EDITORIALE

DALLA TEORIA ALLA PRATICA: AGIRE, AGITARE, PRATICARE LA "QUESTIONE IMMIGRAZIONE"!


Introduzione

“L’esodo di migliaia di soggetti migranti da territori muti, segnati dalla carestia, dalla difficoltà di sopravvivere, che diventano visibili solo se rientrano nella mappa mondiale del lavoro a basso costo”, come scrive Aldo Bonomi, segna in maniera evidente da alcuni anni l’Italia.

In questo contesto è necessario agitare la “questione immigrazione”, praticarla nel tessuto sociale, radicare forme organizzate nella società, e abbiamo iniziato a farlo. Non si tratta di costruire un movimento antirazzista (che a volte sarà necessario), soprattutto non si tratta di semplificare la “questione immigrazione” riducendola a uno scontro di valori basati sul binomio razzismo/antirazzismo.

Non pensiamo all’immigrazione come ad un nuovo soggetto sociale e politico.

Certo però l’immigrazione e le figure che popolano questa dimensione sono spesso paradigmatiche.

<Il migrante esemplifica nel modo più appariscente la situazione in cui versa gran parte del lavoro dipendente. Impiegati nel settore dei servizi personali, nell’edilizia, come stagionali in agricoltura, i migranti giocano altresì un ruolo strategico nei distretti industriali più avanzati, dal nord-est alla pedemontana alle Marche. Margine estremo, e tuttavia fondante, della cooperazione produttiva, il migrante sperimenta in massimo grado quella clandestinità e quel dominio personale da cui, però, è caratterizzato anche il precario di lingua italiana: basti pensare alle giovani operaie tessili della Val Bormida, costrette a firmare una lettera di licenziamento che il padrone utilizzerà qualora restassero incinte>1. E’ vero, ma non basta.

Il clandestino, il sans papiers, riesce anche a rappresentare in modo esemplare il popolo dei “senza”, il mondo dell’esclusione sociale, della minorità sociale.

Sia in Francia che in Belgio, dove la questione immigrazione è diventata materia di conflitto, di scontro politico, di battaglia di civiltà, di conflitto sociale, lo scontro è avvenuto sulla questione dei clandestini, e non è un caso. La clandestinità è un po’ il paradigma della questione immigrazione, o si sfonda su questo terreno o non si riesce a sfondare, o si sfonda a livello sociale sulla consapevolezza che la clandestinità è una condizione negativa, di sfruttamento ulteriore, non è una situazione voluta (com'è dimostrato dalle centinaia di migliaia di richieste di regolarizzazione in Italia e in Francia) e non può essere definita come un reato, che non si può negare a nessuna la ricerca di una chance di vita, di una possibilità, almeno di una possibilità di vita migliore e che non c’è nessuna legge che può essere più forte della vita, o non si sfonda sulla questione immigrazione.


Affrontare la questione immigrazione

La figura del migrante, clandestino o regolare, infrange schemi consolidati, modi di vedere e di pensare la realtà, evoca fantasmi e paure collettive e individuali solo apparentemente sopite, fa scattare meccanismi sociali di difesa nelle nostre società in crisi.

Affrontare la questione immigrazione significa soprattutto mettere le mani nella palude del sociale, affrontare spesso quell’umanità <sgradevole, andata a male> di cui parla Revelli in un articolo su Carta, quella stessa umanità che fa del rancore la propria forma della politica e che spesso nei quartieri metropolitani, ma anche nelle province, assume una dimensione di massa. Ritornare a lavorare su una dimensione locale è molto diverso dal lavoro militante nei quartieri operai degli anni ’60 e ’70. Oggi se il sociale non è muto, è ostile, certamente frammentato.

Eppure la questione immigrazione spesso potrebbe essere una buona leva per forzare questi territori a noi ormai estranei (ma estranei anche a tutta la sinistra), territori spesso popolati dal fenomeno del comitatismo, comunque dominati da un’egemonia “culturale” della destra sociale.

