I CANNIBALI
"Ci voleva una necessità generale di costruzione che condizionasse l’incastro di ogni storia nelle altre, se no era tutto gratuito".
(I. Calvino)
Sono undici giovani scrittori, e si sono incontrati per caso al crocevia degli interessi del grande capitale editoriale, come i loro predecessori boccacceschi si trovarono nella chiesa di S. Maria Novella, a Firenze, nel 1348. Sono "undici sfrenati, intemperanti, cavalieri dell’Apocalisse", e non vogliono sentir parlare di predecessori, perché sono il "nuovo", quel nuovo che non ha memoria, perché vuol fare a pezzi il passato in quanto passato, quel nuovo di cui la borghesia e il mercato necessitano a tutti i livelli per meglio competere, per consacrare il consumo di massa, per rafforzare il potere ipnotico della merce. Sono pura e semplice innovazione.
Sono una "feroce e allegra brigata", ancora una volta nella storia della letteratura, costretta a prendere posizione innanzi alla peste, all’epidemia, alla malattia, costretta a prendere partito innanzi alla dilagante "patologia" dello sfruttamento, del profitto, del dominio spettacolare. Li hanno chiamati Cannibali, recuperando il titolo di una delle più note riviste del ‘77, Cannibale, la rivista che fu di Andrea Pazienza, e li hanno costruiti come "fenomeno" negli interstizi pestilenziali della collana Stile libero di Einaudi, il settore editoriale deputato all’innovazione letteraria.
Sono l’ultimo rigurgito dell’avanguardismo culturale che esce dalla sua condizione necessariamente minoritaria e sposa le esigenze dominanti, servendosi degli apparati e dei canali del potere. Sono un singolare prodotto dell’accelerazione dell’arte, cioè della rapidità con cui i prodotti artistici vengono realizzati e consumati, ma sono anche un esempio della velocizzazione del linguaggio. "Un punto di riferimento utile, per questa riflessione, è quello che è accaduto e sta ancora accadendo nel campo della musica Rock e Pop, che per esempio nelle sue varianti Techno ed Hip Hop, ha prodotto una secca accelerazione della frase musicale". Costituiscono la paradossale mediazione tra un consenso di massa quasi populista e forme espressive "estreme" un tempo marginalizzate; sono cresciuti all’ombra dei grandi gruppi editoriali con l’opportunistico e subalterno beneplacito dell’area antagonista, che nel migliore dei casi ha taciuto, nel peggiore li ha appoggiati. Sono, forse per l’ultima volta in questo secolo che, come diceva Saba "pare abbia un solo desiderio: arrivare prima possibile al Duemila", scrittori davanti alla malattia che si diffonde nella metropoli. La patologia, il contagio, l’epidemia...
La malattia, con i suoi sintomi, col suo progressivo intensificarsi, con la sua soluzione letale, costituisce il modo di percezione -o meglio di non percezione-, del tempo. La malattia non è più la peste che infrange ogni tipo di vincolo civile, e non è più la lebbra, socialmente esclusa ma spiritualmente integrata in quanto "testimonianza ieratica del male". La malattia, il delirio ad essa connesso, l’allucinazione provocata dal delirio, sono oggi non solo perfettamente assorbiti dal costume, ma rappresentano, pur nella loro strutturale mobilità, un robusto sostegno dell’attuale organizzazione della vita.
E’ l’ideologia del sangue, del sangue per il sangue, che nella storia hanno adoperato gli oppressori di ogni tipo. Un tempo era una violenza centralizzata, era la manifestazione permanente di quel monopolio dell’uso della forza su cui lo Stato moderno è cresciuto e si è sviluppato; oggi quella stessa violenza si è diffusa, è diventata violenza indotta nell’uomo, che non è Stato, contro un altro uomo, è una violenza che rende chi la pratica il più fedele dei servi ed il più perseguitabile dei reietti. E’ una violenza al quadrato, è la violenza celebrata dall’arte della simultaneità, ed è la violenza che distoglie dall’unica violenza legittima: quella della riappropriazione e della lotta di classe.
