EDITORIALE | |
EDITORIALE
|
|
L'impossibilità di aggredire in modo complessivo l'idra del capitalismo postfordista
è un dato oggettivo, un confine invalicabile indissolubilmente connesso alla stessa
pensabilità dell'approccio, un limite fondante questo contraddittorio sistema di
produzione che si evolve stabilmente. Misurarsi con una specificità non vuol dire
specializzarsi o rinunciare ad uno sguardo più ampio; assumere l'analisi critica
dell'intreccio tra paradigma formativo e sistema di produzione, come punto di vista
privilegiato, non esclude letture più estese, al contrario le fonda e le giustifica in
nome di una necessaria consequenzialità teorica. Accettare la posta della nuova partita
è una strada obbligata...Il racconto che ne scaturisce, parziale come tutti i racconti,
cerca di snodarsi in modo unitario sul sentiero compreso tra l'impervia parete del
postfordismo ed il profondo precipizio della memoria delle lotte che furono. Un racconto,
alla fine del quale, abbiamo cercato di individuare nuove piste che non vogliamo seguire
da soli, un racconto aperto alla materialità di un prima e di un dopo. Le figure impiegate in questa narrazione hanno, in parte, il sapore del passato, esprimono un certo gusto dell'analogia, manifestano una volontà di riferirsi a condizioni e momenti di un già visto, più o meno lontano. Del resto, ci pare che tanto immaginario d'area nasca su questa esigenza associativa e simbolica, sul tentativo di scoprire corrispondenze e tematizzare metaforicamente queste analogie. Se è vero che il linguaggio è un nuovo territorio della produzione, la sintassi, ma soprattutto la semantica, si sottraggono al loro ruolo storico e trapassano nell'ambito del sistema produttivo. Aderiamo, per quanto possibile, a quella che ci sembra una nuova filologia politica del linguaggio tesa ad attaccare il modello semantico imposto, per elaborare un tessuto di riferimenti e figure altro rispetto all'organizzazione capitalistica del senso e dei significati. Non a caso il dominio capitalistico ha assunto il volto del despota, ha indossato la maschera imperiale e non perché globalmente transnazionalizzato. Quando ad un proletario viene tolto tutto e tutto viene messo a valore, anche il non poter o il non voler lavorare, da salariato diventa schiavo di un padrone. Così il capitalismo postfordista ha contrapposto alla libera federazione di saperi, risorse, rapporti, relazioni (alla potenza produttiva della cooperazione sociale), l'estensione onnicomprensiva del suo comando, del suo profitto. L'impero ha ricondotto, alla brutale unità dei suoi interessi, la varietà di desideri e bisogni delle moltitudini nomadi che attraversano le sue regioni, ha dislocato le sue milizie alle periferie più estreme dei territori assoggettati, ha estorto agli schiavi la memoria e la creatività, non solo la fatica ed il sudore del corpo. Questa è l'immagine forte impiegata per descrivere la filosofia dei processi di ristrutturazione ed automazione, le nuove frontiere del controllo nella fabbrica postfordista, le linee guida dell'innovazione tecnologica come nuova tecnologia del controllo sociale sui lavoratori, il nesso invisibile ed ambivalente che lega la volontà politica del capitale alle sollecitazioni conflittuali delle soggettività autonome. Ma su questa soglia spettrale, sull'indescrivibile linea che connette la produzione di conflitti alla nefasta messa a valore delle lotte, su questo originario grado zero del postfordismo, su questo primissimo tassello dell'immateriale, ci muoviamo attraverso più ambiti, senza volontà prescrittive o bussole gerarchizzanti. Alla corte capitalistica si sono spente le luminose avventure di sovversione dei codici espressivi, gli sforzi ambiziosi di rompere la grammatica dei funzionari a vantaggio del volgare operaio. Niente più roghi per gli eretici, né forche per i banditi... bensì un posto da buffoni nelle stanze del re: conseguente necessità di approfondire criticamente il rapporto tra produzione artistica e centri sociali, di riflettere sulla causalità creativa che intreccia l'innovazione sociale all'industria culturale, di ripensare il rapporto tra critica del linguaggio e produzione di opere e segni, di rifondare una linguistica all'altezza del nuovo rapporto tra significante e significato, forse non più completamente presieduto dal principio classico dell'arbitrarietà del segno ma in