Qui e ora

Qui e ora


Da un capo all'altro di questo secolo si dispiega l'insurrezione linguistica comunista, insurrezione di armi e segni, di versi e barricate, insurrezione di lunghe marce nei codici di espressione e di sperimentalismo politico radicale: ne consideriamo le proporzioni reali, come in un gioco di specchi, guardando il capitalismo tardo moderno, la sua produzione, la sua innovazione.
Prendiamo atto che l'insurrezione linguistica comunista è ridotta a patetica rivolta bottegaia e poujadista al servizio del direttorio comunicativo capitalistico. Prendiamo atto che le punte più alte della destrutturazione, prodotte dal movimento negli anni settanta, ma già articolate nel decennio precedente, terminano nel vasto ed indefinito tessuto dell'innovazione, nei meccanismi della sussunzione reale, nella perfidia dell'intelligenza ideologica.
L'impero ha vinto, ma ha dovuto riconoscere i suoi limiti strutturali: ha rinunciato ai suoi dei, ha smesso di parlare la sua lingua, si è fatto scolaro mentre era despota. L'impero ha vinto, ma deve stare attento, ha saccheggiato brutalmente ma deve continuare ad esercitare il suo dominio. Il faraone postfordista deve temere il suo rovesciamento ma anche la fuoriuscita organizzata degli schiavi dai suoi territori. Le molteplici offensive strategiche di ordine ideologico, produttivo, poliziesco, con cui il capitale, a partire dalla metà degli anni settanta, mette in ginocchio un'autonomia sociale diffusa ad alto tasso di incompatibilità delineano un rebus di difficile scioglimento, pongono un'equazione complessa le cui soluzioni stanno ben oltre i meccanismi della sussunzione ed i processi di ristrutturazione.
Nella critica complessiva del postfordismo la riflessione su linguaggi e comunicazione ha guadagnato da tempo la centralità che le spettava di diritto. Eppure non è difficile registrare uno scarto inquietante tra una teoria all'altezza degli ingranaggi produttivi ed una prassi ancora invischiata nel problema del riconoscimento e della definizione di un codice comune di espressione. La battaglia nel linguaggio è ancora strategica; l'articolazione di un'autonomia linguistica diffusa come fronte espressivo della ricomposizione interno alle soggettività è un passaggio imprescindibile; la piena democratizzazione della lingua che racconta l'intellettualità di massa, forse ancora con i toni dell'intellighenzia, è un obbiettivo determinante. Il superamento massiccio della conflittualità comunicativa di movimento ad opera di un capitalismo che ha monopolizzato la produzione dei messaggi di alterità e differenza impiegandoli ora per disinnescare qualsiasi potenzialità critica ora per incentivare il redditizio mercato del diverso, del contrario, dell'antagonista, impone la necessità di un ripensamento drastico dell'agire comunicativo.


Gli eretici
E' nel conflitto dispiegato, dalla catena fordista alla monolitica fabbrica letteraria, dai quartieri alle carceri, dalla decostruzione dei codici dominanti alle onde libere delle radio autogestite, che il capitale matura l'esigenza di un riassetto complessivo del suo sistema di produzione e dominio, un riassetto basato da un lato sulla violenta disarticolazione del movimento rivoluzionario attraverso ristrutturazioni, corruzione, eroina, galera, dall'altro su una riarticolazione strutturale flessibile e reticolare tesa alla moltiplicazione ed alla frammentazione delle centrali del comando che traeva paradossalmente dalle forme di insubordinazione di massa un prezioso ed insostituibile modello organizzativo. La Grecia sconfitta fornì la sua cultura ed il suo immaginario all'imperialismo di Roma, mentre Marx tornava a Detroit e Lenin in Inghilterra il capitalismo seguiva di soppiatto l'uno e l'altro sulla via del ritorno.