Per questo parlare di immigrazione, per parlare anche del disagio, della paura, del diritto alla sicurezza, della questione criminalità, del problema della diffusione della tossicodipendenza, certo senza fermarsi a questo, ma senza scappare dal provare a misurarsi anche su questi terreni. Ed è anche per questo che non si tratta semplicemente di costruire un movimento di difesa dei diritti civili, anche se dovremo misurarci mille volte su questo terreno.

Spesso nel lavorare con gruppi, associazioni, centri sociali sulla questione immigrazione cogliamo degli eccessi di semplificazione che ci sembrano preoccupanti. Abbiamo scritto in un nostro documento: <C’è la semplificazione di chi ha pensato agli immigrati come ad un soggetto immediatamente politico e addirittura radicale. Tacciare qualunque iniziativa sulla questione immigrazione come un fenomeno razzista (razzisti sono i comitati spontanei, la lega, la polizia, i vigili, il governo, la legge, ecc…) come spesso fa l’estrema sinistra è segnale evidente della debolezza della capacità di analisi e di critica contro queste posizioni. Un ulteriore livello di debolezza e di semplificazione sta nell’immaginarsi l’immigrazione come un tutt’uno, non cogliere che all’interno delle comunità ci siano forme di sfruttamento feroci o peggio la paura di denunciarle per timore di accreditare così l’equazione immmigrati=delinquenti, anche quando assistiamo a veri fenomeni di “accumulazione originaria” di capitale particolarmente violenti da parte di strati di immigrati su altri immigrati. Nell’estrema sinistra poi per troppo tempo si è pensato che ogni forma di illegalità, per il fatto stesso di trasgredire a norme e leggi, avesse un carattere sovversivo, mentre ci rendiamo conto continuamente che spesso l’illegalità nasconde modelli di sfruttamento anche più violenti di quelli legali, processi di valorizzazione completamente capitalistici, ma se possibile più violenti di quelli legali>2.


Organizzarsi localmente, radicarsi, coordinarsi.

Alcuni paesi hanno una storia di movimenti d'immigrati o di movimenti comunque sorti sulla questione dell’immigrazione che sarebbe bene riscoprire e studiare3.

Negli ultimi mesi abbiamo assistito per la prima volta ad una serie d'iniziative che si sono sviluppate in maniera continuativa a livello locale, nel nord-est, a Milano, a Roma, a Torino, a Bologna. L’occasione forse è stata l’apertura dei campi di concentramento per clandestini, come quello di via Corelli a Milano o quello di corso Brunelleschi a Torino, ma già con la manifestazione dei ventimila di Milano del 23 gennaio si è visto che il tema si è allargato.

Ogni esperienza locale ha una storia diversa e un radicamento diverso, la rete di rapporti tra le varie realtà è ancora tenue, il livello di confronto scarso. Ma è una base seria da cui partire e da non lasciare cadere, anzi da rafforzare.

Dimensione locale, articolazione sul territorio, coordinamento, inquadramento a livello europeo.


Europa

Ribaltare la logica di chiusura dell’Europa di Schengen è necessario. Certo inattuale per le nostre forze. Ma è almeno necessario cogliere l’importanza di entrare in questa logica. La manifestazione di Valona del 12 dicembre scorso, il progetto di aprire proprio lì, nella patria degli scafisti, un Centro di tutela per migranti e asilanti, la manifestazione europea “Clandestini a Parigi” del 27 marzo 1999, le giornate europee di mobilitazione per la chiusura dei campi di concentramento per clandestini, sono i primi passi corretti in questa logica. Tutti passaggi che tendono a creare una rete europea che si muova sulla questione immigrazione sono importanti, proprio perché ormai abbiamo imparato che l’Europa deve essere l’orizzonte minimo della nostra iniziativa politica.


Chi fa la legge?

Jacques Derrida, in un testo di estremo interesse, Cosmopoliti di tutti i paese, ancora uno sforzo!, chiedendo a chiunque di coltivare l’etica dell’ospitalità, di sperimentare un diritto e una democrazia a venire, di ricercare risposte più urgenti e giuste del diritto esistente, tocca, tra i tanti, alcuni nodi decisamente importanti. Tra questi ovviamente la questione del diritto d’asilo, della sua progressiva abolizione, e inoltre quella dei limiti della competenza della polizia e delle condizioni nelle quali si esercita soprattutto riguardo agli stranieri.

