Consolato Ribelle del Messico – Brescia
Semillita del Sol
LA SCUOLA
NEL CHIAPAS RIBELLE
La Piccola Editrice
PREFAZIONE
Questo seme (semilla) della speranza
è per un mondo migliore per tutti.
Bisogna saperlo alimentare,
bisogna saperlo portare in tutti gli angoli
degli stati, dei paesi e dei continenti.
La speranza di un mondo nuovo,
dove tutti si possa trovare posto come esseri umani.
Non come uomini o donne, sfruttati o sfruttatori,
non come ricchi o poveri ma nel rispetto
per la convivenza delle culture nel mondo.
(Comandante Zebedeo, Ezln)
Con i colori della selva raccontiamo la nostra speranza
L’immagine della conquista spesso ci fa dimenticare la repressione artistica subita dai popoli indios del Messico. Si è proibita loro la danza, perché così adoravano i loro "demoni"; si è proibito loro l’uso degli strumenti musicali, perché in tal modo facevano offerte ai loro dei; si è proibito loro di rappresentare opere drammatiche con danza, poesia, musica e la partecipazione di centinaia di "attori" in uno scenario che comprendeva un intero popolo e le comunità vicine, per poi sottometterli al modello minore degli atti sacramentali della catechizzazione. Con la distruzione dei templi si è cancellata la loro architettura e si è cercato di eliminare la loro scultura e pittura murale.
La scrittura delle lingue indigene ha sofferto l’impatto della conquista che, con la distruzione materiale e brutale dei libri e l’imposizione dell’alfabeto latino per scrivere i loro idiomi, ha raggiunto l’eliminazione dell’intellettualità indigena e la negazione permanente dei letterati indios come autori reali: da Fray Bernardino da Sahagún fino ai giorni nostri i veri conoscitori delle culture indie sono stati chiamati "Informantes". Gli evangelizzatori del XVI secolo prepararono grammatiche e vocabolari, applicarono alfabeti pratici e scrissero nelle numerose lingue indigene canti, drammi, preghiere, catechismi. Questo grande sforzo era servito affinché la scrittura non fosse mai messa al servizio delle stesse lingue indigene, né della loro creatività, né del loro autonomo pensiero, ma fosse esclusivamente al servizio della catechizzazione: in essa infatti si scriveva solo ciò che riguardava la religione dei conquistadores.
Privati della loro musica e dei loro strumenti musicali, dei loro drammi e della loro danza, sprovvisti dei loro libri e della loro scrittura, dell’arte plastica e scultorea, i popoli indios sono atati obbligati a ricercare e intraprendere altre forme artistiche per continuare ad essere se stessi.
Ora, dopo 500 anni di resistenza e di dure lotte, cominciano a sorgere tra i popoli indios intellettuali, poeti, narratori, drammaturghi e storici che, per la prima volta, scrivono nelle loro lingue, per se stessi e per le loro comunità. Nonostante l’opposizione governativa sono apparsi nell’arco degli ultimi dieci anni numerosi libri, riviste, giornali e sono state fatte esposizioni. Anche i bambini stanno partecipando a questa rinascita della cultura indigena in quasi tutto il Messico.
In questo contesto rientra il progetto di educazione attraverso l’ espressione artistica "La Semillita del Sol", voluto e nato dalle stesse comunità indigene della Selva Lacandona del Chiapas.
L’espressione artistica, intesa come primo passo per il recupero e la continuità delle culture indigene, è dunque lo spirito di questo progetto.
Collaborare a ridare la parola alle lingue indigene, che hanno descritto, dipinto e cantato - molto prima della lingua spagnola - il territorio messicano, è uno degli obiettivi principali del progetto.
Entrando in contatto con le culture indigene del municipio di Las Margaritas, Chiapas, dove si sta sviluppando il progetto "La Semillita del Sol", riusciamo a capire che la cultura di questa gente ci insegna a vedere il mondo come un’essere vivente dal quale l’essere umano dipende, e che i bambini ed i giovani intendono tutto ciò con maggior profondità e naturalezza di noi adulti.