Ed è sui lidi nefasti di questo riassetto del sistema capitalistico, dalla fine degli anni settanta a buona parte degli ottanta, che terminano tragicamente i viaggi di sovversione cominciati prima del 1968, intorno al sessanta, quando alla sinistra politico-letteraria del partito comunista cominciano ad agitarsi le minoranze di ispiratori di quelle lotte che impegneranno il capitale su varie regioni del suo impero e che porteranno nel '77 ad una faticosa e spesso non pienamente cosciente saldatura del versante politico e di quello artistico-cominicativo. A cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, sulla scia di un antihegelismo di impostazione sostanzialmente fenomenologica sviluppato in alcuni settori dell'intellettualità come risposta all'idealismo prusso-moscovita del partito comunista, cominciano a svilupparsi percorsi minoritari di organizzazione e composizione. I centri di questo importante passaggio possono essere considerati la rivista di Luciano Anceschi "il verri" che vede la luce nel 1956 ed i "Quaderni rossi" di Tronti e Panzieri il cui primo numero è del 1961.
E' il mondo della vita che, all'alba degli anni sessanta, comincia faticosamente ad organizzarsi contro tutte le riduzioni economiche ed ideologiche, contro il tempo della produzione e contro la descrizione tipicizzata di questo tempo, contro il provincialismo storicista e realistico del PCI. Il rifiuto di considerare la classe operaia come una variabile dipendente della produzione capitalistica, di estrarre dall'analisi del livello del capitale l'analisi del livello della classe corrisponde inevitabilmente al rifiuto di registrare, trascrivere, la realtà sul piano dell'apparenza attraverso la nauseante retorica progressista e profetica del neorealismo. L'inchiesta operaia e la mimesi critica diventano gli strumenti di questo rifiuto, metodologie critiche avanzate che penetrano l'oggetto di analisi per modificarlo, che non deducono la realtà bensì la considerano da punti prospettici di massima vicinanza. La poesia della neoavanguardia diventa, secondo Giuliani, un "modo di contatto", un "modo di fare", mentre l'inchiesta operaia apre "nel muro,/un foro", pone la composizione della classe come nodo centrale, inizia a circoscrivere e a raccontare l'intenzionalità autonoma. Comincia in questo periodo a formarsi un'altra sensibilità, quel nuovo criterio di lettura dei fenomeni che sosterrà per i successivi vent'anni le lotte autonome. L'avanzata dell'husserliano mondo della vita ed il riscatto delle cose e delle poetiche si impongono in una grande epoché collettiva che riduce d'un sol colpo il rapporto meccanico della coscienza e del livello organizzativo con lo sviluppo delle forze produttive insieme alle dogmatiche tesi zdanoviane sull'appoggio esterno dell'artista alla classe attraverso il partito. Percezione e tempo diventano i nodi centrali dello scontro e fino al 1977 su queste nuove frontiere si combatteranno le battaglie decisive.
Il neorealismo era stato il versante artistico del riformismo piccista e sulla linea Manzoni-Verga il partito aveva bloccato qualsiasi tipo di ricerca sperimentale così come nell'apologia del lavoro e nella retorica dell'interesse generale aveva affogato qualsiasi possibilità di rottura forte. Il proletariato e gli intellettuali comunisti, raccolte le bandiere della borghesia e cercando di inverarne la storia, avrebbero guidato senza scossoni l'Italia verso il socialismo. Intorno alla critica della rappresentazione impressionistica ed al rifiuto del lavoro, ovvero attraverso l'attacco strategico diretto alle fondamenta della produzione e dell'organizzazione capitalistica dell'espressione, si muovono parallelamente neoavanguardia ed operaismo. Il recupero dell'espressionismo pluringuista e l'egalitarismo salariale sono, su livelli distinti ma speculari, le prime manifestazioni tattiche di un ambizioso processo di sovversione e rottura. Mentre a livello narrativo l'approccio diretto e fotografico all'oggettività viene archiviato come sostanzialmente esterno alla realtà delle classi oppresse perché viziato da convinzioni deterministiche e fisiologiche, a partire dai cancelli di Porto Marghera, tra il '66 ed il '67, il giornale "Potere operaio" lancia la parola d'ordine degli "aumenti salariali uguali per tutti" al fine da un lato di superare la competizione tra gli operai e dall'altro di operare una sottrazione rispetto al ricatto del salario in nome del tempo e della vita. La contestazione della realtà produttiva e sociale così come era stata conosciuta e descritta fino a quel momento assume toni di estrema radicalità, deformazione-conoscenza-trasformazione e liberazione del tempo sono i piani adottati per attaccare la ragione dialettica molare capitalistico-burocratica. L'emersione di una "libertà antinaturalistica" che lascia parlare le cose e gli oggetti definendo nuovi significati, riducendone altri, e l'immersione della voce narrativa in questa realtà pulsante e magmatica, non riducibile a nessuna superficie, a nessuna apparenza, sembrano anticipare inconsciamente quell'esplosione di desideri e bisogni che caratterizzerà gli anni settanta. In una pubblicazione del collettivo "A/traverso" del 1976 la compenetrazione narrativo-politica raggiunge un punto culminante: "Far saltare la dittatura del Significato, introdurre il delirio nell'ordine della comunicazione, far parlare il desiderio, la rabbia, la follia, l'impazienza ed il rifiuto. Questa forma della pratica linguistica è l'unica forma adeguata ad una pratica complessiva che fa saltare la dittatura del Politico, che introduce nel comportamento l'appropriazione, il rifiuto del lavoro, la liberazione, la collettivizzazione...".
