EDITORIALE

LE NUOVE COMUNITA’ SCIENTIFICHE NELLA SOCIETA’ DI FINE SECOLO.

UNA RIFLESSIONE SU LIMITI, VINCOLI E POSSIBILITA’

1. Scienza e tecnologia, tecnologia ed economia, economia e scienza

Lo sviluppo tecnologico contribuisce a determinare le proprietà peculiari d’ogni società moderna; qualsiasi tentativo d’analisi politica profonda deve fare pertanto i conti con la sua organicità al processo di costituzione del sociale e dell’economico. La tecnologia si configura come interfaccia tra componenti diverse della società: permeando in tutti i suoi aspetti la vita sociale dei Paesi a capitalismo avanzato, imponendo nuovi tempi nella produzione e nel consumo, e definendo immagini e forme nuove della cultura e dell’ideologia.

L’attività scientifica, con i suoi programmi di ricerca, con l’insieme di tecniche e di valori che la contraddistinguono paradigmaticamente, alimenta il processo d’innovazione tecnologica, ma nell’uso di strumenti e metodologie avanzati è essa stessa dipendente dallo sviluppo tecnologico. Si rivelano dunque inadeguate le ingenue rappresentazioni della scienza come neutra indagine della natura e della tecnologia come ambito separato delle applicazioni, e s’impone la necessità di cogliere in modo nuovo l’articolazione del rapporto tra scienza e tecnologia.

2. L’informatizzazione come "trait d’union" tra tecnologia e produzione

La disamina delle modalità della ricerca nelle comunità scientifiche conferma la tesi secondo cui esse ridefiniscono il proprio statuto e il proprio oggetto d’indagine coerentemente con le esigenze del sistema economico e tecnologico. Sarà interessante considerare la transizione postfordista da questo punto di vista, sostanzialmente inesplorato.

Dagli anni ottanta, assistiamo ad una trasformazione radicale dei luoghi della produzione scientifica; certo, il processo è ancora in corso, con interruzioni e accelerazioni improvvise. Ma è ormai tramontata la monarchia della big science degli acceleratori di particelle e della ricerca spaziale nel panorama dei programmi di ricerca internazionali. Dal Progetto Manhattan, che realizzò la bomba di Hiroshima, agli anni d’oro della NASA, la produzione scientifica di punta è strettamente legata al contesto geopolitico ed industriale. La Guerra Fredda ha "sublimato" il conflitto in una competizione tecnoscientifica senza precedenti, dettata dall’urgenza di rinnovare continuamente tanto il potenziale militare d’attacco quanto quello di difesa: il grande impulso dato alla ricerca nucleare e a quella spaziale è stato duramente pagato dalla comunità scientifica in termini di indipendenza.

Inoltre, la concentrazione della ricerca in pochi imponenti laboratori, il ruolo decisivo giocato dalle istituzioni pubbliche, la rigida separazione tra gestione ed esecuzione dell’attività scientifica e la pianificazione dei programmi di ricerca fanno dell’impresa "scienza" un’organizzazione simile alla fabbrica "fordista-taylorista", con le cautele necessarie.

La fine della Guerra Fredda, l’abbandono da parte dello Stato della funzione di regolazione e sviluppo e la completa commercializzazione dell’informazione scientifica nel sistema produttivo impongono alla big science un drastico ridimensionamento. Decade il progetto reaganiano dello scudo stellare; si moltiplicano le collaborazioni internazionali nel campo della ricerca spaziale, per l’insostenibilità dei costi da parte di due soli Paesi, gli Usa e la Russia. Gli acceleratori di particelle di potenza crescente, che attiravano prestigio ed invidie tra comunità scientifiche nazionali, perdono il loro fascino e vengono addirittura abbandonati in fase di costruzione, come nel caso del Superconducting SuperCollider statunitense.

