EDITORIALE

RIFORMA UNIVERSITARIA: SPAZI DEL CONFLITTO E COORDINATE DI MOVIMENTO

Negli ultimi mesi, l’uscita del documento stilato dal Gruppo di lavoro sulla riforma del sistema universitario diretto da Guido Martinotti e del Documento di lavoro del minigruppo dei saggi incaricati di chiarire i principi sui quali dovrebbe incardinarsi la nuova articolazione didattica del sistema scolastico, hanno provocato un certo dibattito nel mondo della formazione.

Alla filosofia produttivistica della bozza Martinotti ci pare si sia risposto sostanzialmente in due maniere: da un lato le associazioni studentesche riconosciute e i sindacati degli studenti come l’UDU e l’UDS hanno ragionato nell’ottica possibilista dell’emendamento del progetto di riforma, al fine di assicurare alcune garanzie didattiche (monitoraggio ministeriale sull’autonomia degli atenei da parte di agenzie nazionali) e di salvaguardare alcune garanzie sociali (agenzia nazionale per il diritto allo studio, libertà di accesso alle scuole di specializzazione, difesa del valore legale del titolo di studio, etc.) progettando per quanto possibile, un’idea di "Democrazia nell’autonomia"; dall’altra i circoli universitari orbitanti nell’area di Rifondazione Comunista, come anche la maggioranza dei collettivi studenteschi autorganizzati, concludono i loro documenti di analisi politica con un rigetto assoluto del progetto di riforma, rigetto categorico quanto inappellabile: "lanciarsi in sterili battaglie per emendare questo testo, migliorarlo e mutarlo, è quanto di più inutile e sterile si possa immaginare. Questo progetto e soprattutto la logica che lo presiede (la logica produttivistica e competitiva del mercato) va rifiutata in blocco".

Pur condividendo in larghissima parte le riflessioni critiche espresse dalle ultime realtà cui si faceva riferimento, come anche molte considerazioni di Augusto Ponzio nell’articolo pubblicato in questo numero di Banlieues, il nostro intervento si iscrive in buona parte al di fuori di questo dibattito.

L’obiettivo del nostro contributo non è quello di emendare la riforma "separando il grano dal loglio", né quello di rimarcare la nostra ostilità ad un adeguamento (perché di adeguamento si tratta) del sistema formativo all’attuale fase di sviluppo del sistema produttivo: intendiamo piuttosto cominciare a misurarci con l’analisi di uno scenario endemicamente in mutamento ed all’interno di questa cornice, che comincia a rendersi lentamente più nitida, ragionare su quali spazi si aprono per nuove adeguate forme del conflitto e chiederci in quali modi e con quali caratteristiche un contropotere studentesco abbia la possibilità di indicare e costruire una prassi della trasformazione che una strumentazione teorico politica inadeguata ci ha impedito di delineare nel corso degli ultimi anni.

Inizieremo con una interpretazione di alcuni degli aspetti per certi versi innovativi ed a nostro avviso più problematici della riforma, dopodiché tenteremo, sulla base di alcune riflessioni più generali, di abbozzare una strategia di intervento politico sulla quale riteniamo indispensabile iniziare un confronto.

Siamo consapevoli del rischio della scommessa politica che tentiamo di intraprendere, ma riteniamo che nella fase attuale, le trasformazioni del paradigma produttivo e formativo impongano il rischio della scommessa e che non sia mai troppo azzardato ciò che risulta, oggi come mai, assolutamente necessario.

Adeguamento al sistema produttivo e territorializzazione

a) La questione dell’adeguamento al sistema produttivo postfordista (flessibile, leggero, continuamente bisognoso di innovazione, strutturato nei termini della cooperazione orizzontale etc.) è argomentazione presente e ridondante in ogni documento istituzionale, in assoluta sintonia con i libri bianchi e verdi prodotti dalla Commissione Europea sulla formazione e l’insegnamento.

L’aspetto dell’adeguamento alle esigenze del mercato, alla filosofia produttivistica ed all’idea di competizione ha dunque, geneticamente, la forma e la sostanza disciplinare e coattiva di cui il sistema produttivo specificamente capitalistico ha bisogno per il proprio funzionamento.