qualche modo governato dall'intenzionalità del profitto. Impero colonizzazione frontiere guerra: sforzo di circoscrivere e limitare ma per meglio aggredire. Confini immateriali che non coincidono più con i limiti terminali, ma che attraversano i centri, che si snodano nelle roccaforti, tra un in più di esclusione ed un in più di inclusione, tra un difetto di diritti ed una messa a valore pervasiva e capillare. Ed è sulle torri di queste roccaforti che ci auguriamo di vedere sventolare tante vele al vento con su la scritta rossa: REDDITO DI CITTADINANZA SGANCIATO DAL LAVORO, mentre sulle pagine di questa rivista vogliamo continuare a raccontare, senza alcun intento mimetico e realistico, i percorsi di organizzazione interni all'intellettualità di massa, prefigurando tra le righe. Come può cambiare il mondo chi lo rappresenta così com'è? Confini immateriali, ma anche frontiere geografiche, le colonne d'Ercole dell'Europa occidentale e capitalistica, sempre meno atlantiche, sempre più orientali e mediterranee. Quelle frontiere che moltitudini di immigrati cercano di superare a rischio della vita stessa per poi perdere l'esistenza nelle maglie vischiose dell'economia informale, nelle reti di un sistema che va etnicizzandosi verticalmente, che si modula su presunte caratteristiche etniche, che ha assunto il razzismo dalla sfera ideologico- sovrastrutturale e lo ha reso, da complemento del capitalismo nazionale e monopolista, pilastro dell'estrazione diffusa di plusvalore. Ma la riflessione sulla produzione diventa sforzo di produrre risposte, si svolge in ipotesi, si ri-volge al passato. Va a misurarsi con altre esperienze di lotta e ricomposizione, lontane, ma non per questo perse nell'oblio della dimenticanza o, peggio, sepolte dalle pagine della socialdemocrazia storiografica. Lavoro di riattivazione del senso di alcuni momenti di riconoscimento/conflitto della soggettività operaia, a cavallo tra otto e novecento; problema attuale dell'organizzazione, cosciente, autonoma e dal basso delle soggettività tentativo di fondare, all'interno delle necessità imposte, espressioni aggregative, risposte compositive, ipotesi conflittuali: dall'economia dei bisogni alla politica dei desideri. Neomutualismo come progetto che vuole intrecciarsi e confrontarsi con altri progetti, che vuole contribuire allo sviluppo di un'alchimia sovversiva, plurale e variegata, che risponda alla domanda di ricucitura, estesa ed in avanti, del tessuto sociale lacerato, frammentato. È un insospettabile fondatore della filosofia occidentale ad insegnarci, prima di chiunque altro, che i despoti fanno "di tutto onde i sudditi restino il più possibile sconosciuti gli uni agli altri (perché è proprio il conoscersi che produce reciproca fiducia)" (Aristotele). Prendemmo le mosse dall'università, ma seguendo il filo delle dinamiche formative, abbiamo cercato di estendere la portata della critica ai meccanismi, più generali, di fabbricazione dei soggetti della produzione, all'astratto principio della professionalità come "versante soggettivo del controllo d'impresa", alla ragione dialettica ed alla sua compressione molare e continuista. Il problema diventa quello di articolare processi costituenti da anteporre ed opporre al funzionamento della fabbricazione del tardo-Leviatano, la questione è quella del desiderio comunista e di ciò che si è disposti a fare e pensare per soddisfare questo desiderio. Sullo sfondo di un sistema che produce prima soggetti poi tutto il resto spicca ancora la forzosità della logica della guerra come unica strada, "lineare ma non organica", da percorrere, per liquidare, nella materialità di queste condizioni produttive, senza alcun tipo di millenarismo, la dialettica in ogni sua forma. Ancora una volta si tratta della piena e ricca manifestazione di una temporalità che vuole irrompere, adesso e dovunque, che rifiuta transizioni ed eventi propizi, che vuole esprimere la prassi e la teoria dell'avvenimento di rottura, come attività, non come lavoro, come potenza, non come potere, come azione libera, non come azione irrigimentata. L'avvenimento nella proposta di una "microfisica della rivoluzione", seguendo orme francesi, all'incrocio tra quotidianità trasformata e percorsi collettivi di liberazione. Vi sembra poco? "E' un passo: facciamolo" (Toni Negri).
Collettivo redazionale Banlieues
|
|
webmaster: aliosha@antisocial.com |