3. Nuove comunità all’orizzonte

Le istituzioni scientifiche più potenti, ma anche più spiazzate dal rapido cambio di vento, affrontano quindi un processo di riconversione, adattandosi a nuove problematiche scientifiche. Contemporaneamente, l’insieme delle ricerche definite small science, ovvero i programmi di ricerca che erano stati oscurati nell’opinione pubblica, nei finanziamenti e nel prestigio scientifico, dalla big science, intraprende un percorso autonomo, sviluppando alcune peculiarità metodologiche.

La rivoluzione informatica favorisce dal canto suo la transizione verso strutture della ricerca differenti. Essa ha permesso una maggiore circolazione dell’informazione scientifica, un accesso più diretto ai risultati della ricerca e la diffusione dell’uso di particolari forme di sperimentazione, come la simulazione al calcolatore.

Inoltre, in nuovi ambiti della ricerca, come nel caso delle biotecnologie, le innovazioni sul piano dell’organizzazione del lavoro, della localizzazione della ricerca e dei rapporti tra comunità e strumenti di lavoro, divengono i tratti salienti della rottura con il precedente modello di ricerca.

4. L’informatica e la modellistica

L’informatica mette in luce una dualità ontologica dell’oggetto dell’indagine scientifica: da un lato, la diffusione della tecnologia digitale, aumentando enormemente la potenza di calcolo, ha permesso di affrontare problemi prima insoluti; dall’altro, come detto, si è sviluppato un nuovo ambito della conoscenza scientifica, fino a diventare un nuovo oggetto della ricerca, attorno alla teoria dell’informazione.

Gli investimenti operati dalle grandi aziende di software e hardware hanno reso comune l’uso del personal computer nella ricerca scientifica, sostituendo la funzione del rigido calcolatore con macchine più flessibili.

Dapprima utilizzato soprattutto come unità centrale di calcolo in grado di prevedere approssimativamente i parametri di una ricerca che doveva svolgersi comunque attraverso la prova sperimentale, il computer è divenuto progressivamente un mezzo con cui simulare il comportamento di un sistema fisico o biologico. Ha sostituito il momento della sperimentazione vera e propria, nel momento in cui, invece di approssimare i sistemi fisici esistenti in natura, si è iniziato a studiare sistemi nuovi sotto forma di software, senza necessario riferimento ai fenomeni reali. Avviene in tali circostanze un superamento del ruolo di mediazione tra dato sperimentale e teoria svolto dalla simulazione: la dimensione strumentale e quella cognitiva collassano in un unico ambito.

La teoria dei sistemi caotici, ad esempio, ha bisogno di strumenti capaci di risolvere complicati problemi di calcolo, noti tuttavia già alla fine del secolo scorso, e solo in funzione di tali strumenti ne venne avviato lo studio con successo, a conferma della persistente validità dell’uso tradizionale del calcolatore.

Ma più rilevanti sono i casi per i quali la simulazione diviene una modellizzazione avente già valore euristico. Da questo punto di vista, un esempio è rappresentato dai risultati dell’Istituto di Santa Fe nel New Mexico, dove la simulazione al calcolatore è considerata un essenziale termine di paragone per studiare il comportamento di strutture economiche, fisiche o organiche (l’andamento della borsa, la rappresentazione dei meccanismi biologici, il comportamento di uno stormo di uccelli, il comportamento di materiali particolari sotto l’influsso di campi elettromagnetici).

5. Le comunità di ricerca sorte attorno alle nuove tecnologie

Ma alla mutazione delle modalità della ricerca scientifica indotta dall’informatizzazione, corrisponde un’importante mutazione dell’organizzazione del lavoro scientifico. La programmazione del calcolatore sfuma i confini tra ideazione ed esecuzione, tradizionalmente separati nel grande laboratorio come nella fabbrica. L’Istituto di Santa Fe, ad esempio, può essere considerato, per certi aspetti, un prototipo dell’istituzione accademica tipica del postfordismo.