A questo primo aspetto, si affianca sempre a monte della riforma, un secondo aspetto che indicheremo come nomenclatura: la forma linguistica, terminologica, categoriale nella quale si codifica l’approccio alla dimensione formativa e culturale nel suo insieme, risulta significativamente appiattito sull’orizzonte della nomenclatura d’impresa, ed il carattere simbolico di una simile operazione non può essere trascurato, soprattutto alla luce dell’ormai cospicua letteratura che ha evidenziato il carattere costitutivo di senso e di immaginario ad opera del linguaggio.

In sintesi, il comando capitalistico, nei suoi due aspetti di adeguamento e nomenclatura, si colloca come presupposto del progetto-processo di riforma.

b) L’uscita (o meglio le uscite, in una prospettiva di formazione continua) dal sistema formativo subisce la forma e la sostanza del disciplinamento e della coazione tramite un meccanismo di selezione e assorbimento da parte del mercato, interamente incentrato sulla possibilità di sussumere i saperi e le abilità nel giostrare ed adattare quegli stessi saperi, nella direzione della valorizzazione capitalistica.

In sintonia con una simile configurazione, la misurazione del valore dei saperi, attraverso il sistema dei crediti formativi, assume come parametro principale la spendibilità di quei saperi medesimi sul mercato del lavoro, organizzato in maniera sempre più flessibile secondo le esigenze di imprese che, a loro volta, producono non più in vista di un aumento della domanda, bensì adeguandosi in modo flessibile alla domanda del mercato. Il sistema dei crediti, peraltro, non dovrebbe limitarsi a certificare i percorsi formativi istituzionali, ma avrebbe anche la funzione di "rendere esplicito il capitale di istruzione che l’individuo assorbe dalla società in cui vive", attestando "conoscenze ed esperienze escluse dai percorsi formativi istituzionali" (Bozza Martinotti).

Il "servizio" che viene fornito alle imprese attraverso una simile configurazione del sistema dei crediti non va trascurato. Si tratterebbe infatti di un dispositivo di formalizzazione di quelle "mappe del sapere diffuso tali da permettere alle imprese di rintracciare i luoghi in cui i saperi nascono". Mappe di quel sapere sociale diffuso, disperso sui territori, e quindi delle capacità, delle potenzialità produttive locali, che le imprese postfordiste hanno in questi ultimi anni elaborato in modo informale e che verrebbero loro fornite a costo zero da un sistema formativo organizzato su base territoriale.

Il comando capitalistico, postosi a monte della riforma si impone dunque a valle della stessa attraverso il parametro della spendibilità dei saperi acquisiti sul mercato, e della loro certificazione tramite il sistema dei crediti.

c) La terza questione da prendere in considerazione costituisce la parte più problematica del nostro percorso analitico. Si tratta infatti di ragionare sulla configurazione del percorso formativo in quanto tale, o meglio dello "spazio" intermedio fra gli assunti di cui al punto a) (ciò che sta a monte della riforma), e di cui al punto b) (ciò che si trova a valle della stessa).

Sintetizziamo provvisoriamente gli aspetti nodali da tematizzare:

1) L’autonomia degli atenei intesa come forte territorializzazione del rapporto formazione-impresa, con tutti i condizionamenti di carattere didattico che il disegno -peraltro in parte già avviato- di autonomia finanziaria, non può non implicare.

2) La flessibilità curricolare riguardante "non soltanto i curricoli e i contenuti disciplinari, ma anche le modalità delle attività didattiche" (Bozza Martinotti).

Il primo di questi aspetti verrà approfondito più avanti. Per il momento ci limitiamo a rilevare che un quadro di autonomia delle sedi universitarie e il rapporto col tessuto produttivo del territorio di riferimento, più che nei termini di una privatizzazione, deve essere letto nei termini di una gestione privatistica (in questo senso il documento su ECN di Officina 99) delle risorse formative; il che non è detto sia di per sé meno grave né meno pericoloso.

