inquadrata nell'esercito per le condizioni specifiche turche) che esprimeva interessi borghesi in via di formazione, mentre dall'altro vi era chi sosteneva che quello del 1908 fu un colpo di stato militare che nulla mutava nelle condizioni sociali dell'Impero, finalizzato solo a "salvare lo stato", una formula che significava salvaguardare l'ordine tradizionale con lo status privilegiato della burocrazia ottomana. Inoltre vi era chi riteneva possibile la realizzazione a breve termine di una Federazione balcanica proprio grazie al rafforzamento di un Impero ottomano governato dai Giovani Turchi (che escludeva la possibilità di una spartizione dell'Impero a cui gli stati balcanici erano interessati, spartizione che forniva materia ai contrasti tra questi paesi) e chi invece riteneva che le dinastie e le burocrazie al potere nei paesi balcanici, scioviniste e nazionaliste, fossero costituzionalmente incapaci di compiere questo passo decisivo. Divergenze che iniziarono a ricomporsi fin dall'ottobre 1908 (con la legge antisciopero dei Giovani Turchi, non penso riducibile come fa oggi Adanïr - ripetendo quel che dicevano a suo tempo i Giovani Turchi a difesa del provvedimento - a una "reazione" a provocazioni bulgare), per arrivare nel 1909-1910 a un giudizio unanimemente negativo dell'esperienza dei Giovani Turchi, che non solo non realizzarono alcunché del loro "programma" iniziale, ma procedettero a delle dure repressioni contro il movimento dei lavoratori e contro le minoranze nazionali.

Tra il 1907 e il 1914 vi furono una serie di ripensamenti a livello teorico e politico nei vari movimenti socialisti balcanici, che portarono a un quadro di riferimento strategico differenziato tra varie correnti. Questi ripensamenti avvennero su spinta di avvenimenti che posero i Balcani al centro delle tensioni mondiali: dall'annessione della Bosnia da parte dell'Austria nel 1908, alle guerre balcaniche del 1912-13, all'attentato di Sarajevo e allo scoppio della prima guerra mondiale. Già una serie di avvenimenti precedenti avevano iniziato a rimettere in discussione l'impianto strategico che si era venuto a cristallizzare con la formazione dei partiti socialisti: la guerra russo-giapponese del 1904 aveva messo in luce il ridimensionamento del "pericolo russo" a livello internazionale, la rivoluzione russa del 1905 aveva portato a considerare in modo ben diverso dal passato il ruolo del proletariato e delle lotte delle masse contadine nei paesi economicamente arretrati, la crisi marocchina del 1905 aveva posto all'ordine del giorno i rischi di guerra mondiale, percepiti in modo acuto fin da allora dalla direzione del partito socialista francese.
Iniziarono ad apparire studi e riflessioni sulla politica coloniale condotta dalle grandi potenze nei confronti dei paesi balcanici ­ un vero precursore da questo punto di vista fu Kabakciev, che fin dal 1900 affermò che l'arretratezza bulgara non era segno di assenza di capitalismo, ma era anzi la conseguenza dell'inserimento della Bulgaria nel mercato capitalista, e che la concorrenza tra i vari paesi sviluppati da un lato e la dipendenza classe dominante bulgara dalle scelte del capitalismo internazionale dall'altro erano fattori che impedivano lo sviluppo economico e sociale del paese; Kabakciev concludeva con la necessità di una lotta al contempo contro la borghesia nazionale e quella internazionale. Queste riflessioni, assolutamente anomali ed isolate nel 1900, diventarono invece oggetto di discussione generalizzato dal 1907-1908, con l'individuazione e la denuncia del ruolo imperialista dell'Austria e della Germania (non riconosciuto però dal partito socialdemocratico austriaco fino al 1912), e con la denuncia degli investimenti esteri che accentuano l'arretratezza dei paesi balcanici e la pauperizzazione dei loro popoli (mentre fino ad allora gli investimenti esteri erano benvenuti in quanto fattori di accelerazione dello sviluppo capitalistico). Questi anni videro a livello internazionale una ricchissima e polemica discussione sul carattere dell'imperialismo e sulle conseguenze politiche che ne derivavano.
