ALCUNE RIFLESSIONI SULLE POLITICHE DELLA FORMAZIONE A LIVELLO COMUNITARIO

 

 

Crediamo opportuno aprire questa sezione della rivista, dedicata all’università e specificamente al rapporto tra questa ed il sistema produttivo, aggredendo direttamente il tema al suo livello attualmente più elevato: il livello comunitario.

Si tratterà di un’analisi necessariamente incompleta, per non dire superficiale, e questo per almeno due buone ragioni: da una parte per le considerevoli difficoltà di reperimento del materiale, che ormai non ci sembra eccessivo definire sterminato, relativo alle politiche comunitarie sulla formazione; un materiale peraltro spesso disorganico e frammentario, come disorganiche e frammentarie sono le politiche stesse; dall’altra per il fatto che, nello svolgere le nostre ricerche, abbiamo dovuto rilevare che non tutto ciò che afferisce al tema in questione è formalizzato, codificato in testi normativi, convenzioni, accordi, ma al contrario è spesso frutto di estemporanee iniziative di questo o quel soggetto politico-istituzionale, e ancor di più economico-imprenditoriale.

In altri termini, occorre dirsi francamente che, a fronte di grandi progetti, elaborati con puntualità e precisione, frutto di laboriose trattative tra le diverse parti sociali, la cui realizzazione richiederebbe investimenti ingenti, spesso mai stanziati, riscontriamo una miriade di microiniziative private, frequentemente ammantate di intenzioni sociali riassunte in sigle di improbabili associazioni di studenti o ancor meno probabili associazioni culturali.

Non ci sembra improprio definire tutto questo come un processo di esternalizzazione delle funzioni decisionali, che corre parallelamente all’esternalizzazione delle funzioni produttive; come dire: esisterebbe una sorta di subappalto, di subfornitura, anche rispetto all’assunzione delle decisioni, rispetto alla progettazione della formazione professionale superiore, per cui singoli segmenti della formazione vengono esternalizzati rispetto alle sedi tradizionali di decisione, e rimessi all’iniziativa di soggetti esterni (singole imprese, consorzi, enti pubblici minori, associazioni).

Questo non smentisce affatto, anzi a nostro parere rafforza l’ipotesi che esista comunque un progetto complessivo di riduzione degli spazi e dei tempi che ancora separano il momento strettamente formativo da quello strettamente produttivo, la parte della vita durante la quale si acquisiscono determinati saperi da quella durante la quale li si spende sul mercato del lavoro.

Allo stesso modo ci sembra che si stia andando verso la costruzione di un mercato della formazione che si struttura sempre più in parallelo rispetto al mercato del lavoro.

Alla segmentazione (anche se parlare di vera e propria gerarchizzazione è più proprio) del mercato del lavoro, corrisponde una speculare segmentazione del mercato della formazione. Entrambi questi mercati procedono verso una progressiva deregolamentazione che lascerà presto pieno potere ai privati nella gestione e nell’allocazione delle risorse.

Il mercato della formazione si segmenta attraverso la differenziazione dei percorsi formativi in stretta aderenza alle esigenze momentanee del mercato del lavoro: progetti comunitari mirati per sottoccupati, disoccupati di breve, medio o lungo periodo, lavoratori espulsi dal circuito produttivo, lavoratori in mobilità, giovani in cerca di prima occupazione altamente professionalizzati, laureati.

Il tutto all’interno di una logica di estrema singolarizzazione dei percorsi di vita, che saranno caratterizzati da continua mobilità formativa e lavorativa, attraverso un continuum di fuoriuscite e reingressi tanto nel sistema della formazione quanto nel lavoro.

Ci sembra importante rimarcare la questione della singolarizzazione dei percorsi, perché anche solo superficialmente, se ne deve tentare una prima lettura politica, che denunci l’impronta fortemente atomizzante, individualistica, acquisitiva di questa filosofia della carriera.

Un esempio può chiarire meglio il nostro punto di vista: a livello comunitario (ma ormai anche in Italia), si sta introducendo il sistema dei crediti formativi. Questo sistema consiste nel considerare il soggetto come portatore di un portafoglio. Un portafoglio di conoscenze, competenze, saperi continuamente arricchito attraverso la partecipazione a corsi di formazione o specializzazione, a periodi di lavoro presso aziende, a stages formativi, etc.