Scrive Derrida: <Con il pretesto di lottare contro un’immigrazione travestita da esilio o in fuga dalla persecuzione politica, gli Stati respingono sempre più spesso le domande di diritto d’asilo. Anche quando non lo fanno sotto la forma di una risposta giuridica esplicita e motivata, lasciano spesso che sia la polizia a fare la legge… Questo richiama il problema maggiore e decisivo della polizia, dello statuto della polizia, di una polizia di frontiera in primo luogo, ma anche di una polizia senza frontiere, senza limite determinabile, e che diviene da quel momento invadente e inafferrabile, come diceva Benjamin, proprio dopo la prima guerra mondiale, in Critica della violenza. La polizia diventa onnipresente e spettrale negli Stati detti civili nel momento in cui essa fa la legge invece di contentarsi di applicarla e di farla osservare>4.

Dalle pallottole dum-dum della polizia del sindaco Giuliani a New York alle espulsioni dei rumeni del campo di Corso Cuneo a Venaria, dalle operazioni anti-venditori abusivi di guardia di finanza, carabinieri e polizia municipale ai mille arbitri che si stanno svolgendo nelle questure di tutta Italia nella verifica dei requisiti per la regolarizzazione in corso, ecco qui la polizia che fa la legge. Ovviamente una pessima legge.


La proposta Albertini: gerarchizzare etnicamente il mercato del lavoro

Il pregio della proposta del sindaco di Milano (un patto territoriale per gli immigrati, con un baratto tra diritto temporaneo al soggiorno in cambio di un salario minore e della possibilità di licenziamento assoluta) è quella di sfondare il velo d'ipocrisia che caratterizza parte del mondo politico e imprenditoriale sulla questione immigrazione. Abbiamo sentito di recente Fazio e Cipolletta intervenire a favore della presenza degli immigrati e addirittura auspica la libera circolazione delle persone. Certo un po’ cinico paragonare ad altre merci gli esseri umani, ma non ci siamo troppo formalizzati sul linguaggio. Albertini va oltre, propone la gerarchizzazione etnica del mercato del lavoro. Oltre alla fascinazione per le politiche di ordine pubblico delle metropoli americane abbiamo così l’importazione di un modello produttivo che vede una forza lavoro gerarchizzata in base alla provenienza geografica, ricattata in quanto non in grado di accedere ai diritti di cittadinanza. Dalle gabbie salariali su base territoriale a quelle su basi etniche (ovviamente passando per quelle del campo di concentramento di via Corelli).

Non c’è da stupirsi comunque. Questa visione è solo una variante (estremista e razzista) di quel pensiero unico ampiamente condiviso da uomini di governo e imprenditoriali che è definita “politica dei flussi”, cioè il sogno (o l’incubo) di poter definire preventivamente la quantità d'immigrati da far entrare in Italia o Europa (o in una macroregione) in relazione alle sole esigenze imprenditoriali e produttive. E’ ovvio che questo fa a pugni con quello che pensa quella <moltitudine postmoderna>, come scrive Negri, che <su un mercato globale considera ovvio il fatto di poter offrire se stessa come merce; di conseguenza, esercita con tutti i mezzi a disposizione quel diritto all’esodo e alla ricerca nomade di lavoro che la propaganda capitalistica gli ha promesso sulla scena della mondializzazione>5, e che difficilmente leggi e restrizioni riusciranno a fermare.


Abolire gli immigrati per voto

Per la prima volta una forza politica di rilievo, la Lega, decide di giocare tutte le sue carte sulla questione immigrazione. Dallo squadrismo simbolico di Borghezio fino al referendum contro la legge Turco-Napolitano. Fin qui nessuna novità, la Francia da anni e per anni ha avuto come nodo centrale dello scontro politico la questione immigrazione. Il salto di qualità in Italia si ha nel momento in cui per giustificare tutto questo non si teorizza la “priorità nazionale” nel diritto di assegnazione di case popolari, di posti di lavoro ecc., o la difesa di una “identità culturale nazionale”. Si fa anche questo, ma si va oltre quando si incomincia a dire che in America alcune lobby hanno deciso l’invasione dell’Europa da parte degli immigrati per distruggere, attraverso lo strumento una società multirazziale, la nostra identità per dominarci. Qui siamo all’idea del complotto a suo tempo “giudaico-massonico” e si sente già l’odore dei “Protocolli dei Savi di Sion”. Non siamo più di fronte ad una situazione oggettiva di disagio sociale o culturale strumentalizzata, siamo decisamente oltre.


