bologna marzo '77... fatti nostri...
A 30 anni di distanza torna disponibile uno dei libri più importanti del '77
italiano, in una rinnovata versione con la pubblicazione delle foto inedite
sequestrate dalla magistratura ed una postfazione a cura del Laboratorio
CRASH!
1977: chi controlla il presente,
controlla il passato;
chi controlla il
passato,
controlla il futuro
Giovedi 29 marzo alle ore 21 presentazione della ristampa del libro presso il
Laboratorio del precariato sociale CRASH!
con Valerio Evangelisti
Anticipazioni dalla postfazione della ristampa de "I fatti nostri"
Fatti nostri va inserito in un contesto storico preciso di cui vanno
riconsiderati alcuni aspetti fondamentali. In primo luogo, la
valorizzazione del conflitto, la comprensione sicura del fatto che il
cambiamento avviene attraverso lo scontro tra ipotesi e pratiche
antagoniste e che la lotta investe tutti i campi, l'intera esperienza di
vita e vale se mette mano ad una "rivoluzione antropologica", condizione
di quella politica, in modo tale che il cambiamento radicale investa
sia i rapporti di forza tra le classi, sia le relazioni sociali e umane.
Pensiamo, poi, alla rilettura di Marx e dei conflitti di classe fatta
dall'operaismo, al femminismo, alla proliferazione di nuovi linguaggi e
modi di trasmissione relativamente all'arte, ai saperi, alla
comunicazione, alle innovazioni in campo politico. E ancora: alla
proliferazione di case editrici, di librerie, di centri sociali, di spazi
nelle scuole e nelle università in cui sperimentare saperi e pratiche di
vita alternative.
[...]
A scrivere oggi un libro di ...fatti nostri... potrebbero essere le
generazioni di studenti che dopo il '77 si sono avvicendati
nell'università più antica e cara d'Europa. Lo sfruttamento di
bottegai, di affittacamere, del lavoro precario, al nero, degli studenti
rimane una costante determinante per la ricchezza di questa città' .
Oppure potrebbero scriverlo gli immigrati, a migliaia giunti in questi
trent'anni, anch'essi discriminati e sfruttati, spessissimo privi di
servizi e di una casa; oppure, ancora, quanti, nei quartieri, specialmente
giovani proletari, sono presi nella morsa della precarietà della vita,
senza reddito e senza grandi prospettive.
[...]
Ad invertire il processo di costante subordinazione alle logiche della
valorizzazione, ci provò, con generosità , impegno, ma anche con sgomento
e angoscia, il movimento del '77. In una realtà repressiva giunta al suo
apice, stretti dai tutori dell'"ordine" che usavano con sempre più
disinvoltura le armi da fuoco nei cortei, e dai fascisti, che continuavano
indisturbati a mettere bombe sui treni e a ammazzare i compagni, i "nuovi"
proletari resistevano. Fu l'ultimo assalto al cielo?
[...]
La nascita della fabbrica diffusa si dà per il doppio processo di fuga
dalla fabbrica-caserma da parte dell'operaio-massa in lotta e dall'uso
capitalistico della crisi finalizzata alla ristrutturazione della base
produttiva. In questa situazione si creano le condizioni per una
ricomposizione di classe ad un livello più alto, con la potenzialità di
estendere all'intera società l'antagonismo, fin dentro la sfera della
realizzazione del capitale, nella circolazione. Dunque, gigantesca
produttività della cooperazione sociale, all'interno di cui, tuttavia, il
tentativo di una parte della forza lavoro di "fuggire" dalla
valorizzazione e dallo sfruttamento risulterà essere una chimera e
un'illusione.
[...]
Le lotte dell'operaio massa negli anni sessanta e le pratiche che esse
favorirono, caratterizzate dal ritiro della delega ai politici di
professione e dalla democrazia diretta, misero seriamente in crisi l'
architettura del potere. Le lotte autorganizzate nelle fabbriche –
attraverso scioperi a "gatto selvaggio", sabotaggi alla catena, picchetti,
ecc. - aventi obiettivi economici e politici - più salario, meno orario,
rifiuto del lavoro - opposti a quelli delle burocrazie sindacali, in una
parola, la nascita e lo sviluppo dell'autonomia operaia e il suo continuo
acquisto di egemonia su ampi strati e settori proletari, tutto questo mise
in campo una profonda contestazione della legittimità dello stato fino a
configurarsi come crisi. La distanza tra la nuova composizione tecnica e
la "razionalità" delle fabbriche del nord non poteva essere più grande.
