RIFORMA BERLINGUER: UNA RISPOSTA ADEGUATA ALLE ESIGENZE DI UN NUOVO PARADIGMA PRODUTTIVO
A conferma di alcune ipotesi sviluppate soprattutto nell’editoriale di questa rivista, anche il documento di lavoro sul Riordino dei cicli scolastici del ministro Berlinguer, fa riferimento esplicito alla "centralità delle risorse umane come elemento di governo dei fenomeni del cambiamento e della complessità generati dalla mondializzazione dell’economia e dei mercati; dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche, dal penetrante ruolo dell’informazione, dalle trasformazioni sociali e culturali".
E’ proprio in nome di questa premessa che nelle linee guida della riforma, si insiste nel palesare la convinzione che "in un mondo nel quale l’evoluzione dell’organizzazione sociale e del lavoro fa presumere che ciascun individuo sia chiamato a cambiare più volte la propria attività lavorativa", la scuola debba abbandonare la pretesa "di consegnare saperi, abilità e capacità definitive", per puntare invece "allo sviluppo di requisiti quali la capacità di apprendere, di scegliere, di cooperare, di risolvere i problemi".
In sostanza l’obiettivo del progetto si costituisce, per professione degli stessi riformatori, come tentativo di inserire all’interno del sistema formativo nel suo complesso "elementi culturali di tipo generale, metodologico e di indirizzo", in maniera da rendere la nuova dimensione formativa funzionale al nuovo paradigma produttivo che si delinea all’interno del contesto internazionale ed in modo da raccordare saldamente saperi, abilità e capacità al mondo del lavoro e al mercato, soddisfacendo la rinnovata domanda di professionalità da parte delle imprese.
Fin qui nulla di male. Nulla di male, intendiamo dire, a che un governo favorevole all’Europa di Maastricht ed alla moneta unica voluta dal grande capitale europeo, tenti di allestire, sul terreno della formazione, una risposta positiva alle nuove esigenze del mercato e del sistema capitalistico giunto ad una fase inedita del suo sviluppo. Ciò che provoca disgusto è, invece, il modo in cui gli obiettivi reali del progetto, del tutto vincolati alle esigenze delle imprese, siano, nel testo della riforma, mistificati da improbabili petizioni di principio puntualmente snodate dal resto del ragionamento.
Nel paragrafo dedicato agli Obiettivi di fondo della riforma, risalta una mirevole professione di intenti:
"-sviluppo di una cultura fondata sulla tolleranza, la valorizzazione delle differenze e i valori del pluralismo e della libertà;
-la crescita della coscienza democratica e la realizzazione di una cittadinanza piena e consapevole."
Peccato che su questi due temi apparentemente centrali, non si spenda una sola parola nelle fitte 25 pagine del documento! Peccato che il ministro Berlinguer si accontenti di queste quattro righe per tentare di tenere alta la maschera progressista che gli si affaccia ormai a fatica sotto gli occhialoni storti!
E’, peraltro, fastidiosamente strumentale, la battaglia sempre altisonante, condotta contro "il vecchio" e contro "la tradizione": diventa facile, a questo modo, con la patente di un astratto quanto retorico "nuovismo", far transitare nel mondo della formazione, metodi, linguaggi e vincoli di tipo aziendalistico; il mito dello stage; l’ossessionante aspirazione alla collaborazione (da "favorire e valorizzare") con "altre agenzie formative" (pag.6), con "agenzie esterne" (pag.15), con "enti operanti sul territorio" (pag.16), etc.etc. E’ poi sufficiente andare a consultare il testo dell’Accordo sul lavoro del 24 Settembre 1996, cui la riforma fa spesso riferimento, per decodificare questo linguaggio sibillino: le "agenzie formative" dovrebbero derivare dalla "trasformazione dei centri di formazione professionale", mentre rispetto alle "agenzie esterne" ed agli "enti operanti sul territorio", l’Accordo allude ad un "modello organizzativo flessibile" nel quale facilitare interventi di "consorzi e raggruppamenti di imprese", sviluppare "interazioni col sistema produttivo" e favorire l’autonomia per "consentire alle istituzioni scolastiche di dialogare efficacemente con tutti i soggetti interessati" così da rispondere agli "effettivi fabbisogni della domanda di lavoro richiesta dal sistema produttivo anche settoriale" (sic!).
Rispetto allo stage presso le imprese, ci limitiamo ad evidenziare che questo strumento viene presentato come fosse la pillola magica per diventare grandi, e dovrebbe percorrere trasversalmente l’intero contesto formativo, dalla scuola superiore alla formazione post-secondaria, universitaria e non, inaugurando una nuova, sorridente stagione degli stages. Il tutto condito da una fede quasi mistica nel "valore" della concorrenza fra "singole istituzioni formative" e dalla solita retorica nazional-patriottarda della competitività italiana sul mercato internazionale.
Non si tratta, allora, di difendere un presunto sapere "puro" o "neutrale", come mai potrebbe essere il sapere all’interno di un sistema capitalistico, né tantomeno di difendere il vecchio paradigma formativo e la riforma Gentile (peraltro di impianto idealista); si tratta, piuttosto, di smascherare la considerazione, tutta ideologica, secondo cui la formazione continua "costituisce (...) l’affermazione del diritto del cittadino alla qualificazione e all’arricchimento della propria professionalità" (Accordo sul lavoro, pag.6), quando essa rappresenta invece l’affermazione del diritto delle imprese alla utilizzazione di una forza lavoro non "obsolescente" perché munita di saperi continuamente adattabili alle innovazioni tecnologiche.