Se il capitalismo contemporaneo sia riuscito a trovare il codice per tradurre queste parole sovversive in progetto di ristrutturazione e sviluppo resta un problema aperto. Ma la forte sensazione è che l'assottigliamento semantico dominante, la contaminazione dei vari registri espressivi, la globalizzazione dell'arte oltre i confini antichi dei suoi stati siano le ironiche risposte del sistema all'onda lunga del conflitto. Il delirio nella comunicazione oggi non spaventa più nessuno, può terrorizzare soltanto noi. La pluralità dei tempi della vita contro il tempo della produzione, delle poetiche contro l'estetica, delle varie realtà contro la realtà-Storia-movimento operaio ufficiale, ha trovato nel capitalismo un interprete infido e attento.
Non c'è più soltanto un inferno...


Autonomie
Tratteggiare integralmente una storia della complementarietà tra sperimentalismo artistico e lotte autonome fino al '77 ed oltre, è un progetto troppo ambizioso per una rivista. Individuare con esattezza tutti i piani di interazione tra queste aree di rivolta, liberazione e rottura è operazione complessa che finisce per perdersi nel mare di relazioni spesso personali, di contiguità profonde, di vicinanze difficili da evidenziare. Determinare esattamente la soglia del trapasso dall'acme della rivolta all'inizio della sussunzione è cosa pressoché impossibile. Riteniamo che delle suggestioni intense saldino i due versanti di queste riflessioni, delle suggestioni chiaramente simboliche che vanno ad interessare più piani del senso e probabilmente più sensi. Sciogliere tutte le metafore e sviluppare linearmente il livello simbolico non c'interessa, significherebbe non rendere giustizia alla vitale e profonda energia di quei movimenti. Eppure, muovendoci a ridosso del livello significante dei linguaggi, come l'archeologo che all'inizio dello scavo porta alla luce i primi resti, continuiamo ad imbatterci in territori comuni, in siti su cui hanno abitato più civiltà. Autonomia dell'arte ed autonomia operaia: i cardini teorici di molteplici universi del conflitto.
L'insofferenza per qualsiasi posizione esterna ai campi dello scontro e per qualunque forma di doppio binario (quello sindacale della spontaneità e quello politico del partito, quello dell'intellettuale borghese e quello macchiettistico dell'eroe operaio) si costituisce come imprescindibile tratto di un approccio immanente alla composizione di classe ed al linguaggio. Il monopolio dei chierici del PCI su un moderno latino, lingua colta e dotta delle traduzioni politiche e dell'engagement, viene spezzato a vantaggio della lingua operaia, del lessico spontaneo dei movimenti, dei segni che affermano se stessi in una plurivocità libera da esigenze esterne. Da "Quaderni rossi" a "La Classe", da Potere operaio ad Autonomia, compito dell'organizzazione è quello di porsi sul margine più avanzato del fronte di lotta e da lì anticipare le mosse del capitale. L'arte del conflitto ed il conflitto dell'arte rifiutano direzioni esterne, obbiettivi innestati artificiosamente sul corpo delle lotte, partiticità anestetizzanti e bloccate.