Per questo lo cantano e lo dipingono con la coscienza di essere dei "servitori" in un lavoro millenario che assicura la vita all’intera Terra e ai popoli che la abitano.
L’Arte dei bambini-pittori si forma proprio da questa conoscenza che è anteriore agli attuali popolatori del Messico.
Questi artisti infantili stanno già, di fatto, continuando il compito che i loro nonni e i loro genitori iniziarono: riconoscersi ed esprimersi per completare, con loro, l’espressione totale della faccia millenaria del Messico.
"Semillita del Sol" vuole essere un contributo a questo sforzo.
Renato Tanfoglio
marzo 1962 - aprile 1997
Se ne è andato un membro della tribù, ma prima di andarsene ha gettato
un seme, che è germinato in fretta e ora sta dando i suoi frutti.
Renato Tanfoglio, che ha piantato il "semino del sole", è andato nel sole
per continuare a spargere i semini per tutta la via lattea.
Renato, ci vediamo presto, aspettiamo il tuo ritorno
perchè tu possa vedere quanti frutti abbiamo già.
Saluti dalla tribù chiapaneca, con il permesso di tutti i semini del sole
della Selva Lacandona.
Un saluto per Renato dal Chiapas
Fuori campo
Ebbe inizio la loro fine.
Non era molto il potere che essi avevano.
Si divertivano a fare il male agli uomini di quel tempo
ma in realtà non erano di condizione divina.
Cominciò così la decadenza dell’impero.
Questa fu causata da Hunapú ed Ixbalanqué.
Popol-Vuh
Dove si narra di giganti,
di predoni e di bambini ribelli
Claudio Albertani - Paolo Ranieri
"L’infanzia? Ma è qui con noi, non ne siamo mai usciti.
La nostra epoca accumula poteri e sogna di essere razionale.
Solo che nessuno riconosce questi poteri come propri.
Non esiste accesso all’età adulta.
Perciò nessuno smette mai di essere tenuto sotto tutela.
Ecco la questione: le persone vivono più o meno poveramente,
ma sempre in un modo che sfugge loro".
Guy Debord
Nella più popolare favola degli ultimi decenni, La Storia Infinita, il mondo vive sotto la minaccia di distruzione da parte di un'entità oscura e terribile, il Nulla. Le favole, da sempre, trasfigurano le paure inespresse dei bambini cui sono destinate e, forse, più ancora degli adulti che le narrano: e, in effetti, anche al nostro orizzonte incombe un Nulla che, come un enorme rullo compressore, schiaccia, tritura, livella e omologa modi di vivere, forme di pensiero, culture e cosmovisioni, appiattendo, un giorno dopo l'altro, la realtà di milioni di donne e di uomini al misero e tedioso inventario dell'economia.
Questo processo, maturato in secoli di sfruttamento e di sottomissione, ha ricevuto un impulso senza precedenti nell'attuale epoca neoliberale in cui si proclama con arroganza che profit is beautiful, si predica apertamente di rubare ai poveri per donare ai ricchi, ci si abbandona senza ritegno alla contemplazione della danza macabra delle monete e dei capitali. Autentica religione del nostro tempo, l'economia, che si pretende neutrale descrizione dello stato delle cose, è nei fatti quanto di più artificiale si possa immaginare: l'appropriazione privativa ne è la maledizione e il peccato originale. La crisi del modello, l'impossibilità della sua riproduzione all'infinito, è tuttavia sotto gli occhi di tutti. Invece dello sviluppo e del benessere si generalizzano ormai solo la miseria e l'esclusione.