Dal punto di vista sociologico, mutano anche le condizioni materiali del lavoro scientifico. L’attività viene svolta, per ammissione degli stessi ricercatori dell’Istituto, con una maggiore flessibilità negli orari di lavoro che si traduce, inevitabilmente, in un’estensione del tempo di lavoro. La nuova figura professionale nata nella comunità high tech, a metà tra il ricercatore scientifico e il manager delle nuove tecnologie, perde di vista la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita, tra management professionale e familiare

Chris Langton, uno dei più importanti ricercatori di Sante Fe, così riferisce la propria esperienza di programmatore in un centro di ricerca: "Non avevamo l’obbligo di presenza in un determinato orario. Il capo, Frank Ervin, era un tipo creativo e moderno. Assumeva persone brillanti per creare programmi, e concedeva loro una grande libertà. Così, quelli che dovevano lavorare al computer avevano la macchina libera tutto il giorno, mentre noi prendemmo l’abitudine di arrivare alle quattro o cinque del pomeriggio e trattenerci fino alle tre o alle quattro di notte, quando si poteva finalmente giocare."

Nelle zone di produzione scientifica ad alta informatizzazione (pensiamo alla Silicon Valley) si è già assistito ad un notevole incremento degli orari di lavoro, con ricadute significative sullo status sociale dei ricercatori.: "(...)il modello di successo a Silicon Valley è lavorare duro settanta ore la settimana e alla fine incassare i frutti di qualche innovazione. In questo non c’è molto spazio per mettere su famiglia. E, in ogni caso, secondo gli ideologi tecno-libertari è la donna che deve stare a casa, occuparsi dei bambini e aspettare il marito-futuro-miliardario".

Il corollario alla nuova condizione lavorativa delle comunità di ricerca legate allo sviluppo dell’informatica è l’insinuarsi di forme ideologiche connesse all’attività scientifica sempre più omogenee alle politiche del neoliberismo: svalutazione delle istituzioni pubbliche, minore solidarietà sociale, ritorno verso strutture familiari superate, sviluppo delle dinamiche commerciali nel mercato sregolato sorto sulla rete globale.

Charles Murray, ad esempio, uno dei massimi esponenti dell’ideologia cyber-destroide che si sta diffondendo nelle comunità high tech, così si è espresso a proposito dei criteri regolativi del lavoro del nuovo scienziato-manager: "Nessuna legge dovrà regolare i rapporti di lavoro, se non quelle che riguardano l’uso della forza e le frodi". Denise Caruso, esponente di medesima tendenza: "Noi, la comunità high tech, siamo intelligenti e voi, il governo, siete stupidi. La nostra superiorità intellettuale e le nostre fertili abilità imprenditoriali rendono superflua la necessità di un governo e persino di mantenere un governo che non vogliamo, di cui non abbiamo bisogno".

6. Oltre la dimensione della cattiva coscienza

Analoghe considerazioni possono essere sviluppate in un altro ambito della ricerca che nell’ultimo decennio ha avuto una grande espansione, l’ingegneria genetica.

L’attenzione dell’opinione pubblica vi si è concentrata nel corso degli anni ottanta, quando le istituzioni scientifiche all’avanguardia nel settore ebbero crescite economiche notevoli. Si trattava perlopiù di aziende legate ai laboratori pubblici di ricerca (università), esempi tipici di small science. Nel 1985 vi erano negli Stati Uniti circa 150 piccole aziende di ricerca biotecnologica; tra l’82 e l’84 il loro fatturato è cresciuto mediamente del 70% e, negli anni successivi, i giganti delle industrie alimentari, chimiche e farmaceutiche hanno finito per inglobare gran parte della ricerca nel settore biotecnologico (se si escludono le ricerche condotte per finalità di carattere militare che pure sono cresciute nel corso degli ultimi anni).

