banlieues

CONTRO LA RETORICA DELL’ISTANTE

"A che serve passare dei giorni se non si ricordano?"

(C. Pavese)

Bello questo modo di carpire l’istante con l’abilità del falco, fuggendo la schizofrenica scansione dei tempi del capitalismo di fine secolo! Affascinante rubare il "momento", momento in cui ci si sente realmente se stessi, fuori dalla rigida organizzazione dei tempi di lavoro e di non lavoro che l’era post-industriale, non esita a riproporre, benché riformulati e riscritti! Eccitante la fuga dalla convenzione e dalla rigidità del sistema, esodo per ricostruire l’unità e l’identità dell’individuo, alienato atomizzato e scisso all’interno di una società che produce e si riproduce consolidando la schiavitù del lavoro salariato.

Soltanto che alla fine di un secolo come questo, della mistica dell’istante che fugge e deve essere carpito al volo, ne abbiamo proprio abbastanza.

Dico semplicemente che, come comunista, sono stanco di accettare che "non si ricordano i giorni ma si ricordano gli attimi"; e mi scopro, più che stanco, incazzato al pensiero che tale consapevolezza comporti un velleitario compiacimento, un gusto ed un lusso, tutto borghese, per la presunta letterarietà di una eterna "necessaria" guerra contro il tempo, per pochi abili vincitori di piccole - ma sufficienti - vittorie.

No, non mi interessa rubare l’istante, godere di questa "furberia", di questa irrisoria sottrazione a danno del sistema ed a mio vantaggio, di cui posso "liberamente" beneficiare perché "me lo sono meritato": non è, infatti, una sottrazione a danno del sistema; gli è, invece, del tutto funzionale.

Un sistema produttivo e politico che espropria tempi, energie e saperi, riduce continuamente gli "spazi" di socializzazione e atomizza comunità e individui riducendo capacità e valori a "rotelle di una assurda macchina volta a produrre infelicità e trarne profitto", ha assoluto bisogno di guadagnare un consenso ed una legittimità.

Come è noto esso si rilegittima in vario modo: con più strategie politiche e culturali, plateali, esaltanti ed onnicomprensive, la "società dello spettacolo" spettacolarmente si ricompone.

Da un lato essa si impegna a sussumere al proprio interno forme conflittuali dell’agire politico e culturale, e attraverso il riconoscimento di meriti e dignità verso situazioni e personaggi dal ruolo apertamente critico, riesce a mistificare la propria intolleranza smaltandosi di democraticità (si pensi al Premio Nobel attribuito a Dario Fo nell’ottobre scorso). Dall’altro consente e favorisce piccole "fughe" dal sistema, che fungendo da valvola di sfogo e canale di fuoriuscita da alcune contraddizioni, le esorcizzano e garantiscono al sistema stesso una propria, altrimenti improbabile, stabilità.

Questo secondo aspetto viene in particolare considerazione proprio all’interno del discorso sul rapporto con il tempo, che uomini e donne sono costretti a "subire" all’interno del sistema capitalistico.

Ora, mentre è stata, ed è tuttora, ampiamente consolidata nella tradizione comunista, una teoria dello sfruttamento come espropriazione di un tempo di lavoro non retribuito ed estorto al fine di conseguire un profitto, meno discussa sembra essere la maniera in cui la "sovrastruttura" culturale vada a mistificare la questione del rapporto con il tempo e ad esorcizzare la caparbietà delle "catene" che inchiodano gli individui al grigio rigore della metropoli tardocapitalista.

Alludo, con i cenni ironici di apertura e con i sintetici chiarimenti riportati in ultimo, alla deleteria funzione di contenimento del conflitto che ha assolto quella "retorica dell’attimo", qualunquista e di maniera, usata e abusata dai "ribelli" di questo secolo. Retorica affascinante ed intrigante per una borghesia parolaia ed al fine compiacente, trasgressiva quanto può esserlo un amante nell’armadio, retorica, tuttavia, infiorettata e ingentilita a sufficienza da creare un diffuso modo di sentire le cose; un costume; da fare insomma di un vezzo borghese da romanzo d’appendice, un vero e proprio modello culturale con non poche pretese di sottigliezza e radicalità.

Niente a che vedere, allora -quasi superfluo precisarlo-, con il carpe diem oraziano; ma lontana mille miglia anche da tutta quella letteratura diretta ad evidenziare, ponendo attenzione all’ "istante" come contrappunto chiaroscurale, la drammatica schizofrenia affogata nei fumi troppo densi della società di massa.