La questione della flessibilità curricolare impone un discorso più ampio che non può limitarsi all’analisi del documento Martinotti, ma deve essere inquadrata nel contesto della più generale riforma del sistema formativo avviata con il Documento sul riordino dei cicli scolastici ed articolata più specificamente nel documento del minigruppo dei saggi.

L’enfasi palesata a più riprese dai riformatori rispetto all’esigenza di un sistema formativo che miri "allo sviluppo di requisiti quali la capacità di apprendere, di scegliere, di cooperare, di risolvere i problemi" garantendo "un approccio multidisciplinare" che permetta al soggetto di orientarsi criticamente all’interno della realtà complessa nella quale è chiamato ad operare, non ci pare attestazione di sola facciata.

Se accettiamo, come pare sia da più parti, l’ipotesi dell’adeguamento al nuovo paradigma produttivo, il modello formativo che va configurandosi è quello di un sapere postfordista: "versatile, flessibile, innovativo, critico per certi versi, se con questo termine intendiamo l’attitudine a cambiare, a innovare lavorando e a lavorare innovando, ad interpretare le diverse situazioni (di mercato, di opportunità, di produzione) e a decidere di conseguenza".

La nostra impressione è sostanzialmente questa: presupposto a monte il comando, nelle forme dell’adeguamento e della nomenclatura e garantito lo stesso a valle, nelle forme della spendibilità dei saperi sul mercato, una "libertà" di gestione del percorso formativo confacente alle inclinazioni del soggetto in formazione, possibilmente integrata da momenti di autoattivazione ed autoformazione, risulta tutt’altro che disfunzionale all’attuale paradigma produttivo. Un momento di transitoria e spesso fittizia autovalorizzazione, se opportunamente incorniciato all’interno di un modello culturale univoco, non appare semplice concessione, ma pare piuttosto elemento caratterizzante della nuova funzionalizzazione.

Autoregolazione e libertà di scelta, all’interno di una cornice così salda, dovrebbero condurre il soggetto o i gruppi di soggetti -lavoratori immateriali in formazione- a spendersi normalmente nella direzione di una loro più ampia funzionalità al sistema.

Se questo costruirsi e costituirsi come funzionali costituirebbe la normalità, il problema del comando si rappresenta al punto c) come capacità di controllo e distruzione delle eccezioni, laddove l’eccezione si configura come autogestione progettualmente disfunzionale ed autoattivazione cooperativa e autonoma.

In sintesi, allo stadio per così dire intermedio, la dimensione del comando si articola su due livelli: da un lato come controllo sistemico ed ideologico generale (assunzione soggettiva di una filosofia produttivistica ancorata ad una solida etica del lavoro), dall’altro come controllo specifico e delegittimazione sistematica delle eccezioni alla normalità.

Ora il problema sembra porsi in questi termini: nel come configurare la libertà dell’eccezione, nel come riarticolare una libertà nell’eccezione e nel come fare dell’eccezione la regola nelle forme di una soggettività collettiva autonoma, cooperativa e progettante.

Per individuare il bandolo della matassa ci sembra indispensabile premettere, seppur sinteticamente, alcune considerazioni di carattere generale:

I) Una prima esigenza è quella di tornare sul concetto di criticità solo parzialmente accennato, al fine di sventare il rischio di pericolose ambiguità ed al fine di metterlo più specificamente in relazione al lavoro intellettuale tendenzialmente egemone nel contesto produttivo di riferimento.

Sia chiaro che quando alludiamo ad una dimensione critica, all’interno della cornice istituzionale di un progetto di riforma, non abbiamo un’idea di "criticità forte", capace cioè di mettere in discussione alle fondamenta il sistema di produzione e di potere dal quale questa riforma ha origine. La stessa richiesta di un "sapere critico" in una simile accezione, rivolta alla parte istituzionale parrebbe, se non contraddittoria, quanto meno impraticabile.