La presenza di un corpo di ricercatori esiguo e di un apparato di sperimentazione molto ridotto è una caratteristica essenziale delle aziende che effettuano ricerche biotecnologiche. Il gap dimensionale tra le imprese multinazionali che richiedono prodotti biotecnologici e le piccole (small science) aziende e istituti pubblici che li realizzano è stato colmato dalla creazione di reti di collaborazione, trasversali a pubblico e privato, nelle quali la direzione dei flussi di ricerca e di capitali è spesso indecifrabile.

In questa dimensione i singoli ricercatori subiscono la trasformazione imposta dal mercato: il settore è in espansione, ma crea poca e precaria occupazione, con ritmi di laboratorio frenetici e interminabili turni di lavoro (flessibilità of course). In questo quadro si sviluppa l’intreccio tra pubblico e privato: spesso il pubblico garantisce la formazione e la ricerca di base, mentre il privato "mette a profitto" le conoscenze acquisite. Come osservano Froguel e Smadja: "La novità sta dunque nella costituzione di una miriade di imprese di ricerca di base, tutte fondate (...) sulla sapiente utilizzazione di metodologie di origine spesso interamente pubblica".

Dato che un laboratorio di buon livello ha costi molto minori rispetto alle spese necessarie per la ricerca sulla fisica delle alte energie o dello spazio, la dimensione microimprenditoriale degli istituti di ricerca biotecnologica fa sì che spesso gli stessi ricercatori se ne propongano come imprenditori o direttori, con l’immediato effetto di ostacolare un approccio critico al lavoro individuale e collettivo.

7. L’eliminazione del costo del controllo democratico della ricerca

La questione delle pressioni extrascientifiche che indirizzano la ricerca è caratteristica della scienza contemporanea. Gli avvenimenti di questo secolo, anche solo paventati, hanno posto gli scienziati di fronte alla necessità di tutelare la propria autonomia critica. Nella situazione attuale, tuttavia, per varie ragioni lo scienziato difficilmente riesce a sentirsi parte di un contesto complessivo, in cui identificare nessi e rapporti di forza, e valorizzare il lavoro collettivo che crea legame sociale e soggettività politica.

Nella deregulation dei programmi di ricerca, la durata della permanenza all’interno di una determinata équipe si è ridotta. La precarietà è la condizione universale dei ricercatori, tra borse di collaborazione e contratti a termine. Si recide quindi il vincolo che lega il ricercatore alla comunità di appartenenza.

L’instaurarsi di un rapporto diretto tra scienziato-manager, alla ricerca di un committente, ed impresa, o consorzio di imprese, o rete di imprese a capitale pubblico e privato, etc… (si pensi alla creazione di parchi tecnologici atti a sviluppare precise ricerche in campi specifici, disegnati dalle aziende in funzione delle loro esigenze commerciali; oppure, per rimanere in Italia, alla abusiva collocazione, garantita dalla riforma Ruberti, nel terreno della ricerca pubblica delle esigenze dell’industria, che ha permesso lucrose collaborazioni tra l’Università della Calabria e la Fiat di Melfi, tra gli istituti di ricerca del Nordest e le grandi aziende del Triveneto, come la Zanussi) fa sì che l’attività scientifica non possa più legittimarsi nel nome del progresso sociale, ma rientri nel gioco privatistico della prestazione d’opera, in cui l’unico parametro di misura sia la produttività. Il ricercatore vede ridursi i margini di autonomia critica e ogni vincolo legislativo volto alla tutela degli stessi ricercatori viene percepito come un ostacolo alla libera espressione individuale.