I progetti di cooperazione internazionale hanno cullato a lungo la speranza di poter riequilibrare le falle più scandalose del sistema mediante l'affaccendarsi di uomini di buona volontà. Anche questa: un'illusione. Strappato brutalmente alla propria attività, separato dagli altri esseri umani e ad essi contrapposto in una competizione senza fine, l'uomo contemporaneo può concepire rapporti di solidarietà solo all'interno di organizzazioni che, gratificandolo ideologicamente e valorizzandone il sacrificio, operano nei fatti per perpetuarne l'alienazione e l'isolamento. Il senso di colpa si converte nell'involucro d'ipocrisia che cela pudicamente il disprezzo nei confronti di qualsiasi essere vivente, a cominciare da se stessi.
Di conseguenza, il più delle volte, gli interventi di cooperazione, invece di rispondere alle necessità delle popolazioni che pretenderebbero di aiutare, vengono calati paternalisticamente dall'alto, a maggior gloria delle ideologie delle varie organizzazioni; o, peggio, vengono gestiti da istituti di credito o da ministeri con finalità neanche troppo mascherate di riqualificazione e di allineamento delle arretrate economie locali.
Spesso, neanche gli aiuti disinteressati riescono a sottrarsi alla logica che trasforma l'intervento umanitario in un triste prolungamento della colonizzazione. Donare in questo caso vuol dire annientare l'altro, relegarlo in una condizione di minorità perpetua. Ed vuol dire anche ingannare se stessi identificandosi con un benessere di cartapesta e depotenziare un rapporto che, in altre condizioni, potrebbe farsi momento di liberazione per entrambi.
Il velo con cui migliaia di funzionari si sforzano di avvolgere il dolore del mondo, dalle capanne dal tetto di paglia alle baracche metropolitane dal tetto di lamiera, non riesce a oscurare la più semplice delle verità: la libertà per gli sfruttati può venire unicamente dagli sfruttati stessi.
Solo la fine delle illusioni sullo sviluppo può aprire il passo alla fioritura di una nuova civiltà ("di nuovi mondi", dicono gli zapatisti), oltre l'economia dello sfruttamento e oltre l'economia della colpa.
Il primo gennaio 1994, mentre i circoli dell'alta finanza festeggiano l'ingresso del Messico nel trattato nordamericano di libero commercio (che gli statunitensi chiamano Nafta), la mega-macchina capitalista va incontro a uno dei suoi periodici inceppamenti, determinati dal solito insopprimibile, fastidioso fattore umano, il primo della nuova epoca felice annunciata dal trionfo del libero mercato.
Emarginati dall'universo luccicante del consumo, ignorati dalle statistiche, rimossi dalla coscienza del Messico se non come residui archeologici, i maya insorgono una volta ancora per dire: adesso basta! Basta miseria, basta discriminazione, basta ingiustizia, basta silenzio.
Sebbene il governo messicano si affretti a dichiarare che si tratta solo di una rivolta di indigeni "monolingue", limitata a "quattro municipi di montagna", nel rapido succedersi degli eventi, gli uomini e le donne di mais, uomini e donne semplici e normali che hanno voluto tenacemente mantenersi liberi, diventano lo specchio del Messico e del mondo, il nucleo di un progetto di democrazia universale che essi, armati in pari misura di ironia e di spirito visionario, chiamano "intergalattico".
In un'epoca in cui intellettuali e sociologi decretano compiaciuti la fine della storia, in cui i proclami di pace dei governi, del Papa, dell'O.N.U., si ingegnano di dissimulare quella guerra di tutti contro tutti che è l'essenza del mercato, gli insorti messicani prendono le armi non per imporre un nuovo potere, non per esercitare la violenza rancorosa dei perdenti, ma per interpellare e per chiedere ascolto, per raccontare a tutti i popoli l'assurdità della loro condizione, di uomini e donne cui si impone di apparecchiare senza posa il banchetto della modernità, nell'atto stesso in cui si interdice loro l'accesso alle vivande.