E’ però evidente che in un sistema produttivo che pone al centro la dimensione linguistica, comunicativa, relazionale, ed in cui diviene tendenzialmente egemone il lavoro intellettuale, un margine di criticità sia esigenza del capitale stesso. "E’ il carattere critico del lavoro intellettuale a costituire la base del rapporto di scambio fra lavoro e macchina, dato che la stessa macchina altro non è che lavoro intellettuale già cristallizzato in forma di richiesta di relazione, e quindi essa stessa sollecita la messa in funzione delle qualità del lavoro intellettuale. E’ il carattere critico del lavoro intellettuale la maggior forza produttiva".

II) La seconda esigenza è quella di chiarire che, per quel che concerne il lavoro intellettuale o immateriale, risulta praticamente impossibile distinguere un tempo di lavoro, produttivo e valorizzante, da un tempo di non-lavoro, dedicato esclusivamente a se, alle proprie relazioni, ai propri affetti ed ai propri desideri, poiché la totalità dell’esperienza di vita e l’insieme dei saperi e delle facoltà comunicative, sono messe al lavoro nella loro globalità. Peraltro il lavoro immateriale non è che un "settore" del più ampio lavoro comunicativo-relazionale che si dipana lungo l’intero circuito produttivo-distributivo-riproduttivo, ed è questo più ampio flusso di simboli e linguaggi che solcano lo spazio territoriale e virtuale, individuale e collettivo, ad essere realmente centrale all’interno del nuovo paradigma.

Per questi motivi, quando si parla di produzione e produttività, risulta improprio attribuire l’una e l’altra ad uno o più soggetti determinati, mentre parrebbe più opportuno parlare di produzione e produttività del sistema nel suo complesso o, ancora, di intelligenza sociale generale produttiva.

III) La terza esigenza è quella di specificare che quando parliamo di intelligenza sociale generale o di intellettualità di massa, parliamo della potenza produttiva di una intelligenza collettiva che è sì motore del regime postfordista, ma che risulta costretta e limitata nelle maglie del dominio capitalistico, e si presenta frustrata nelle sue enormi potenzialità dalla gabbia sempre più costrittiva ed irragionevole del lavoro imposto.

Cooperazione orizzontale e creatività, pur evocate dal capitale in ristrutturazione, vengono dunque mortificate nel loro impiego funzionale alla valorizzazione del capitale medesimo, e non hanno facoltà di esprimersi nelle forme più libere e peraltro più ricche e produttive, dell’autovalorizzazione.

Appunti per una possibile strategia d’intervento

All’interno di un quadro sintetizzato per necessità in queste brevi riflessioni d’insieme, dovrebbe risultare più chiaro e lineare questo primo tentativo di abbozzare una strategia di intervento politico conflittuale all’interno del paradigma formativo che si va delineando.

Divideremo per comodità in tre parti, speculari alle tesi sopra esposte, queste prime indicazioni programmatiche, premettendo però che ognuna di esse, sganciata dalle altre, risulterebbe fortemente decurtata del proprio peso specifico come anche della propria possibilità di incidenza.

1) Riteniamo indispensabile che si inizi a ragionare in modo nuovo sulla questione degli investimenti nel sistema formativo da parte dell’amministrazione pubblica, riformulando alcune delle pur sacrosante rivendicazioni sul "diritto allo studio", ahi noi purtroppo efficacemente compromesse dall’immaginario della crisi e dalle strumentali "esigenze di bilancio".

Sarebbe necessario lavorare oggi su una contraddizione stridente fra il riconoscimento, ormai generale, della assoluta centralità dei saperi e della formazione nell’attuale contesto sociale e l’inspiegabile marginalità nella quale sono relegati gli investimenti immateriali nel bilancio dello Stato.

"Molte voci che oggi sono contabilizzate come spesa di gestione corrente (e si pensi solo alla scuola) sono in realtà investimenti di cui le generazioni future hanno estremo bisogno, ma questi investimenti sono considerati, nella contabilità attuale, come spesa, oltretutto una spesa che va ridotta (...). In una economia in cui l’hardware perde importanza rispetto al software non è affatto logico continuare a ragionare come se le generazioni future debbano ereditare da noi immobili a rapida obsolescenza, piuttosto che un sapere, un ambiente culturale e una coesione sociale all’altezza della nuova economia".