Un importante momento di confronto e di decisione fu la conferenza internazionale socialdemocratica dei Balcani che si svolse a Belgrado nel gennaio 1910. Questa conferenza (molto eterogenea e che ebbe come unico terreno sostanziale di intesa la denuncia dell'imperialismo asburgico) si concluse con un documento in cui l'elemento centrale era la denuncia delle potenze imperialiste e dello status coloniale dei paesi balcanici ­ una cosa impensabile alcuni anni prima, quando la natura coloniale dei paesi balcanici era rigettata perché quelle terre già avevano vissuto il loro 1789, con la liberazione nazionale dal giogo ottomano, e con l'avvio di uno sviluppo che non poteva non ricalcare quello di Inghilterra e Francia. La fuoriuscita dall'arretratezza, che poteva essere garantita solo con la formazione di una Federazione balcanica, era bloccata, secondo la conferenza del 1910, dal ruolo dei vari imperialismi, dalla concorrenza interborghese e dalla debolezza ed incapacità delle borghesie autoctone: tutti questi fattori, essendo di freno alla formazione della Federazione, mantenevano in questo modo ed amplificavano tutti i problemi nazionali balcanici. La conclusione, pur se non chiaramente esplicitata, era la dipendenza della soluzione dei problemi nazionali e dei problemi di sviluppo economico dalla vittoria della socialdemocrazia: il proletariato veniva visto come l'unico soggetto sociale che poteva assolvere compiti che storicamente incombevano alla borghesia. I termini non erano tuttavia come potrebbero essere stati compresi un decennio dopo, nel movimento comunista e con l'assimilazione a livello internazionale dell'esperienza della rivoluzione russa del '17: nel '10 queste prese di posizione erano intese e comprese nel senso che la lotta socialdemocratica, e solo quella, avrebbe dovuto obbligare la borghesia ad assolvere i suoi compiti democratici.

Lo scoppio della prima guerra balcanica nel 1912 riportò drammaticamente in primo piano tutti i nodi politici, compresi quelli lasciati aperti con le polemiche sulla rivoluzione giovane turca. Mentre dall'Austria Viktor Adler plaudiva alla formazione della Lega Balcanica e alla sua vittoria contro il feudale Impero ottomano, nei Balcani i socialisti si opposero alla guerra e denunciarono gli interessi sciovinisti che muovevano i governi dei propri paesi, svelando i fini reali dello sforzo bellico, condotto con propaganda di tono risorgimentale, ma con obiettivi e modi di conduzione ben diversi (le atrocità che vennero commesse anticiparono di due anni la carneficina della prima guerra mondiale), terminato con la spartizione della Turchia europea e contrasti nazionali interbalcanici accresciuti ­ che ebbero un seguito con la seconda guerra balcanica del 1913. Tuttavia l'impianto teorico classico rifaceva capolino, facendo immaginare un ruolo obiettivamente progressista alla guerra contro la Turchia, nonostante le dinastie e le classi dominanti balcaniche. Questa fu anche la visione espressa dalla Russia da Lenin, espressa in termini estremamente chiari come era suo costume, e che venne invece piegata dalla storiografia dei vari partiti comunisti balcanici stalinizzati del post-'45 a una presa di posizione totalmente "adleriana", funzionale a una rivisitazione nazionalpatriottica della storia dei propri paesi. Nel '12, invece, per sostenere la prospettiva della Federazione nonostante l'esistenza della dinastica Lega balcanica e per segnare l'opposizione a sciovinisti e guerrafondai, gli "stretti" bulgari e le altre organizzazioni socialiste balcaniche fecero propaganda per una Federazione balcanica che includesse, oltre a Romania e Grecia, anche la Turchia, contro l'ipotesi di un'intesa degli stati balcanici cristiani.