Ben presto i maya del Chiapas, cercando le radici della propria liberazione possibile nell'interdipendenza fra la loro sorte e quella degli esclusi di tutto il mondo, hanno compreso che il sottosviluppo delle zone periferiche è determinato dalla penuria di quelle stesse merci povere la cui sovrabbondanza soffoca, inquina, avvelena il cosiddetto benessere delle metropoli dell'impero.
Parte emergente di un iceberg sociale la cui massa si estende ben oltre i confini del Chiapas e dello stesso Messico, essi offrono al mondo un patrimonio culturale importante, sorprendentemente adeguato alle necessità del nostro tempo: un patrimonio di valori e di civiltà che trae la propria ricchezza da una grande capacità di auto-organizzazione, dalla prodigiosa tradizione di resistenza degli indigeni mesoamericani e da un rapporto con la natura che si intesse di armonia, di relazioni fondate sulla comunità e sulla reciprocità, sulla circolazione delle idee e degli esseri umani.
"La loro critica al neoliberismo - scrive Pablo González Casanova - non intende tanto la politica come problema di partiti, di governi o di stati, quanto come problema di relazioni sociali, di relazioni morali e di relazioni di potere che esistono anche all'interno della società, della cultura e dell'economia" (Latinoamerica, n. 64, luglio 1997).
Così facendo, forse anche aldilà delle loro intenzioni iniziali, gli insorti messicani sono diventati in un punto di riferimento importante per la costruzione di un grande arcobaleno umano contrapposto al plumbeo orizzonte neoliberale, una grande coalizione di forze che qualcuno ha definito l'"Internazionale della speranza".
Preservate dal loro stesso isolamento contro i pensieri unici di ieri e di oggi, contro il mercato delle religioni e la religione del mercato, le culture indigene, nell'aprirsi alle correnti del mondo, vanno incontro a un'inevitabile crisi. La scuola stessa può diventare un veicolo di dissoluzione della comunità e di omologazione ai valori dominanti.
Ma, a partire dal gennaio del 94, allorché le comunità, dichiarandosi in resistenza, rifiutano il sistema di insegnamento gestito dello stato per il duplice ottimo motivo che esso era estraneo alla loro sensibilità, orientata a un apprendimento essenzialmente collettivo, e che era, in base ad ogni possibile standard, di qualità deplorevole, attorno al tema della scuola nasce l'occasione per un nuovo tipo di cooperazione non più suggerita dall'esterno, ma capace di svilupparsi a partire dalla comunità stessa: l'occasione per costruire insieme, grandi e piccoli, zapatisti del Chiapas e compagni d'ogni parte del mondo, la scuola della selva.
Di quella selva in cui - come ebbe a scrivere il rivoluzionario guatemalteco Mario Payeras - per via del riposo originario che prevale, il pensiero può ripiegarsi su se stesso e ricostruire con lucidità l'essenziale. Un pensiero che non si arresta certo all'età delle origini né a un ennesimo millenarismo ma che costruisce qui e ora l'utopia del possibile. Un pensiero che, fra l'altro, pone al centro i bambini, i più piccoli fra i piccoli uomini di mais. I bambini che sono il futuro di noi tutti, ma che nascono ricchi dell'esperienza di coloro che li hanno preceduti. I bambini destinati a riscrivere la storia, affermando la verità della vita di fronte alla prepotenza, alla volgarità, all'ottusità di ciò che c'è, finge di durare da sempre, pretende di durare per sempre.
Dalle due parti dell'oceano, i miti offrono talvolta delle risposte a chi abbia la modestia e l'intelligenza di interrogarli. Vale forse la pena di dipanare il filo che lega la storia dei due fanciulli, Hunapú e Ixbalanqué, che - come narra il Popol Vuh, libro sacro dei maya-quiché - ,armati solo di cerbottane e di astuzia, sconfiggono gli onnipotenti giganti di Xibalbá, "la cui unica ambizione è fare il male, arricchirsi e dominare" e l'episodio di Davide che con la fionda sconfigge Golia, rendendo la libertà al suo popolo, e la favola di Peter Pan, il ragazzo che si rifiuta di cedere al pesante buonsenso delle cose e di sottomettersi alle loro leggi, e il bambino che, in mezzo ai mentitori per interesse, per viltà, per conformismo, smaschera la nudità del re e la fragilità della sua fascinazione autoritaria, e il racconto dei minuscoli lillipuziani che, agendo tutti insieme in mirabile armonia, rendono inoffensivo il gigantesco predone Gulliver.