Soltanto intervenendo in questa direzione potrà essere possibile impedire che questo vuoto di iniziativa venga occupato da progetti privati nel sistema formativo.

2) Partendo dalla considerazione, anch’essa universalmente condivisa, che il sistema formativo sia uno dei contesti maggiormente proliferi di saperi, relazioni, comunicazione, etc., crediamo sia prioritario riconoscere alle diverse soggettività che lo attraversano, arricchendolo e rendendolo vivo, una cittadinanza piena. In questa chiave risulta assurdo (prima che ingiusto) che gli studenti nel loro costituirsi come lavoratori immateriali in formazione, o in molti casi come soggetti direttamente produttivi, paghino per formarsi, per muoversi, per arricchirsi e crescere in un sistema al quale non soltanto risultano del tutto essenziali, ma che spesso ne sfrutta a costo zero il lavoro di ricerca, di approfondimento, di riflessione e creazione (si pensi soltanto ai progetti di ricerca appaltati dalle case farmaceutiche o alle tesi ingegneristiche svolte presso le imprese).

Parliamo di riconoscimento di una cittadinanza piena (contro ogni contrattualizzazione del rapporto formativo) e non di diritto allo studio, volutamente. Infatti, mentre all’interno del vecchio compromesso fordista alcuni diritti, tra cui il diritto allo studio, "si configuravano come mediazione capitalistica fra bisogni e desideri espressi socialmente e loro soddisfacimento", risulta necessario nell’era della cooperazione sociale che la possibilità di muoversi, studiare, autoformarsi ed intraprendere percorsi collettivi di produzione di senso e di valori d’uso, sia garantita ad ogni studente attuale o potenziale, nelle forme di servizi gratuiti, di opportunità e, perché no, anche di reddito. Un simile percorso potrà e dovrà peraltro intrecciarsi con quello di altre soggettività la cui cittadinanza viene disconosciuta (spesso anche negata con violenza) tanto e più di quanto non accada per gli studenti.

3) E’ indispensabile attivarsi per l’autorganizzazione di percorsi formativi autogestiti in forme seminariali, ottenendo il loro finanziamento e riconoscimento da parte dell’Università. Esperienze simili, spesso praticate in passato, sono state negli ultimi anni intraprese con successo solo in casi limite ed approfittando di congiunture particolari.

In una prospettiva di autonomia didattica (ideata, lo sappiamo bene, per tutt’altri motivi), una possibilità simile diventa certamente più praticabile. E’ evidente che gli equilibri interni ad ogni contesto formativo si spostano unicamente in base ai rapporti di forza che sono in campo, ma è altrettanto vero che, per la prima volta, un possibile contropotere studentesco avrebbe una controparte visibile ed immediatamente individuabile, impossibilitata a rimandare altrove le proprie responsabilità.

In parole povere, finiremmo di sbattere il muso contro quel meccanismo di astrazione dei processi decisionali, tanto fittizio quanto efficacemente opposto ai momenti di lotta degli ultimi anni, e potremmo cominciare a ribaltare l’idea di autonomia che ci viene proposta concependola invece come autogoverno ed autogestione dei saperi e dei percorsi formativi.

Tentiamo ora di rispondere preliminarmente ad alcune obiezioni che potrebbero porsi ad una simile impostazione.

La prima riguarda il pericolo che in un quadro di autonomia possa ulteriormente frantumarsi un fronte nazionale di lotta.

Ora, al di là del fatto che un movimento nazionale non si vede dai tempi della Pantera, ci sembra ben poco edificante demandare alla vecchia organizzazione statale del sistema formativo la garanzia per un’organizzazione unitaria delle lotte e per la loro circolazione. E’ invece nostro compito, in una prospettiva di autogoverno, favorire la costruzione di una rete di relazioni fra le diverse realtà, che permetta la circolazione delle esperienze seminariali autorganizzate e che favorisca una battaglia unitaria per il finanziamento pubblico al sistema formativo come anche per il riconoscimento di una piena cittadinanza studentesca e non.