Il nodo della cittadinanza e i diritti di cittadinanza

Il dibattito e lo scontro politico sulla definizione della “cittadinanza” sta attraversando da alcuni anni la scena dei singoli stati nazionali che compongono l’Europa proprio a partire dalla presenza degli immigrati. Definire chi è cittadino e chi è “ospite temporaneo” non è solo un esercizio accademico e giuridico, ma serve ovviamente per definire l’ambito dei diritti e dei doveri sociali e politici.

Si è visto in Francia e in Germania. In Francia a partire dal 1986 (cioè dal momento in cui si è affermata la consapevolezza del carattere strutturale della disoccupazione di massa e della crisi sociale determinata dalla transizione post-fordista e che è coincisa con dall’avanzata del Fronte Nazionale) è rimessa in discussione il diritto del suolo e si è visto risorgere il diritto del sangue. E’ nel 1993 che con la legge Méhaignerie i bambini nati in Francia da genitori stranieri non sono più stati automaticamente dichiarati francesi, introducendo “l’atto volontario”, cioè l’obbligo di <manifestare chiaramente la propria volontà d’acquisire la nazionalità francese tra i 16 e i 21 anni6>. E quando da sinistra si risponde per riaffermare un automaticità del diritto del suolo, questa automaticità non è più dalla nascita, ma a partire da 18 anni.

Così in Germania: la disfatta dei verdi in Assia e l’avanzata secca della Democrazia Cristiana che ha cavalcato la crociata contro l’introduzione del diritto del suolo e della doppia cittadinanza ha spostato indietro il campo dello scontro.

Da un altro punto di vista: la lotta dei sans-papiers pone proprio al centro il nodo della cittadinanza, il diritto di accedere legittimamente ad una società e di non esserne espulsi, clandestinizzati da un tratto di penna su una legge.

Inoltre, con l’affermazione di uno spazio europeo che vada al di là del solo parametro economico, sarà ancora più complesso definire la questione della cittadinanza. Chi è cittadino europeo? Senza potersi più legare ad un comune orizzonte linguistico e culturale come hanno fatto finora gli Stati nazionali per la pluralità di linguaggi e di culture presenti in Europa. Si tratta di scegliere modelli di integrazioni a modelli di esclusione. Se la partenza è Schengen…


Costruire reti di solidarietà, di tutoraggio sociale per i più deboli ed esposti

In ogni metropoli esistono soggetti particolarmente deboli. A Torino è stato il caso dei rom rumeni accampati alle porte della città7. Ma lo sta diventando quello dei minori clandestini che Comune e Questura stanno espellendo dopo aver sospeso un progetto di tutela. Queste situazioni ci fanno ragionare sull’urgenza di creare reti di solidarietà, di tutoraggio per quei soggetti che nella loro impoliticità, nell’impossibilità di poter costruire percorsi autonomi di conflitto, sono i più esposti all’arbitrio delle leggi e delle loro interpretazione ed esecuzione da parte della polizia. Minoranze agenti sono in grado di mettere in moto reti anche minime e variegate di solidarietà, di consenso, importanti nella difesa di un diritto, nella costruzione di un precedente utile per altri, in quella sperimentazione di una democrazia a venire di cui parla Derrida.


Le prossime lotte

Questi mesi di iniziativa pratica sulla questione immigrazione ci hanno già insegnato qualcosa, ci hanno indicato priorità, modalità di intervento per comunicare e farsi capire.

Abbiamo imparato che la questione immigrazione è complessa, un solo punto di vista, un solo discorso non basta, non è sufficiente se non si vuol semplificare, e semplificando, sbagliare.