Ma nell'"isola che finalmente c'è" da dove i piccoli maya di tutte le età, stanchi di ascoltare le lezioni dei professori di economia e di assaggiare le loro bacchettate hanno alzato le vele dei loro aguascalientes chiamando a raccolta i "piccoli" ribelli di tutto il mondo, non basta più respingere le vecchie menzogne e scacciare i vecchi mentitori: occorre immaginare una nuova modalità di educazione, coerente con i bisogni delle comunità e con quel disegno di autoliberazione collettiva e individuale che costituisce il fondamento e l'originalità del "pensiero della selva".
E, dunque, come potrà mai essere la scuola di chi rifiuta la lezione delle cose, i ruoli sociali, il monologo dell'ordine costituito, l'elogio che senza posa il capitalismo pronuncia su se stesso? E da dove potranno mai arrivare gli educatori di una tale scuola? E' la materia delle pagine che seguono, appassionata testimonianza di un incontro, anzi di molti incontri.
Nelle comunità zapatiste di San José del Río, di Nueva Guadalupe Tepeyac, di La Realidad in collaborazione con ragazzi e ragazze venuti dalle città, da altre regioni del Messico e da altre parti del mondo, nell'ambito del progetto Semillita del Sol, gli insegnanti imparano a svolgere con i bambini (e non soltanto con loro, ma anche con le donne, gli anziani, con tutti gli abitanti dei villaggi) una funzione di interscambio fra le comunità e le mille voci discordi del mondo dei refrattari, degli spiriti liberi di tutti i tempi e di tutti i paesi. Di creazione di una parola libera, in cui memoria e sogno, passato e futuro, America ed Europa, non si contrappongano, ma si tengano per mano. Il nucleo centrale di questa esperienza non va cercato nella produzione di conoscenza in senso accademico, bensì nel suo carattere sperimentale e nella riflessione costante di tutti sul significato dell'educazione stessa, sul valore della tradizione, sul suo ampliamento verso nuovi saperi, sulla costruzione collettiva della conoscenza.
Nella scuola della selva si impara giocando. Ed è proprio questo ricco percorso comunitario che permette di affrontare con successo tanto i ritardi degli allievi e dei docenti come i problemi della guerra. I risultati sono impressionanti. Perché se noi occidentali abbiamo bisogno di riappropriarci di una sensibilità comunitaria atrofizzata, divorata nei secoli dalle forze coalizzate dello stato-moloch e della famiglia-piranha, del pari i maya avvertono l'esigenza di articolare e consolidare l'autonomia degli individui non nel mortifero deserto dell'economia, ma nella selva senza fine delle relazioni umane liberate.
Si tratta di un processo di grande rilevanza storica che necessita di essere inventato gradualmente, attraverso un gioco di seduzione in cui tutti siano protagonisti, coloro che si stanno formando e coloro che conducono la formazione, i membri della comunità e quanti ne vogliono condividere il destino. Scoprire insieme cosa si fa, come si fa, perché si fa, quanto coerente è ciò che si fa e cosa resta ancora da fare: ecco il metodo di questa scuola o, per meglio dire, antiscuola, in coerenza con la grande scommessa zapatista: costruire un mondo nuovo senza dover passare per la conquista politica o militare di quello esistente.