Una letteratura dell’istante appare legittima quando è utile come decodificazione baudeleriana dello "schock della modernità", allorché il solo squarcio luminoso nel grigiore delle banlieues parigine, è il polpaccio di una passante intravisto fugacemente sotto il lembo di una veste: qui, l’attimo di luminosità, non fa che esprimere per contrasto il profondo disagio dell’intellettuale catapultato nelle infinite contraddizioni della neonata periferia metropolitana; e questo disagio sottintende rabbia e desiderio di altro.

Siano difesi, dunque, Baudelaire e i suoi "compagni di viaggio" da quella borghesia giovanilista e famelica, che tutto fagocita e tutto sussume nel rozzo tentativo di ridurre i rigorosi cantori dello spleen di Parigi, ora a setta misteriosa di poeti estinti o in estinzione, edonista e decadente, ora -il che è peggio- ad allegra brigata goliardica e ribellista, immolata ai nostri tempi sull’altare falsamente intemperante di una feroce gioventù cannibale. "Alla Piccola Fenice bevevamo the, etc. Si parlava specialmente di Baudelaire Rimbaud e ogni genere di poeti e scrittori sballati. In quel periodo feci anche il mio primo pompino ma non mi piaceva." (Aldo Nove, Cosa rimane, in: La Bestia, Costa & Nolan 1997): sic!

Stiano in guardia, insomma, gli artefici delle due illecite volgarità, a non consacrare al consumo di massa ciò che resta fuori e contro il potere ipnotico della merce, chè i braccialetti della comunione e il lucido da scarpe al quale sono legati i primi potrebbe graffiare loro i polsi e macchiargli la camicetta, e il sangue al quale sembrano tanto affezionati i secondi potrebbe andargli di traverso insieme agli intestini e alle budella di cui scrivono.

E’ ancora legittima una letteratura dell’istante che racconta l’amore di due operai, lui costretto al turno di notte, che si incontrano al mattino nel breve intervallo tra i rispettivi turni di lavoro, e stentano appena un caffè e poche carezze prima di allontanarsi di nuovo (il riferimento è al Calvino de Gli amori difficili).

Ebbene, da questa letteratura dell’istante, si evince con chiarezza un forte spirito di denuncia, e insieme, dalle contraddizioni evidenziate, viene con forza una profonda ansia di rinnovamento.

Non c’è esaltazione nel ricordo degli attimi; c’è invece, tutta intera, la sofferenza che deriva dalla espropriazione dei propri tempi vitali, dall’impossibilità di gestire autonomamente i tempi della riflessione e i tempi degli affetti; c’è il disagio che viene dall’impensabilità stessa di una nozione di tempo come durata, come spazio vitale da attraversare lentamente, da allargare e ridurre a misura dei tempi del pensiero, da combattere e condizionare con i tempi del desiderio.

Un tempo lungo, libero e liberato dal lavoro va desiderato, rivendicato e preteso.

Un tempo del quale ricordare la consistenza, gli odori, le pause e gli intervalli fra un gesto e un altro; un tempo che permetta di amare le soste come spazi di sviluppo progressivo e sottile della percezione delle cose e dell’altro.

Un tempo, attenzione, non preindustriale e premoderno: tutt’altro. Si tratta di un’idea di tempo individuabile solo in un presente nel quale l’intelligenza sociale generale e le nuove tecnologie che ne sono il portato permettono l’automatizzazione di porzioni tanto consistenti del ciclo produttivo, da rendere possibile una grande riduzione del lavoro vivo e pensabile una forma di reddito svincolato dalla schiavitù del lavoro.

L’era dell’informazione è iniziata. Negli anni che ci attendono, tecnologie software sempre più sofisticata porteranno la nostra civilità sempre più vicina al mito di un mondo senza lavoratori." (J. Rifkin, La fine del lavoro, Baldini e Castoldi, Milano 1995).

Un’idea di tempo, insomma, che nell’era della comunicazione, in cui continua ad assottigliarsi il rapporto tra struttura e sovrastruttura, presuppone un’ insurrezione dei corpi e delle intelligenze contro il dominio capitalistico ed un’ insurrezione del linguaggio contro l’ideologia culturale e politica del pensiero unico; un’idea di tempo che dà consistenza ed energia al progetto di liberazione dallo sfruttamento, al desiderio comunista, alla rivoluzione, ed è insieme il contorno e lo sfondo di un nuovo futuro spazio sociale ancora tutto da disegnare.

Del resto -ci piace ricordarlo con Marx : "Il tempo è lo spazio dello sviluppo umano", (K. Marx, 1865).

 

 

webmaster: aliosha@antisocial.com