PULP FICTION: L’ESORDIO DEL PULP TRA FICTION E MERCATO

 

Alla metà degli anni ‘90, su Pulp Fiction vanno a nozze i migliori ed i peggiori critici cinematografici del nostro tempo, grandi e piccoli recensori, sociologi più o meno improvvisati.

L’intento di questo breve intervento, quindi, non è quello di aggiungersi ad una produzione già troppo abbondante e soprattutto non può essere quello di recensire un film: non ci pare necessario, e a dire il vero, non ne saremmo capaci; tuttavia risulta indispensabile e doveroso riflettere su un "fenomeno" che, più che costituirsi come specifico prodotto di uno specifico genere, sembra piuttosto configurarsi come sfondo, ad un tempo indistinto ed esattissimo, di una fase generale di produzione artistica e di una particolare forma di costume che alimenta, ed è insieme alimentata, dal consumo dei "frutti" di quella produzione medesima.

Perché parlare di sfondo? Perché, insieme, di sfondo esatto ed indistinto?

Le due domande "rischiano" di diventare il nodo centrale di una fase culturale che caratterizza la fine di un secolo.

Ci sembra che Pulp Fiction, al di là delle intenzioni dello stesso Tarantino, si sia presentato da subito come misura di un vero e proprio genere, oltre il cinema come particolare forma di arte e oltre l’arte stessa. Stabilisce insomma una frontiera tra ciò che è fuori dal nuovo linguaggio e ciò che invece può legittimamente svilupparsi e crescere all’interno di questa forma di linguaggio stessa: il Pulp.

La frontiera, ben più definita di quanto non appaia a prima vista, esclude ogni possibilità di pensiero forte, di critica forte, di opzione determinata; si staglia al di là della plausibilità stessa di produrre e sostenere una distinzione: limite tra il limite e ciò che non lo è.

Nel film, il modo in cui si palesa la differenza tra il continente americano e l’Europa, viene ridotto in un gioco ironico e paradossale che l’ironia e il paradosso non sono sufficienti a giustificare, al modo in cui si assume hashish e alla maniera in cui si chiamano i panini al formaggio.

Questo smette di essere un problema di poco conto se si tenta di ricordare che sulla radicale differenza di Europa ed America si costruiscono i saggi di Pavese sulla letteratura americana, le riflessioni di Vittorini sull’eterogeneità dei due mondi, la complessiva riflessione critica di un gruppo di intellettuali degli anni ‘30 sull’autarchia culturale del regime, le lezioni americane di Calvino, e molte altre cose.

Il problema non è di poco conto, perché nasce con Pulp Fiction un manifesto-contenitore, seppur non programmatico, che degrada la possibilità stessa di compiere dei distinguo a seriosità vetusta e tradizionale, a verità astrattamente fondata, a mitologia dell’unità di impianto idealistico.

Cresce e si sviluppa, non per caso, all’ombra della locandina del film, una neo-neoavanguardia letteraria dell’italietta di importazione, pronta a strappare al grande schermo la sua stessa denominazione Pulp. Così, alla faccia dell’avanguardia, una retroguardia, ora mimetica, ora tardivamente antimoralista, nasconde la propria sostanziale incapacità teorica e artistica di produrre qualcosa di nuovo, sotto la retorica ormai abusata e comunque insufficiente dell’interazione tra linguaggi diversi.

Sparare in faccia a un uomo per sbaglio, diventa nel film problema di ordine pratico, occasione di diatriba sull’opportunità o meno di sporcare i sedili e i vetri di un’auto, sulla fastidiosità procurata dalla presenza di sangue e pezzettini di cervello sparsi sui tappetini.

Ancora, è sufficiente massaggiare i piedi della donna del boss, per volare dal quarto piano di un palazzo.

 

E ci si trova, così, nella usurata cornice relativista di fine secolo, all’interno della quale tutto è permesso, e nulla ha valore: viene alterata la cronologia dell’intreccio, smontata e rimontata nel segno di una casualità che nega il susseguirsi degli eventi; scompaiono gli eroi e, dunque, gli antieroi. Né buoni né cattivi, nel genere Pulp.

