Questo numero di Banlieues apre scenari teorici che mostrano come questa rivista sia sempre ribelle alla massima secondo la quale di ciò di cui non si può parlare si deve tacere.
Attraversare tematiche come la produzione di soggettività, il neo mutualismo, sfiorare il tema dell'impero, testimonia ancora una volta la necessità politica di ricostruire frammenti di rapporto tra teoria e prassi.
Importante ancora di più adesso, in una fase in cui il "movimento" sembra avere riacquistato nuova vitalità con l'emersione degli invisibili delle "tute bianche" e mentre i centri sociali cercano un nuovo protagonismo politico.
Una dinamica di movimento che ci vede, non solo non indifferenti, ma in prima linea nelle lotte aurorali per il reddito di cittadinanza e per la definizione di una sfera pubblica non statale. Le riflessioni che seguono sono dunque un contributo interno al dibattito per la ricostruzione di un agire politico adeguato ai tempi. Il necessario uso tattico degli strumenti classici della non violenza, dell'agire politico comunicativo possono avere come loro rovescio un'ideologica esaltazione della non violenza, una sostanziale incomprensione dei nessi del dominio capitalistico nell'era della sussunzione reale.
A questo proposito ricordiamo il dibattito tra Habermas e Krahl sul concetto di prassi in Marx; Habermas accusa Marx di ridurre sul piano categoriale la prassi sociale al solo momento del lavoro e la costituzione del genere umano al lavoro tecnico-strumentale.
Krahl rovescia il problema e sostiene che Habermas può rinfacciare a Marx un concetto ristretto di prassi solo perché muove da un concetto ristretto di produzione. Nella riflessione materialistica, oggi più che mai, il concetto marxiano di produzione non è riducibile al semplice lavoro tecnico-strumentale. La riduzione compiuta da Habermas a livello teorico comporta a livello politico la smaterializzazione delle forme di relazioni della prassi politica l'eliminazione dei problemi dell'uso della violenza e della lotta di classe. Oggi come ieri una tale visione dell'agire simbolico può favorire solo la nascita di un movimento impotente.
La tradizione materialistica che va da Machiavelli a Marx passando per Spinoza ha chiarito come l'esercizio del potere, che è l'essenza del mondo, altro non sia se non una forma di violenza.
In questo contesto è evidente come la proclamata estraneità alla violenza non possa che tradursi in una morale ascetica che conduce all'impotenza teorica e politica; perché dunque nonostante l'insostenibilità teorica dell'ideologia della non violenza la pratica della non violenza ha così larga diffusione?
Riteniamo che le ragioni di questo fenomeno vadano rintracciate nel deperimento della società civile, era, infatti, attraverso i canali delle istituzioni della società civile che alcune forme d'azione politica anche violente erano legittimate, basti pensare allo sciopero sindacale, forma canonica della violenza legittima.
Nella fase della sussunzione reale il capitale non si mostra più interessato alla mediazione della società civile, ogni lettura riformista dell'opera di Gramsci, ogni strategia di utilizzo democratico delle istituzioni della società civile si rivela illusoria. Il capitalismo svela la sua natura parassitaria, il comando si presenta separato dalla società produttiva, il mondo è unificato dalla " produzione di merci a mezzo di comando", la forma politica di quest'unificazione è l'Impero. Di fronte alla potestas imperiale la potentia della moltitudine, contro il parassitismo del capitale la ricchezza della cooperazione sociale e immateriale. Finalmente si può parlare, fuori dall'utopia, di maturità del comunismo, questa consapevolezza deve essere però accompagnata dalla coscienza della mostruosità del comando capitalistico, immotivato, astratto certo, ma non per questo meno brutale. Fuori da questa prospettiva la ricchezza della composizione di classe viene svilita, immiserita in categorie sociologiche e populiste, categorie che sono sempre il preludio del riformismo. Una volta per tutte deve essere chiaro che la maturità del comunismo non ha nulla a che spartire con la riedizione d'idee proudoniane di liberazione individuale, con l'apologia d'immaginifiche zone temporaneamente autonome, con un'improbabile liberazione nel lavoro. Occorre tornare ad interrogarsi sul rapporto tra coscienza di classe e organizzazione, consapevoli di come questi concetti siano al limite della loro operatività politica, un semplice ritorno a Marx è inutile, davvero in questa fase è necessario osare Marx oltre Marx.
Lo sciopero operaio è stato formidabile strumento di pressione economica e politica sul capitalismo e sul suo stato, quali possono essere le possibili forme di conflitto nell'epoca della sussunzione reale e del controllo sociale diffuso? In una certa misura lo sciopero parigino del 1995 dei servizi pubblici prefigura la ricchezza dei conflitti futuri. Gli attori della lotta non sono solo i lavoratori, ma sono anche gli utenti, i cosiddetti "usagers" che hanno riconosciuto la loro natura di "coproduttori"del servizio e quindi di " coproduttori" della lotta. Quello che qui interessa mettere in rilievo è che i momenti di lotta non erano solo quelli degli imponenti cortei sindacali, ma anche i cortei conviviali dei milioni di uomini e donne che raggiungevano il loro posto di lavoro a piedi. Entra così in scena una nuova forma di lotta: lo sciopero metropolitano. Finalmente nella metropoli del controllo sociale diffuso irrompe la prassi sovversiva della moltitudine.
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