Ogni momento di acquisizione di formazione professionale e culturale si presenta sotto forma di credito, di tassello ulteriore di credibilità, di affidabilità che va ad aggiungersi ai crediti precedentemente accumulati, costruendo così un mosaico di competenze che dovrebbero garantire l’accesso e la permanenza nel mercato del lavoro. Insomma un’ accumulazione originaria di risorse immateriali (conoscenze, informazioni, saperi) destinata a non cessare mai, al contrario sempre incrementata, indipendentemente dagli interessi, dai desideri, dalle aspettative individuali e sociali, indipendentemente dal senso che si vorrebbe dare alla propria vita materiale ed intellettuale. Non è possibile rallentare, tantomeno fermarsi un attimo a riflettere sul senso di ciò che si apprende.

La necessità (di essere spendibili sul mercato del lavoro) travolge e sopprime la possibilità, la potenzialità (di una conoscenza che gratifica, che rende felici). La scienza sopprime la conoscenza.

C’è in tutto questo un drammatico intreccio di flessibilità e rigidità che esercita violenza sui tempi di vita, sui tempi di non lavoro, sugli affetti e sulle passioni.

La flessibilità è all’ordine del giorno di questo sistema nel senso che, come dicevamo e diremo ancora, solo il continuo adeguamento, il continuo rimodellarsi del proprio universo di conoscenze, esperienze e competenze consente di non morire socialmente, cioè di non scomparire da una società in cui solo il lavoro dà senso ad un’esistenza; nel senso che non è possibile nutrire alcuna aspettativa di stabilità; nel senso, infine, che il mercato decide dell’obsolescenza tecnologica di un individuo esattamente come di quella di un macchinario.

La rigidità è tutta nella violenza con la quale si costringe entro una dimensione individuale e competitiva, dunque non sociale, un sapere che invece sempre più è sociale, e che sempre più si costruisce come essenza di una cooperazione tra soggettività che singolarmente costituiscono solo frammenti dell’intelligenza collettiva; di quella intelligenza collettiva che lavora comunicando, che produce inventando, che innova attraverso le tecnologie informatiche.

Quando parliamo di intelligenza collettiva, ci riferiamo da una parte all’importanza che hanno assunto le competenze intellettuali, le capacità comunicative, innovative e creative all’interno dell’attuale sistema produttivo; dall’altra al carattere sociale, cooperativo, collettivo, appunto, che queste competenze e capacità acquistano quando sono messe al lavoro nel sistema produttivo.

Ma si tratta di una cooperazione, di una socialità ovviamente funzionalizzate alla riproduzione del rapporto di capitale, per cui è prima di essere messe al lavoro che queste competenze esprimono tutto il loro potenziale di liberazione, è prima di essere sussunte entro il circuito organizzativo del lavoro che esse sono potenzialmente acquisibili ad una socialità e a una cooperazione diversa ed opposta a quella capitalistica.

Strutturare i percorsi formativi secondo la logica di atomizzazione, di gerarchizzazione, di competitività di cui dicevamo, significa sopprimere proprio quelle potenzialità sociali e cooperative di cui oggi sono cariche le vite individuali.

Dunque, un insieme di momenti individuali e sociali, istituzionali ed autonomi, personali e pubblici caratterizza il percorso formativo di ciascuno; percorso che è destrutturato e disconosciuto nel momento in cui si pretenda, in nome della funzionalità alle esigenze del mercato, di filtrarlo attraverso le spesse maglie della misurabilità, del valore di scambio, dell’informazione come merce.

La dimensione sociale del sapere, la dimensione relazionale e collettiva dell’agire conoscitivo e produttivo, è disconosciuta nel momento in cui è istituzionalizzata, costretta entro le strettoie di una flessibilità a misura di impresa, non di soggetto, di tempo di lavoro, non di vita; entro le strettoie di una flessibilità eterodiretta, che non è cioè flessibilità circa la propria gestione dei tempi di lavoro e di non lavoro, bensì circa la propria adeguatezza ad un mercato del lavoro in continua trasformazione; flessibilità nella produzione di se stessi in funzione della vendibilità di un prodotto.

Nel momento in cui il sapere è "credito formativo", l’informazione è merce, il sapere morto prevale sul sapere vivo.

Altrove cercheremo di dimostrare anche che questa parcellizzazione, questa compartimentazione dei percorsi formativi è in realtà disfunzionale rispetto alle reali esigenze attuali delle imprese, e tenteremo di offrire una lettura politica del perché di questa discrasia tra un’impresa che (a proprio profitto) valorizza, sussumendola, la dimensione sociale del sapere, e un’istituzione che invece privilegia nei contenuti (ma non nella filosofia) la rigidità di cui diciamo.

Qui ci basta avere evidenziato che le politiche comunitarie, e di conseguenza anche quelle statali, relative alla formazione, riproducono un sistematico disconoscimento delle risorse sociali della formazione, in nome di una singolarizzazione che produce competitività, ideologia produttivistica, gerarchie sociali tra i saperi.