Ci pare inoltre, che l’erosione progressiva dello Stato nazionale a fronte di processi paralleli di globalizzazione e territorializzazione insieme, costringano (e non è detto che sia un male) a dimensioni del conflitto territoriali ed europee, pressando sull’apparato statale nei termini dell’ottenimento di alcune garanzie intermedie (mantenimento del valore legale del titolo di studio, fondo di riequilibrio in luogo della competizione fra gli atenei, forti investimenti sul sistema formativo).

Un’altra obiezione cui ci sentiamo in dovere di anticipare una risposta è riferibile al carattere solo tendenziale della ristrutturazione in corso, la quale per i motivi più diversi (non ultime le resistenze baronali) potrà attuarsi a più velocità, mantenendo cospicue porzioni del sistema formativo nelle forme irregimentate e compartimentate del vecchio modello.

A questa obiezione, esatta e pertinente, ci piace rispondere utilizzando la medesima argomentazione con cui Negri e Lazzarato difendono la tesi della progressiva centralità del lavoro immateriale: "...se la messa in evidenza di una tendenza non deve essere confusa con l’analisi d’insieme, di contro una analisi di insieme non ha valore che nel fatto di essere chiarita dalla tendenza che presiede all’evoluzione".

Un’ultima obiezione possibile (tutte le altre speriamo di poterle problematizzare in seguito, con i compagni e le compagne che vorranno affrontare questa discussione), è pertinente alla non veridicità e ideologicità meramente di facciata che viene attribuita alle dichiarazioni programmatiche in merito alla criticità, pluridisciplinarità e trasversalità del nuovo contesto formativo.

Qui, delle due l’una: o si continua a leggere anche questa ristrutturazione con le categorie politiche del vecchio paradigma fordista, attestandosi su battaglie resistenziali che tentano di conservare quel poco che resta del diritto allo studio e dell’Università di massa (o altrimenti non si spiegherebbe, perché ci si muova progettando riforme dal basso solo quando si affacciano progetti di riforma dall’alto), oppure si coglie l’adeguamento al nuovo paradigma produttivo, se ne comprendono le nuove esigenze, e si inizia a progettare nuove forme di conflitto per trasformare quella "criticità debole" di cui adesso il capitale ha bisogno, in una "criticità forte" capace di metterlo in discussione alla base.

 

Conclusioni

I rischi di una battaglia del tipo di quella che prefiguriamo non ci sono sconosciuti, ma la miseria del presente, sotto gli occhi di tutti, ci impone di cominciare a disegnare nuove frontiere di conflittualità. Dunque: che le forze riformiste propongano i loro emendamenti e che i baroni universitari oppongano le loro resistenze. Il compito di coloro che non vogliono né riformare, né resistere, ma piuttosto sovvertire l’esistente e reimpostarlo su basi completamente diverse, deve essere un altro.

Bisogna uscire dal buco nero della crisi, della nostra crisi, che è poi l’unica della quale siamo tenuti ad occuparci perché è l’unica reale e l’unica che ci compete risolvere, per riprendere a testa alta, con quella capacità di lucida intuizione delle novità e dei mutamenti che ha più volte contraddistinto l’altro movimento operaio, il cammino della liberazione sospinta dal desiderio prima che dal bisogno.

Dobbiamo occupare gli interstizi di un presente di per se contraddittorio, ed in questi interstizi portare nuove contraddizioni e sperimentare nuove pratiche conflittuali che anticipino, a un tempo, la prefigurazione di altro.

Dobbiamo sì mantenere la memoria, ma non dimenticando che questa è la memoria di un movimento che è stato capace di cogliere ed anticipare, prima di altri, i cambiamenti della composizione di classe, le caratteristiche della ristrutturazione, i passaggi di paradigma che impongono un avanzamento nell’analisi della classe ed una riedizione (non già revisione) delle prospettive per la sua liberazione.

Nelle scuole e nelle università, progettare il rovesciamento dell’autonomia funzionale in autogoverno comunitario e autonomo dell’intellettualità di massa può costituire un punto di partenza significativo per scommettere sull’autogestione dei saperi, sulla liberazione dal dominio sulla ricchezza del possibile.

 

 


 

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