Così, malgrado la crescente militarizzazione e la guerra civile, il Chiapas continua ad essere un grande laboratorio sociale dove si pensano, si dicono e si fanno cose di cui si parlerà nel prossimo millennio. A quattro anni da quel fatidico primo di gennaio, molti sono i morti, molti i torturati, i carcerati, i desaparecidos, però la Selva Lacandona di oggi non è più solo il territorio della sofferenza e dell'oblìo dove si sopravvive ai limiti della capacità umana. E’ anche un nucleo di creazione di situazioni e di riflessione che oltrepassa le frontiere regionali per ricevere il contributo di intelligenze e di passioni del mondo intero.
Con i tutti i suoi paradossi e le sue ambiguità, la rivoluzione dei maya ha portato alla superficie l'urgenza di liberare le energie creative dei molti mondi negati dalla società in cui viviamo. Ha messo in moto il primo assalto organizzato e cosciente contro l'ordine neoliberale e i suoi epigoni. Ha creato ponti, incontri, rapporti, legami, opportunità. E nel cercare nuove strade non si è scordata dei suoi figli più piccoli. Senza perdere la propria identità, senza rinunciare ad essere quello che sono, i bambini della selva si sono abituati a parlare con italiani, francesi, nordamericani, olandesi, giapponesi, australiani, africani... e viceversa.
Questo confronto, nel suo tragitto, ha dato origine a un diverso modo di intendere la solidarietà, l'internazionalismo, la cooperazione. Non l'elemosina di chi ha verso chi non ha, non l'indottrinamento di chi sa verso chi non sa, ma un'occasione in cui uomini e donne, amici, compagni, condividono un percorso e scambiano idee, mezzi materiali e sentimenti.
Coscienti o no, ci troviamo oggi alle soglie di un grande e planetario processo rivoluzionario con al centro nuovi valori, valori non economici. Ovunque le leggi del profitto e del potere si scontrano con quei principi della gratuità, del dono e della reciprocità che, se stentano ancora a trovare le parole per esprimersi, visibilmente incominciano a prendere forma nelle pratiche quotidiane di tante donne, di tanti uomini, di tantissimi bambini dei cinque continenti.
Le reti zapatiste dei diversi paesi possono essere parte di questo processo. E' significativo che, già ora, gran parte degli aiuti che giungono in Chiapas non vengano da finanziamenti statali, da burocrazie di partito o da istituzioni di credito, ma da piccoli gruppi informali che organizzano feste e situazioni collettive in margine alle strutture economiche contraddicendone regole e presupposti.
E’ un fenomeno inedito che risponde da parte occidentale alle tante novità che ci giungono dalle montagne del sudest messicano. Aiutare significa adesso aiutare anche noi stessi, imparare ad ascoltare e a ricevere ciò che questi nostri compagni possono darci. Ed è proprio l'estraneità alla logica del denaro e del progresso mercantile a rendere possibile un'esperienza della solidarietà che può essere vissuta non solo nella remota Selva Lacandona, ma anche qui, fra tutti coloro che sono disposti a imbarcarsi sulla nave dell'avventura.
Semillita del sol, crediamo si muove in questa direzione, verso l'instaurazione cosciente e collettiva di quella nuova civiltà' a cui lavoriamo ormai in tanti, in ogni parte del mondo, bambini maya e combattenti zapatisti, educatori, costruttori di scuole e architetti di sogni, ed anche noi, semplici giocatori del grande gioco della libertà.
Novembre 1997
CAPITOLO PRIMO
Todo para todos
nada para nosotros.
Tutto per tutti
niente per noi.
Ricorda che la nostra lotta
è per la vita.
Enlace Civil
seminando per raccogliere...
Da molto tempo, le comunità indigene dello Stato del Chiapas, nel sud-est messicano, stanno lottando per i loro diritti politici e sociali, per condizioni di vita migliori e per il recupero e la salvaguardia della loro cultura e delle loro tradizioni.
Lo spirito che anima questi popoli indigeni è quello della dignità. Con essa come guida e cammino, lottano per costruirsi un mondo giusto, libero e democratico, un mondo più umano.