Nulla di male, ma anche niente di nuovo.

Quanto alla cronologia, ben più sottile la scommessa di Manchevski in Prima della pioggia (1994), sulla dialettica tra circolarità del tempo e rottura di questa stessa circolarità.

Rispetto ai personaggi, enormemente più ricca di senso l’operazione di Leone sul cinema western. Qui si sostituisce al paradigma moralista ed ormai sclerotizzato del modello americano, uno sviluppo dei personaggi realmente innovativo: non più l’eroe buono, stereotipo di virtù e moralità (controfigura del venerato presidente statunitense), cui si contrappone un opposto speculare da stigmatizzare ed annientare (l’altro, il diverso, il deviante), ma uomini-simbolo, custodi rigorosi di valori, benché siano valori posti oltre la morale.

L’etica può essere quella del dollaro o dell’amicizia, della vendetta o dell’amore, ma senza una gerarchia e, quel che più conta, al di là di ogni scala di valori dominante.

"Devo ancora trovare un posto dove non ci sia un padrone".

Il tentativo di destrutturare il reale, codificarlo nella sua illogicità, raccontarlo nella sua insensatezza, è operazione che si giustifica nella fiction, o è denuncia severa che la fiction permette di alleggerire, sublimare e rendere fruibile?

Nel primo caso, il Pulp sarebbe puro intrattenimento, spazio compiutamente ludico e non si spiegherebbe il suo anelito a differenziarsi ed estromettersi dai binari dell’evasione; nel secondo caso, oltre che poco chiara la denuncia, risulterebbe ingiustificato il linguaggio.

Infatti, l’intento mimetico e realistico richiama fasi, periodi ed esperienze di produzione artistica oltremodo superate, e se pure di neo-neorealismo si trattasse -e lo escludiamo-, l’operazione risulterebbe assai meno efficace e rigorosa di quella condotta ne L’odio o, perché no, in Terra e libertà.

In verità ci pare che il Pulp nel cinema, in letteratura, come anche nel costume, rappresenti una sorta di patente di legittimità perché ciò che è debole nei modi, nelle forme e nei contenuti, acquisti credibilità e guadagni considerazione. Siamo pronti a riconoscere che il prodotto di Tarantino sia, se non altro tecnicamente, uno dei pochi momenti dignitosi del genere Pulp, ma è esattamente per questo, oltre che per il suo carattere, già evidenziato, di paradigma genetico del Pulp, che preferiamo ingaggiarci sul film.

Lo spazio disegnato dal buon regista americano è uno spazio in cui si intrecciano e si giustappongono panini del Mc Donald’s e corpi crivellati di proiettili, citazioni bibliche e sangue, mazze da baseball e spade da samurai, droghe leggere e droghe pesanti, violenze gratuite, ingiustificate o casuali e orologi da polso custoditi per anni nel sedere di sconosciuti, orologi per i quali si è disposti ad ammazzare e a rischiare la vita...Uno spazio indistinto e confuso il cui solo limite è la fine dell’indistinta confusione, ovvero lo spazio tradizionale del rigido e ideologico schematismo borghese, ma anche quello, inedito e cosciente della provocazione pasoliniana, il campo stucchevolmente moralista del cinema all’americana, ma anche la dimensione autenticamente critica ed ecletticamente militante della Nouvelle Vague, il buonismo di Va’ dove ti porta il cuore, ma anche la violenza de Gli invisibili.

Oltre la palude del relativo c’è, insomma, la conservazione ma anche la critica radicale e l’ipotesi a tratti rivoluzionaria.

Non è ai gesuiti della prima delle due opzioni che devono rendere conto i moderni scapigliati del Pulp, ma agli ostinati sostenitori della seconda, e noi fra questi. Perché di gesuiti il mercato non ha più bisogno, ma di carne giovane da spettacolo, tra gioco e provocazione, sì; ché il gioco delle parti e la parabola del non-sense mistifica le contraddizioni e distoglie dai problemi. Se Wolf, nella soluzione di Tarantino, li risolve, a noi piace crearli: al mercato in quanto capitale, e al Pulp in quanto mercato.