L'operaio massa aveva partecipato al grande movimento delle occupazioni
delle terre degli anni '50; proveniente dal sud Italia che ha sempre
conosciuto la promessa dello sviluppo e mai la sua realizzazione, quando
giunge nei luoghi dove materialmente si produce la ricchezza sociale non
accetta la disciplina di fabbrica, né alcun controllo politico o
sindacale, ma mette in atto il rifiuto del lavoro di merda a cui è
sottoposto. "Rude razza pagana", come fu chiamata, entra in rotta di
collisione con l'operaio di mestiere, il vero riferimento delle
istituzioni storiche del movimento operaio. E infatti il suo è il tempo
non della produzione, ma della lotta, dell'insubordinazione di chi non
delega perchè sa che il suo è un linguaggio e una visione delle cose
totalmente differente dalla logica produttivistica del padrone, del
sindacato, del partito. L'operaio massa non sa che farsene del socialismo
di stato, della politica dei sacrifici, dell'etica del lavoro. Oppone il
rifiuto del lavoro perchè è cosciente che così sabota il profitto, non
vuole lavorare otto ore legato alla catena, tuttavia vuole godere dei
vantaggi dello sviluppo, vuole tutto e subito, senza mediazioni. E
soprattutto non vuole riprodursi come forza lavoro fordista. La sua
estraneità alle varie articolazioni del potere dipende da questo rifiuto
dell'alienazione mentale e della fatica fisica. Non è disposto a mediare
perchè in gioco è la sua vita.
La composizione che culmina nel '77 è affatto diversa. Ha visto la
parabola del keynesismo abbassarsi man mano, ha vissuto sulla propria
pelle la fine del socialismo del capitale, ha percepito l'avvento del
liberismo, il suo nichilismo, il suo principio di esclusione
generalizzato. Mentre i soggetti del '77 vedono delinearsi la nuova realtà
e accendono il conflitto, la sinistra storica continua ad insistere sulla
politica dei "sacrifici" e sul compromesso storico finalizzati ad una
ristrutturazione del keynesismo: almeno, questo afferma nel suo discorso
pubblico.
[...]
Il Pci poteva sì riuscire a impedire la saldatura tra l'operaio massa e la
nuova composizione di classe "non garantita": ma ciò non poteva essere
considerato come acquisito una volta per tutte. All'interno di questo
quadro, apparentemente senza uscita, il Pci fece la sua scelta che
consisteva nella repressione vasta e profonda del movimento antagonista.
Dal lato politico, Lama e Berlinguer accettarono in pieno la politica dei
"sacrifici" (tra i quali c'erano flessibilità e mobilità per la forza
lavoro e tagli alla "scala mobile"). Si trattava di un uso politico della
crisi, vista come l'unica via di uscita, che contemporaneamente avrebbe,
determinando un processo ristrutturativo delle imprese e delle strategie
del capitale, scompaginato la composizione dell'operaio massa e dato forza
al percorso della precarizzazione della forza lavoro. Questa strategia
veniva elaborata tenendo presenti una serie di variabili in campo: il
futuro sviluppo del capitale a livello internazionale, la crisi ormai
irreversibile dei Paesi socialisti (Berlinguer aveva parlato della "fine
della forza propulsiva della Rivoluzione d'Ottobre"), l'evoluzione della
realtà bipolare Usa/Urss. La classe dirigente del Pci pensava anche alla
eventualità della fine della forza propulsiva del keynesismo? E' certo
che il liberismo dava già segnali di presa della realtà ; il Pci, rimane
innegabile che si preparava, seguendo la tradizione togliattiana, a
ripristinare un ferreo controllo sulla classe, per potere avere campo
libero per affrontare, quale che fossero le nuove situazioni interne e
internazionali, il nuovo corso.
[...]
Farsi Stato e reprimere duramente il movimento del '77 si inserisce in
questa complessa partita. I tentativi di controbattere il movimento sul
lato dell'analisi, erano stati fatti e culminarono, lo vedremo fra poco,
nell'operazione condotta da Asor Rosa.
Tentativi che fallirono. Il movimento aveva elaborato al suo interno
potenti "armi della critica" attraverso la rivisitazione della storia del
movimento comunista del Novecento e del pensiero di Marx. L'operaismo era
un'arma formidabile, il leninismo rivisto dell'organizzazioni
(avanguardie non più esterne alla classe, ma interne alle lotte), avrebbe
lasciato, con lo scioglimento di Potere Operaio e Lotta Continua, poi
spazio alle forme più conseguenti della democrazia diretta; più in
generale l'intelligenza, la forza creativa, l'innovazione messe in campo
avevano un'enorme forza di penetrazione e di diffusione. Se lo stato
vedeva nel movimento un formidabile avversario sul lato della legittimità
e pertanto decise di spostare il confronto sul piano militare dove era
oggettivamente più forte, il Pci, che vedeva nel movimento un nemico
tanto più temibile quanto più questo attaccava la sua tradizione che
consisteva in un marxismo scolastico e una pratica piattamente
riformista, decise per la repressione. Due visioni inconciliabili si
scontravano: stalinismo contro democrazia diretta; marxismo
terzointernazionalista contro operaismo; etica del lavoro (il capitale, i
sindacati ed il socialismo reale, dunque) e rifiuto del lavoro
capitalistico (sganciamento del salario dalla produttività nella
progettazione di una società che trova il suo principio costitutivo non
nel profitto ma in un rapporto positivo con la natura e con gli esseri
umani).
Come dopo la Liberazione, la liquidazione del movimento partigiano
costituì la precondizione per il controllo del partito sulla classe, anche
se questo significava sacrificare le forze che avrebbero potuto innestare
un processo di profondo rinnovamento della società , così nel 1977 la
liquidazione del movimento antagonista costituiva la precondizione della
pace sociale anche se ciò doveva significare la criminalizzazione di
un'intera generazione e del suo immenso patrimonio di intelligenza, di
innovazione e di generosità.
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