La guerra balcanica preannunciò e prefigurò la successiva guerra mondiale: l'Internazionale socialista e milioni di lavoratori in tutta Europa furono perfettamente coscienti del significato delle guerre balcaniche, e tutta l'Europa fu percorsa da manifestazioni mai così grandi e radicali. Il congresso internazionale di Basilea del novembre 1912 si concluse con un manifesto che secondo George Haupt fu uno dei più grandi testi di tutta la storia della Seconda Internazionale. Il monito fatto alcuni mesi prima dal socialista serbo Popovic venne purtroppo confermato: il mantenimento artificiale dello status quo nei Balcani era continua fonte di scontenti, disordini, destabilizzazioni, impedendo la soluzione dei drammatici problemi esistenti; lo status quo non era garanzia di pace ma fonte di guerra.

Nei terribili mesi che seguirono le guerre balcaniche e precedettero quella mondiale, fu Christian Rakovski, nella sua attività alla direzione del partito socialdemocratico rumeno e riprendendo e rielaborando le analisi sulla questione agraria di Dobrogeanu-Gherea, a elaborare una tesi strategica innovativa: se la dimensione politica della "questione d'oriente" era la questione nazionale, quella sociale era costituita dalla questione agraria, dove la sopravvivenza di relazioni feudali ed arretrate era funzionale al meccanismo di dominazione imperialista. La soluzione stava nell'interrelazione tra rivoluzione proletaria in occidente da un lato e movimenti di liberazione nazionaldemocratici e insurrezioni contadine nei Balcani dall'altro, finalizzati a una rivoluzione democratica in oriente. Non vi era più spazio nell'elaborazione di Rakovski per ipotesi sul ruolo obiettivamente progressista delle classi dominanti balcaniche in determinate congiunture, o su un completamento della rivoluzione borghese grazie alla realizzazione su pressione della socialdemocrazia della Federazione. In parte questo divenne patrimonio anche delle varie organizzazioni socialdemocratiche balcaniche. Così nel documento che convocò la seconda conferenza socialdemocratica balcanica (luglio 1915) venne affermato che la guerra tra Austria e Serbia era da addebitare, oltre che agli interessi imperialisti austriaci, anche "alle aspirazioni di espansione territoriale dei governanti di Serbia [che] hanno condannato [tutto il proprio] popolo allo sterminio e alla rovina, per la realizzazione dell'idea di una più Grande Serbia"; "il fine [dei governi balcanici] non è stata la liberazione e l'unità dei popoli balcanici, ma la conquista di nuovi territori, mercati più vasti, nuove masse di produttori e di contribuenti, da sfruttare e da spogliare [questi governi] non fanno che accrescere le animosità tra i popoli dei Balcani e facilitare l'opera di conquista dell'imperialismo"; "la socialdemocrazia balcanica si oppone ad alleanze balcaniche come quella del 1912 [finalizzate] ai desideri di conquista e di grandeur delle dinastie e delle borghesie balcaniche le alleanze militari e dinastiche sono nefaste ai popoli balcanici". Personalmente Rakovski aggiungeva nel suo intervento alla conferenza, in rottura con quanto affermato dai socialisti fino alle guerre balcaniche, che la lotta per una Repubblica federativa balcanica "è tutt'uno con la lotta contro la guerra e contro il capitalismo", e che l'obiettivo della Repubblica federativa balcanica era contrario agli interessi borghesi e si identificava con gli interessi proletari.
La Federazione balcanica, anziché essere la via all'europeizzazione, nel senso di sviluppo completo del capitalismo nei Balcani (il che a partire da una certa data implicava nelle elaborazioni dei socialisti anche la difesa contro il capitale europeo), ridivenne nell'elaborazione di Rakovski del 1914 il fine delle mobilitazioni nei Balcani, il risultato di rivoluzioni vittoriose nei Balcani, come era per i rivoluzionari degli anni '70 dell'800. A differenza di allora vi era un'analisi del capitalismo periferico e dipendente balcanico, del ruolo dell'imperialismo che impediva la fuoriuscita dall'arretratezza e del ruolo delle lotte contadine (insieme a quelle del giovane proletariato urbano) costrette a una condizione di "neoservaggio" dalla stessa borghesia. A differenza di allora vi era l'obiettivo di "europeizzare" i Balcani, ma nel senso di intrecciare rivoluzioni proletarie e rivoluzioni democratiche nei paesi del "centro" e in quelli della "periferia" europea. Per certi versi mi sembra che siano significative le analogie tra il punto d'arrivo del percorso politico d'anteguerra di Rakovski e l'elaborazione strategica che Lenin sviluppò negli anni successivi alla rivoluzione russa del 1905.