Abbiamo imparato che spesso si deve distinguere tra il lavoro politico che si fa verso gli italiani e quello che si fa con gli immigrati. A volte i codici usati, i linguaggi, i toni, gli stessi contenuti dell’intervento devono essere diversi, perché i bisogni, le paure, le aspirazioni sono diverse.

Abbiamo imparato che il primo problema è quello di convincere la sinistra ad affrontare di petto la questione immigrazione, con valori e scelte forti, motivare la sinistra plurale (che non ha paura di condizionamenti dettati dal problema di consensi elettorali) a rendersi visibile, a costruire conflitto.

Oggi è possibile immaginare battaglie concrete sul terreno dell’immigrazione nel prossimo futuro: la rivendicazione della sanatoria generalizzata per tutti quelli presenti, anche entrati successivamente, anche senza un lavoro, anche senza un contratto regolare d’affitto. E’ assurdo chiedere il rispetto di quattro parametri inaccessibili e impossibili per un immigrato clandestino: è chiaro che un clandestino è facilissimo che non abbia un lavoro, proprio perché è venuto a cercarlo, o una casa o documenti che provino il suo arrivo ad una certa data e così via. E questa battaglia sarà costellata da battaglie su casi particolarmente emblematici, mediatizzati grazie al forte impatto anche emotivo, che provino la follia del cercare di sottomettere la vita a norme burocratiche e asettiche. Vincere su alcuni casi vorrà dire permettere a migliaia di persone nella stessa condizione di forare il muro della fortezza Europa.

Quindi la battaglia contro la politica della regolamentazione dei flussi, perché non è giusto pensare che una persona possa cercare una possibilità di vita migliore solo se a un imprenditore serve nella forma di manodopera.

L’altra battaglia sarà quella sui centri di detenzione, quei lager come corso Brunelleschi a Torino o via Corelli a Milano, ovviamente per la loro chiusura, per spiegare che è indegno di una città civile, di un paese civile rinchiudere in gabbie persone che non hanno commesso reati di sorta. Tra l’altro questi campi di concentramento sono costruiti in piena città, hanno una rete attorno di solidarietà: in casi di rivolta o di evasione non sarà probabilmente come a Pantelleria o nelle campagne del ragusano, dove nessuno può vedere quello che succede. E, come in Belgio, la lotta contro le espulsioni dei singoli immigrati: ricordiamo che spesso gli immigrati lottano individualmente in modo feroce per opporsi all’espulsione in volo charter o in nave, e spessissimo li si imbottisce di valium, li si scoccia letteralmente ai sedili dell’aereo, si soffocano le loro grida con cuscini (come è tragicamente successo in Belgio, quando la polizia ha assassinato così una ragazza nigeriana). In Francia abbiamo assistito a campagne di boicottaggio delle compagnie aeree che fornivano i charter per espellere gli immigrati. Questi sono terreni di conflitto molto concreti, conflitto che magari si svilupperà in maniera del tutto diversa da quello che ci immaginiamo noi (chi a Parigi avrebbe mai pensato che trecento africani avrebbero occupato una chiesa?). Ma anche altri terreni di conflitto si possono aprire all’improvviso: abbiamo visto a Bologna una lotta significativa per la casa; in Germania (come già in Francia) un grosso dibattito sulla questione della cittadinanza che presto coinvolgerà complessivamente l’Unione Europea.

Come scrive Jacques Derrida: <Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo!>.

1 Dal documento Che te lo dico a fare? di Derive Approdi.

2 .Zip, Laboratori di società, n. 3, 1999.

3 Prendiamo ad esempio l’articolo di Carlo Vercellone, L’intifada delle Banlieues. Il movimento Beur, apparso su Il Tallone del cavaliere, numero unico del 1994, che ripercorre le lotte in Francia dal 1981 al ’94 in maniera esemplare.

4 Jacques Derrida, Cosmopoliti di tutti i paese, ancora uno sforzo!, Cronopio, Napoli, 1997

5 Toni Negri, La banlieue postmoderna, in Derive Approdi n14.

6 Qual era un ulteriore fine di questo ragionamento, qual era la sua ricaduta sociale? Eccola spiegata da Sami Nair<La vostra legge prevede che lo straniero (nato sul suolo francese) avendo raggiunto diciotto anni perde il diritto alla nazion