Per quanto riguarda la scuola dell’orientamento (13/15 anni), e il triennio finale della scuola superiore (16/18 anni), la parola d’ordine della riforma è "l’avvicinamento progressivo al mondo del lavoro" attraverso "collegamenti con le realtà culturali -non si sa di che natura-, scolastiche -ma se è proprio di scuola che stiamo parlando?-, formative -forse le agenzie formative di cui sopra?-, produttive locali -qui il testo è, finalmente, chiarissimo-.
Ma il passaggio più interessante resta comunque quello sulla "predisposizione di percorsi integrativi di quelli scolastici" e sull’ "offerta di moduli improntati al fare e saper fare". Sembra così favorita, in sostanza, una progressiva fuoriuscita dal sistema formativo in nome di opzioni di fatto lavorative, da spendere nel mondo dell’apprendistato, del lavoro interinale, del lavoro a termine, e di altri generi di lavoro precario e sottopagato. Come se un modo di migliorare il sistema scolastico italiano, fosse quello di sgrossarlo!
Se però, rispetto all’istruzione scolastica questo sembra un modo, per quel che concerne l’università, dovrebbe essere il modo: "Uno dei problemi più evidenti della crisi dell’Università italiana è l’elevato tasso di insuccesso, ma ciò può essere facilmente spiegato dall’assenza di altri canali formativi". Complimenti! Come se dicessi che le mele del mio cestino della frutta sono marce perché non ci sono nespole e susine! Questo potrebbe sostenerlo solo quel bottegaio del mio fruttivendolo, e un fruttivendolo alquanto bottegaio, c’è anche nella riforma Berlinguer: con il solito riferimento all’Accordo sul lavoro (pag.5), spuntano fuori due paragrafetti, il primo dedicato ai Percorsi formativi post-diploma, improntati alla "massima flessibilità anche attraverso l’utilizzo di docenti esterni", ed il "coinvolgimento di vari soggetti forativi del mondo della produzione, delle professioni, della ricerca etc."; l’altro dal titolo Apprendistato e contratti formazione-lavoro. Ecco rinvenute le nespole e le susine!... Ed il numero chiuso sembra diventare soltanto un rozzo passaggio, superato a breve nel peggiore dei modi.
Alle valvole di uscita dal sistema dell’istruzione si affianca, però, la possibilità di rientrarvi, aggiornando e modificando "conoscenze e abilità anche (?) professionali", secondo il modello ormai egemone della formazione continua, conforme agli attuali orientamenti dell’Unione Europea. "E’ ormai tempo di fare i conti con una dimensione diversa, dove i confini tra spazio-tempo formativo e spazio-tempo lavorativo saranno sempre più sfumati, dove formazione e autoaggiornamento saranno intesi come un percorso che durerà tutta la vita", osservano in proposito i compagni e le compagne della Commissione Formazione del C.S.O.A. La Strada.
E’ proprio sul concetto di formazione continua o "educazione permanente" che si innesta il contenuto cardine della riforma: "l’armonizzazione fra preparazione cosiddetta culturale e preparazione cosiddetta professionale". Partendo dalla constatazione che la tradizionale distinzione tra cultura e professionalità" ha perso molto del suo significato da quando in ogni livello e in ogni settore della vita lavorativa esistono componenti culturali e professionali", il documento insiste sul concetto di professionalità, riconoscendo -a ragione- come elementi ad essa connaturati "il potere di controllo e di direzione che il singolo ed il gruppo hanno sul contesto lavorativo, ovvero la responsabilità che ciascuno assume nella vita sociale e lavorativa". Ed ecco individuare, da parte di riformatori autentici, ed obiettivamente meno stupidi (ma più pericolosi) di altri, le nuove competenze necessarie al mutato contesto produttivo, salvo poi saldare queste qualità del lavoratore postfordista all’idea di responsabilità. Il seguito è illuminante:
"Si è inoltre constatato che fattore determinante per la crescita della professionalità è il contesto lavorativo, che assume forte vocazione formativa, soprattutto in sistemi come quello statunitense e giapponese, nei quali si è sviluppato fortemente il discorso sul controllo di qualità e sulla qualità totale. In tale visione si è compreso che la qualità dipende da una grande varietà di fattori e dal grado di responsabilità di ciascuno, in ogni settore e ad ogni livello; e di è verificato che il raggiungimento di un grado soddisfacente di responsabilità presuppone necessariamente una adeguata formazione culturale supportata da una corretta filosofia ed etica del lavoro".
Con questa formula, i guardiani dell’ordine costituito, proprio mentre configurano un modello di società nel quale il capitale strappa al lavoratore non solo l’energia delle braccia, ma anche il cuore e l’intelligenza, grazie ad una sorta di autodisciplina di stampo foucaultiano, guadagnata attraverso l’assunzione di una corretta filosofia ed etica del lavoro, a un tempo tradiscono la paura di perdere il controllo di una intellettualità diffusa e potenzialmente autonoma.
Confermano, insomma, la necessità di costruire il sistema formativo come palestra ideologica indispensabile ad imbrigliare l’intelligenza sociale, che esso stesso si propone di ampliare, nelle maglie vischiose del pensiero unico, e tentano, a questo modo, di sventare alla radice una possibile e sempre più necessaria, lotta di liberazione delle intelligenze dal dominio capitalistico.
Si è aperta una grande partita di poker: il Governo, il Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, e le altre espressioni istituzionali dell’interesse del grande capitale finanziario europeo, rilanciano...ma nel poker -si sa- non c’è un solo punto con il quale si sia certi di vincere.
Perciò, attenzione: stiamo ancora leggendo le carte.