Il linguaggio è terreno d'azione e soggetto stesso dell'agire, la letteratura fa non racconta più un fare. La poesia schizomorfa dei novissimi (Giuliani, Pagliarini, Sanguineti, Balestrini, Porta) e le poetiche del romanzo neosperimentale cercano di attaccare i meccanismi lineari e transitivi della comunicazione. L'offensiva è diretta da un lato contro l'eterodirezione contenutistica del PCI, dall'altro contro la povertà del senso nella comunicazione quotidiana. Autonomia dell'arte come concezione procedurale, non tecnico-artigianale, scevra da necessità di trasmissione del senso, anche del senso politico, ma in sé politica perché insofferente delle codificazioni linguistiche dominanti: assunzione di una politicità intrinseca. Questa politicità interna e sostanziale, che non conosce necessità superflue e posticcie, questa profonda attenzione ai passaggi autonomi della creazione, al modo con cui l'arte viene realizzata, lungi dal ricostruire un'aura scissa e separata intorno alla letteratura, trapassa in una tensione relazionale aperta che vuole collegarsi alla condizione storica senza alcuna passività ricettiva. Autonomia dell'arte non come bisogno di "autonomia inclusiva", ma come "relazionalità autonoma". "Il rapporto della letteratura con gli altri ambiti operativi della sfera sovrastrutturale non è di meccanica e passiva ricezione, né quello con la base strutturale è di causazione deterministica e rispondenza lineare" (Lucio Vetri).
Ma su questo versante del discorso ci muoviamo verso il paradigma attuale, ci troviamo senza saperlo nel cuore delle odierne dinamiche produttive. Dove sia il confine, la linea di separazione, non ci è consentito dirlo, ma nella teorizzazione del carattere agente dell'operazione linguistica, oltre all'azione conflittuale, sembra apparire il fantasma di un'azione che diventa produzione, di una sostanzialità che diventa produttività, di un nuovo mezzo dello scontro che diventa nuovo mezzo di produzione. E' innegabile che il rifiuto di accettare una meccanica relazione tra piani sovrastrutturali e nerbo strutturale ed il desiderio di estendere lo scontro su quei territori un tempo luoghi di battaglie minori producono una massiccia escalation del conflitto. È questo, negli anni settanta, il vero salto di qualità delle lotte. Ma questa totalizzazione dello scontro spinge il capitale, prima spiazzato, a misurarsi sui nuovi terreni, lo sollecita a guardare oltre le mura della fabbrica, oltre l'ormai ingestibile gabbia di un'ideologia clericale e grossolanamente conservatrice. Ed è a questo punto che il sistema capitalistico scorge nel rifiuto del lavoro e nel conflitto comunicativo, prima, la possibilità di ridislocare il grosso della produzione fuori dalla fabbrica, poi, di estendere l'estrazione del plusvalore al linguaggio e a ciò di cui il linguaggio è mediazione: le relazioni ed i rapporti. Non vogliamo costituire un nesso di causalità diretta tra lotte e riassetto del sistema capitalistico, ma semplicemente raccontare l'impossibilità di individuare scientificamente il punto in cui l'apice dello scontro si sovrappone all'inizio della sussunzione.
Troppe domande restano senza risposta... dov'è finito il grosso del sapere operaio autonomo? È passato interamente alle nuove generazioni di militanti? È morto con gli operai di Porto Marghera suicidatisi dopo l'espulsione dal ciclo? Si è spento lentamente nell'agonia degli anni ottanta dopo aver resistito alle prime ristrutturazioni? Oppure...? E la compassata signorina Richmond ha lasciato l'Italia? O lavora nella redazione di qualche casa editrice di tendenza? È ancora la migliore amica di Alice o è diventata l'amante segreta di Aldo Nove? Basta quanto ha scritto, in una strana pagina malinconicamente lucida, Berardi Franco: "...l'autonomia sociale si determina in neoimprenditorialità, la comunicazione diffusa delle radio libere apre la strada all'oligopolio delle televisioni commerciali,(...) la critica radicale del lavoro salariato sfocia nell'offensiva padronale contro l'occupazione e nella ristrutturazione(...). E per finire, la critica del dogmatismo ideologico e storicista apre la strada allo scintillante culto delle superfici, al bla bla dell'effimero, ed infine al predominio del mercato della cultura".


...che fare...
Il filo della memoria si tende confusamente sul baratro di questi ultimi quarant'anni, emerge a tratti per scomparire subito dopo nel cupo ordito di questo tempo. Il problema del che fare è il problema del ricominciare, del modo in cui riprendere a tessere la trama del rifiuto della colonizzazione del tempo, della vita, delle parole, delle relazioni.