In questo quadro di riferimento la possibilità dello scienziato di dare o no il proprio assenso alla ricerca che sta sviluppando è divenuto sempre più un "costo" che chi dirige la ricerca è costretto a eliminare, al fine di liberarla da vincoli etici. Al di là delle polemiche di natura morale, è bene tenere in considerazione il fatto che questo stato di cose sicuramente diminuisce la capacità di autodifesa delle comunità di scienziati dalle ricerche potenzialmente dannose. L’eliminazione di elementi critici dal discorso scientifico non fa altro che rafforzare il carattere di presunta oggettività della scienza, ridotta ad un gioco ("Science is fun", diceva Richard Feynman, premio Nobel per la Fisica) con le sue regole autoreferenziali, estranee ad ogni contestazione: al massimo, chi non ha voglia, non gioca.

8. La scienza nel postfordismo, ovvero benvenuti nello splendido mondo dell’oblio

La problematica tecnoscientifica si pone dunque con forza al centro della riflessione politica e sociale. Essa è stata affrontata da punti di vista estremamente variegati. C’è chi si è soffermato sulla genesi dell’innovazione tecnologica nel contesto sociale evidenziando i processi di autorafforzamento che ne caratterizzano la diffusione. Si è osservato la dinamica dell’affermazione tecnologica come un fenomeno di self-organization, caratterizzato da parametri di attivazione iniziale e dalla successiva instaurazione di legami cooperativi capaci di determinare l’insorgenza di strutture organizzate. In altri casi, l’attenzione del dibattito si è focalizzata sul quadro funzionale della tecnologia: è l’immagine della "megamacchina". I processi di gestione e di indirizzo della politica e dell’economia sono sempre più interni ai vincoli funzionali di una "macchina" tecnologica ad alta complessità, capace di gestire dinamiche globali ma allo stesso tempo sempre più vulnerabile nelle sue diramazioni periferiche.

La comunità scientifica affronta una crisi di autocoscienza e perde la forza di soggetto politico capace di porre vincoli alle dinamiche dello sviluppo, di indicarne interessi sommersi, di evidenziarne i rischi per le popolazioni e gli ecosistemi. Lo spiazzamento in questione è determinato dall’illusione di poter fare a meno degli istituti classici di controllo e di poter attivare meccanismi di autoregolazione attraverso l’uso delle nuove tecnologie, quasi che la rete, rendendo tentacolare l’insieme dei contatti di compravendita, di produzione e di controllo delle risorse scientifiche, potesse rendere più democratici e autoregolanti i processi di produzione e trasmissione della ricerca scientifica. Questa fiducia nelle proprietà auto-organizzanti degli strumenti informatici in particolare e di quelli tecnologici in generale è ovviamente malriposta: se di strumenti si tratta, non è possibile delegare loro determinate scelte di carattere generale inerenti i rapporti tra uomo e natura o tra uomo e società.

Si pone quindi un problema rispetto agli spazi di autonomia del sapere in un sistema nel quale i centri di comando e di controllo della ricerca scientifica sono dislocati in modo spesso indecifrabile, nel quale la scienza è sempre più insensibile alle proprie responsabilità e sempre più dipendente dagli input della produttività.

Ovviamente le indicazioni in questo senso non possono che essere approssimative, ma ci sembra di poter affermare che il problema sostanziale sia rappresentato dallo smembramento dei legami comunitari propri degli istituti di ricerca, che hanno favorito il diffondersi di valori omogenei agli interessi del mercato globale. È solo nella riproposizione di nuovi legami comunitari mediati da interessi collettivi che può darsi la possibilità di una riappropriazione critica del sapere. Ma quali modalità nuove sono ipotizzabili per tale riappropriazione? Quali istituti, quali soggetti possono farsene carico?

L’articolo è stato scritto nel 1997 dal Collettivo "FF" con la finalità di trarre dal lavoro di ricerca svolto nel crso dei seminari sulle "Biotecnologie" e sulle "Scienze della complessità" una sintesi che gettasse luce sulle caratteristiche con cui si realizza oggi la ricerca e, soprattutto, sui soggetti che ne determinano l’evoluzione

Collettivo di Fisica e Filosofia dell’Università di Roma "La Sapienza"

 


 

[INDICE]

 

webmaster: aliosha@antisocial.com