banlieues

"Abbiamo sepolto gli anni ‘80", dichiaravano nei primi mesi del 1990 gli studenti che occupavano le diverse sedi universitarie. Il movimento della Pantera, a partire dal rifiuto del progetto di riforma dell’Università "Ruberti", in quei giorni in discussione, coglieva la nuova qualità del rapporto tra sapere e produzione: non il semplice, e storicamente già conosciuto, asservimento del primo alla seconda, ma l’emergenza del sapere come principale forza produttiva.
La restaurazione dell’autonomia della cultura non è l’orizzonte di un movimento di studenti che si riconosce immediatamente come parte dell’organizzazione della produzione sociale.
La percezione del ruolo specifico del nuovo "lavoro intellettuale" da parte degli studenti spiega la capacità che quel movimento ha avuto di parlare ai fratelli maggiori.
Nel mese di Febbraio inizia a circolare via fax un testo che ben presto verrà sottoscritto da diverse decine di "operatori dell’immateriale".
L’intellettualità di massa non scopre la propria avvenuta proletarizzazione, ma la necessità di mettere mano al rapporto tra sapere e potere, per sovvertirlo.
Al centro di un modo di produzione in cui il lavoro intellettuale in-forma (mette-in-forma) tutti i settori.
La nuova figura paradigmatica del lavoro impone, al contempo, rompicapi teorico-pratici inediti: anche la tradizione di pensiero dell’ "altro movimento operaio" ha a questo livello ben poco da insegnare.
Il manifesto che andiamo qui a riproporre, indicava un possibile percorso per l’intellettualità di massa.
Nelle pieghe del decennio che si va concludendo, forme di riconoscimento e di messa in rete di questa intellettualità diffusa, di cui fanno parte anche gli studenti, hanno iniziato, spesso in termini ambivalenti, a svilupparsi.
La potenza e l’autonomia presente in questa "strana figura", incontra nelle necessità della produzione, del "lavoro sotto padrone", il proprio limite.
Il sentimento dell’insensatezza del lavoro salariato sta diventando sentimento comune: il problema è la capacità di immaginare mondi diversi, una vita al di fuori del lavoro.

 

IL BANDOLO DELLA MATASSA ALL’INCROCIO FRA SAPERE E VITA

La lotta in corso nelle università e nelle scuole italiane costituisce un’occasione impareggiabile per l’intellettualità di massa, che vive e produce nelle metropoli. Per tutti noi -per coloro, cioè che sanno più di quanto non possano- si profila l’opportunità di vincere la frammentazione e l’isolamento, di lasciarsi alle spalle l’ "inverno del nostro scontento", di prendere la parola criticando il presente stato delle cose.

Ma, prima di tutto, ha senso parlare di noi, e di quelli come noi, con il termine "intellettualità di massa"? Non si elude, così, la specificità di ruoli, funzioni, livelli di reddito, stili di vita? No. Crediamo ci siano più cose che uniscono in un’identica condizione coloro che operano produttivamente col sapere e la comunicazione, di quante non siano le distinzioni e le divisioni. Il termine apparentemente generico è, forse, il più preciso e concreto.

Intellettualità di massa è chi lavora negli uffici o nelle cooperative, nella scuola o nei media, nella pubblicità o nella ricerca. E poi: chi sa più cose di quelle che utilizza durante il lavoro. Chi vede mortificata, o espropriata, la propria capacità comunicativa, la propria socialità. Intellettualità di massa è il tecnico di computer, che conosce a menadito la logica simbolica di Piaget e Chomsky. Chi provvisoriamente vende vino, ma in passato ha riabilitato "devianti" o si è occupato di letteratura.

Chi ha fatto lo sceneggiatore di fumetti, ma è pratico di Habermas e Warhol. La dimafonista che negli intervalli del lavoro chiosa la Irigaray. E ancora: quelli che in passato sono stati attraversati dai movimenti, apprendendo lì a destreggiarsi entro relazioni sociali informali (dote, spesso valorizzata poi sul lavoro).