Continuare a ragionare sulle forme della comunicazione è un momento centrale da cui difficilmente possiamo prescindere. Stiamo ancora giocando una partita decisiva contro il dominio capitalistico ma soprattutto contro noi stessi, contro una frammentazione che rischia di convertire la ricchezza inespressa nel silenzio degli sconfitti. Il passaggio da un paradigma comunicativo fondato sul recupero, ovvero su un allargamento della circolarità espressiva imposta attraverso la cicatrizzazione della ferita ed il rafforzamento dei tessuti lacerati, ad un paradigma che ha introiettato la rottura ed il negativo a tutto vantaggio del profitto ci costringe a riaprire la riflessione sull'agire comunicativo a partire da una critica del livello di autonomia delle nostre espressioni. L'esodo dalle terre capitalistiche della comunicazione è l'esodo dai nostri territori, un tempo liberi, oggi occupati, più volte saccheggiati; la fuoriuscita dalle strutture linguistiche della produzione e del valore è la fuoriuscita da antichi campi di battaglia ormai occupati solo da macerie. Pur condividendo interamente l'impostazione del pezzo di Andrea Inglese sul numero quindici di "Derive Approdi", ci interroghiamo sul senso reale di una possibile convergenza tra arte di ricerca e centri sociali. Nella sinistra sociale, nei luoghi occupati, nell'elaborazione artistica della simultaneità, non manca la capacità produttiva e la fantasia sperimentale, quello che scarseggia è l'autonomia critica, la capacità di allargare la portata del ragionamento, di spostare, anche solo per poco, l'asse della riflessione. Cultura dell'evento, ansia di partecipazione, resa comunicativa dell'esperienza estetica sono i mali che affliggono l'arte quando varca le porte ed i cancelli dei centri sociali. Intorno alla progressiva ed infelice coincidenza di arte e circolazione dei messaggi (cognitivi, esaltanti, consolatori, onirici) va pensata una nuova strategia di intervento che non può riprodurre la concezione strumentale dell'arte e generare una nuova eterodirezione politica. Il problema dell'internità di una certa produzione ai luoghi occupati andrebbe ribaltato nella capacità dei soggetti autonomi di impegnare il capitale su alcune porzioni del suo stesso mercato culturale. Il predominio del mercato della cultura nell'epoca della totale avanguardizzazione dell'arte non è un blocco ideologico-produttivo granitico. Il grado di messa a valore della produzione artistica complessiva non è costante, bensì eterogeneo e variabile. Il volume di inputs che bombardano i cataloghi delle grandi case editrici nazionali, le potenti majors musicali, le case cinematografiche, è enormemente superiore al livello di assorbibilità iperselettiva dell'alto mercato spettacolare. Tra l'ambito dell'autoproduzione cosciente ed il nocciolo dello spettacolo esiste un sottomercato diffuso e sommerso, non direttamente politico ma espressione di alcune esigenze traducibili in chiave politica, non direttamente comunicativo bensì provvisto di un certo livello di autonomia relativa. Esiste un esercito artistico di riserva che non può rimanere il bacino sussunto del capitale, un mondo vario che si sviluppa oltre i confini dei nostri luoghi, delle nostre comunità, del nostro stesso linguaggio, verso cui dobbiamo dirigerci abbandonando i perimetri (materiali ed immateriali) dei nostri spazi. La rivincita del Lumpen? Il problema della riformulazione critica di alcuni segni esistenti rischia di diventare più importante della produzione di nuovi messaggi.
Per quanto riguarda il viaggio, l'avventura e l'esplorazione, simboli di una ricerca diffusa negli oceani del postfordismo: il ciclico viaggio di Ulisse, l'esilio e il ritorno a Itaca (Caminiti), l'esodo, l'Egitto capitalistico e la terra promessa dell'intellettualità di massa (Virno)... si tratterà di scegliere i territori del vagare ma soprattutto le modalità del viaggio. "Il viaggio di Ulisse o quello di Abramo"?


Nella stesura di questo contribuito ci siamo serviti principalmente della prima parte del libro di Franco "Bifo" Berardi, La nefasta utopia di potere operaio (Castelvecchi, collana Derive Approdi, 1998) e dell'insostituibile monografia di Lucio Vetri, Letteratura e caos (Mursia, 1992).


 

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