Così Robespierre aveva perfettamente capito la potenza allucinatoria di una testa mozzata, e della ghigliottina faceva buon uso, e molto prima "il circo romano aveva messo le cose a posto (...). Panem et circenses, basta questo, pane e poi sangue, ben gocciolante, dei gladiatori, ecco che cosa serve". Malattia come frammentazione, malattia come mancato possesso del proprio tempo, malattia come impossibilità di fermarsi. Sangue come ultima spettacolarizzazione dell’intimo, come emissione di qualcosa che score internamente, come estrema violazione del corpo. "Mentre con una buona esecuzione, allora sì che si vedrebbe il popolo soddisfatto..."; termina in questo modo la citazione da Cèline che costituisce l’esergo dell’introduzione di Daniele Brolli all’antologia dei cannibali, termina con l’inaccettabile ammissione della funzione ideologica di una letteratura, che, già adoperando la parola popolo, misconosce la divisione della società in classi, e la necessaria dialettica che da questa divisione scaturisce. Malattia e sangue. Ed ecco i giovani cannibali rifiutare l’ormai stucchevole retorica della fuga e, di soppiatto, da moderni untorelli, diffondere l’epidemia "cimentandosi con le zone d’ombra della nostra vita quotidiana", senza capire che queste zone d’ombra non esistono perché tutto è completamente illuminato. Illuminato dal logorroico monologo delle immagini, significanti impazziti, disarticolati da ogni tipo di senso, ma che in questa loro assoluta arbitrarietà assolvono l’indispensabile funzione ricompositiva: Lo spettacolo riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato.
"-Sergio...-gli ho detto.
-Eh?
-Tàtta tàra tattà tatàtta!
Di netto mi sono tagliato il cazzo"
Untori al soldo di un potere che ha ormai fondato il suo dominio sulla patologia, squartatori letterari al servizio di un "gusto" che esalta il gratuito e l’assenza di ogni causalità, apologeti dell’orrore, i Cannibali si dicono, attraverso la penna del loro curatore, nemici di ogni moralismo: come se il risvolto di ogni moralismo non fosse sempre stato l’orrore gratuito, come se non fosse stata la rigida morale vittoriana a produrre quell’intreccio di ragione e follia da cui è scaturita la celebre figura del dottor Henry Jekyll e del suo alter ego: l’inquietante signor Hyde.
Avvolti da una dorata e rassicurante aria di bohéme, coperti dall’ormai completa sussunzione dei più alti e vari livelli di coscienza prodotti nella storia della letteratura (dalla Parigi del secondo ottocento all’ultimo realismo lecito: quello di Pier Vittorio Tondelli), i cannibali sono sempre in cerca di stroncatori, e necessitano di una critica bieca e offesa per riprodursi permanentemente come margine del centro, come alternativa compatibile, come compatibilità altra. Ma nessuno, da parte nostra, spenderà inchiostro per la pura polemica, e non perchè la polemica sia oziosa, o perchè la recensione sia genere minore, ma perchè per recensire ci dev’essere qualcosa di cui valga la pena parlare e per dividersi nella polemica bisogna superare la divisa schizofrenia di un mondo malato.
Ben vengano, quindi, cannibali affamati, critici rabbiosi e guru d’ogni specie; sarà più facile prendere coscienza non di singole atrocità, ma dell’atrocità complessiva di questo sistema produttivo e del suo dominio. Dalle pagine di Gioventù cannibale si leva il salmo che celebra il confuso miscuglio di una simultaneità che rincorre la vita per relegarla nell’attimo e per toglierle ogni prospettiva, ogni profondità. Apostoli dell’indistinto e del confuso, gli scrittori emergenti, cannibali e non, riproducono ed innovano il miscuglio del simultaneo che, oltre ogni contemporaneità, uccide i contorni e le differenze.
Baudelaire ed il suo spleen, il Lafcadio di Gide e l’atto gratuito, il cinema thrilling, la denuncia di Pier Paolo Pasolini, la poesia di Nanni Balestrini: tutto questo come merce. Riappropriarsi dei frutti del lavoro contemporaneamente alla riappropriazione dei passaggi di una storia altra che non sarà mai interamente dominabile da chi ha la forza e gli strumenti per scrivere la storia.
La scrittura di questi giovani novellatori risulta incentrata sulla mescolanza di follia e relativismo, sull’assorbimento della follia, tradizionale limite interno al sistema occidentale, ad opera del relativismo ultimo tentativo di riforma di questo sistema: la follia recuperata non dall’ormai debole convenzione morale, ma ricollocata oltre ogni verità, soprattutto oltre ogni verità rivoluzionaria.
Giganteggia, a questo punto, la figura del francese che scrisse: "dove c’è opera non c’è follia, e tuttavia la follia è contemporanea dell’opera, perché inaugura il tempo della sua verità".
Inaugurare il tempo della verità di una pratica sovversiva...