Questa diffusa intellettualità, talvolta integrata in reti produttive avanzate, talatra precaria e "dai piedi scalzi" è il bandolo di tutte le matasse. Niente affatto marginale, essa sta al centro dell’accumulazione capitalistica, è il nervo scoperto di un modo di produzione in cui il sapere figura come il principale ingrediente. Chiunque guardi all’assetto sociale degli anni ‘80, si imbatte necessariamente in questo stato sociale. L’intellettualità di massa materializza in se stessa le trasformazioni dell’ultimo decennio, l’incastro indissolubile tra sapere e vita, i nuovi modi di lavorare e comunicare, i sentimenti oggi prevalenti. E’ difficile, al suo riguardo, tracciare una netta linea di confine tra lavoro e tempo libero, cultura e condizione materiale, il pane e le rose, "struttura" e sovrastruttura; i modi di vivere, le biografie, i gusti estetici, le emozioni sono tutt’uno con la prassi lavorativa.

L’intellettualità di massa è l’espressione immediata di una situazione in cui si ha piena identità tra produzione materiale e comunicazione linguistica. Il punto decisivo non sta nella crescita smisurata dell’industria della comunicazione, bensì nel fatto che l’ "agire comunicativo" è preponderate in tutti i settori industriali. Alle tecniche e alle procedure dei media bisogna guardare, dunque, non tanto come a ciò che contraddistingue uno specifico comparto produttivo: quanto piuttosto come a un modello di valore universale, imprescindibile anche quando si considerino le lavorazioni tradizionali.

L’industria della comunicazione svolge, semmai, un ruolo analogo a quello assolto in passato dall’industria dei mezzi di produzione; è cioè un settore particolare, che però determina i moduli operativi dell’intera società.

Che il lavoro coincida con la comunicazione linguistica, ciò non attenua, ma radicalizza le contraddizioni della società capitalistica. Infatti, poiché nella produzione entra tutta la nostra vita, grande è l’espropriazione, ma altrettanto grande è la possibilità di trasformare radicalmente il presente.

Gli studenti che occupano l’università sono la parte dell’intellettualità di massa smottata su posizioni critiche, resasi visibile con il conflitto. Gli studenti, oggi, rappresentano il controveleno da opporre ai tanti veleni (rassegnazione, competitività, arrivismo, adeguazione supina alle gerarchie) che sono circolati tra noi in questi anni. La loro lotta contro la privatizzazione non costituisce affatto una difesa della leggendaria "neutralità" della cultura: piuttosto è una presa d’atto del ruolo centrale che il sapere assolve nel processo produttivo, è l’altra faccia, quella buona, di questa medesima centralità. Gli studenti in lotta presagiscono il loro domani -il nostro oggi- e lo rifiutano. La "parte" parla al tutto, gli studenti sollecitano l’intera intellettualità diffusa affinché esca dalla dispersione, dal cinismo, dall’opportunismo, che hanno contrassegnato gli anni appena trascorsi.

Dovunque -negli uffici, nel precariato, nei media, nella ricerca- abbiamo innumerevoli questioni da sollevare circa le condizioni di lavoro, i diritti, le garanzie. Ma non si tratta solo di un cumulo di rivendicazioni. L’aspetto più importante -l’occasione vera- è dare una forma autonoma alla nostra socialità, un impiego sensato alla nostra cultura, uno sviluppo ricco e appagante alla nostra capacità di comunicazione. Dall’università all’intellettualità di massa. E viceversa. Per tramutare la nostra consuetudine con i saperi, l’informazione, il consumo culturale in una pratica autodeterminata. Libertà di linguaggio -questa espressione, per l’intellettualità di massa, significa, niente di meno che lotta contro il lavoro "coatto" (o, tout court, salariato).

Le università occupate hanno per emblema il fax: messaggi lanciati in una moderna bottiglia alla volta della città. Nei prossimi mesi, ci proponiamo di rispondere a questi fax, con altri messaggi, provenienti da tutti i luoghi di lavoro dell’intellettualità di massa.

Messaggi di conflitto.

Oggi le università in lotta rappresentano un luogo di comunicazione alternativa. Comunicazione artigianale, certo, fatta di piccoli segnali: ma segnali liberi. E’ essenziale che questo libero brusio sappia e possa attirare nella propria orbita spezzoni di intellettualità di massa, schegge di comunicazione tecnicamente più sofisticata. Un simile impasto sarebbe carico di sviluppi duraturi, e soprattutto, darebbe di che sperare.

La prima cosa che ci proponiamo è una sorta di censimento: fornire nomi, profili biografici, sociali, economici culturali all’arcipelago dove noi stessi dimoriamo. Subito dopo si tratta di stabilire momenti di incontro, di dialogo, di proposta.

Marco Bascetta, Piero Bernocchi, Enzo Modugno;
(Il Manifesto, 27 Febbraio 1990).

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