Non ho le competenze necessarie per poter spingere cronologicamente oltre l'ordine di considerazioni che ho sviluppato fin qui. Esplicitare il quadro strategico implicito nella politica balcanica del Comintern, nelle sue varie fasi, si scontra con l'assenza di lavori che rendano disponibili a un lettore occidentale un sufficiente spoglio di fonti primarie, pubbliche e archivistiche. Quello che è possibile ora è chiarire e interpretare singoli passaggi, come viene fatto nei saggi presenti in questa sezione di Balkan per quanto riguarda la "questione macedone".
Spero nel futuro di poter contribuire a Balkan con considerazioni un po' approfondite sull'esperienza de La Fédération Balkanique, che proprio per il suo orientamento federativo propugnava rivoluzioni nazionali nei Balcani (con un "fronte rivoluzionario" di organizzazioni di Macedonia, d'Albania, di Tracia e di Dobrugia) e sulla questione macedone durante la guerra civile greca. In questa sede mi preme solo fare una considerazione. Il "macedonismo", cioè la tesi che la popolazione slava di Macedonia sia un gruppo etnico distinto da quello serbo e da quello bulgaro (in una sorta di posizione intermedia), fu fatto proprio dal movimento comunista solo a partire dal 1934 (con una risoluzione internazionale, e nel Comintern stalinizzato non poteva essere diversamente). Prima di questa data le organizzazioni comuniste si rivolsero sempre al "popolo macedone" come a un popolo composto di vari segmenti, con lingue, religioni e identità etniche differenziate, ma comunque un "popolo" per il destino unico di questi segmenti di popolazioni, mescolate in una regione geografica (la Macedonia spartita tra Serbia-Jugoslavia, Grecia e Bulgaria) con una propria logica economica e sociale, e con una tradizione comune di lotte. Per questo La Fédération Balkanique scriveva di "contadini macedoni" riferendosi ai contadini greci espulsi dall'Anatolia e reinsediati dal governo greco nella Macedonia egea, o accettava tranquillamente la qualifica di bulgari per gli slavofoni di Macedonia. Dal punto di vista dell'ortodossia fissata da Il marxismo e la questione nazionale di Stalin quest'approccio che identificava un popolo in cui convivevano lingue diverse era certamente una bestialità teorica, e la risoluzione del 1934 riaccordò la realtà alla dottrina. Dopo quella data gli albanesi, i turchi, i rom, i valacchi, gli ebrei e i greci di Macedonia non vennero più considerati macedoni dalle organizzazioni comuniste. Dal 1935-1936 venne anche abbandonata la linea della autodeterminazione nazionale per i macedoni, che quindi dovevano per il Comintern accettare il loro destino jugoslavo, bulgaro e greco, rispettando la consegna del mantenimento dello status quo interno e internazionale. Con la costituzione della Repubblica di Macedonia all'interno della Federazione Socialista Jugoslava la politica "macedonista" portò a una effettiva macedonizzazione in senso linguistico e nazionale della popolazione slavofona di Macedonia, che oggi è nella realtà (perché si autodichiara tale, e questo per la formazione di un'identità nazionale è più che sufficiente) un'entità etnica a sé. Questo significa che da parecchio tempo la vecchia Macedonia del 1893-1944, che i saggi che seguono affrontano nello specchio delle organizzazioni operaie, non esiste più, e non potrà neppure risorgere in quelle forme.