Le comunità indigene nel loro sforzo di miglioramento si scontrano con gravi minacce e difficili condizioni. Si organizzano come collettività umane e non come individui isolati; sono coscienti inoltre della necessità di rapportarsi con altri popoli, con altre persone, con altri tentativi che si fanno in Messico e in tutto il mondo.
Enlace Civil A. C. nasce nel 1996, unendo molti sforzi prima isolati e dispersi, dalla richiesta delle comunità indigene chiapaneche in lotta per migliori condizioni di vita, per costruire un ponte tra questi popoli indigeni e la società civile nazionale e internazionale.
Per rispondere a questa richiesta indigena, Enlace Civil A. C. si è formata come gruppo multidisciplinare di professionisti in diverse aree, rispettosi delle decisioni e criteri stabiliti dai popoli indigeni.
La caratteristica che contraddistingue Enlace Civil A. C. è che i progetti che promuove e porta avanti rispondono a necessità espresse da ogni comunità.
Enlace Civil A. C. non offre progetti alle comunità, ma riceve le loro richieste e serve da ponte con tutti coloro che, in Messico e nel mondo, desiderano partecipare insieme a loro nella ricerca e costruzione di condizioni di vita migliori per gli indigeni.
I progetti seguiti attualmente, su esplicita richiesta delle comunità indigene e che Enlace Civil A. C. promuove, includono aree di educazione, salute, produzione e commercializzazione, arte, cultura e comunicazione.
Per maggiori informazioni
Enlace Civil A.C. - Ignacio Allende 4
San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, México - C.P. 29200
Telefono e fax (00) 52-967-821 04
e-mail: enlacecivil@laneta.apc.org
on line: http://www.laneta.apc.org/enlacecivil
CAPITOLO SECONDO
Questo processo della scuola ha una lunga storia nella nostra comunità.
Tutto il lavoro è sempre stato frutto del nostro sforzo.
Tutto quello che si può vedere a Guadalupe Tepeyac è stato fatto interamente da noi,
senza alcun aiuto da parte del governo.
Tutto proviene dalla nostra lotta, per questo continuiamo
in resistenza e il governo non ha niente a che fare con noi.
Allora non sapevamo che c’erano altri compagni disposti ad aiutarci.
Questo ora ci dà una possibilità in più, ci aiuta a far proseguire
nell’apprendimento i nostri bambini.
Dalia e Felipe, delegati dell’Ezln Comunità in esilio di Nuevo Guadalupe Tepeyac
al Secondo Incontro Intercontinentale per l’umanità e contro il neoliberismo.
Spagna, agosto 1997.
Il Progetto
"Semillita del Sol"
Dobbiamo pensare la scuola congiuntamente,
altrimenti, funzionerà secondo il modello
che già conosciamo.
L’idea è che qui si lavori in modo diverso,
e per questo ci vuole tempo.
Il Chiapas è uno dei 32 Stati della Repubblica Messicana e si trova nella regione del Sudest del Messico. Ha una popolazione di 3.584.786 abitanti, distribuiti in 16.442 località, di cui i 3/4 sono composte da un massimo di 99 abitanti, 120 sono urbane e 16.302 rurali; il 99.2% della popolazione vive in comunità rurali e, lo 0,8% nella zona urbana. Consta di 111 municipi, con un’estensione territoriale di 75.634 Kmq.
Le popolazioni indigene del Chiapas parlano 57 differenti lingue; le principali sono Tzeltal, Tzotzil, Chol, Tojolabal, Zoque, Kanjobal e Mam.
Le comunità dove è iniziato il progetto "Semillita del Sol" sono San José del Río e Nuevo Guadalupe Tepeyac che si trovano nella regione della selva nel municipio di La Margaritas, chiamato dal 1994 San Pedro de Michoacan, che dista 102 chilometri da San Cristóbal de las Casas.
L’unico accesso alle comunità precedentemente menzionate è attraverso una strada sterrata di 67 Km tra Las Margaritas e San José del Rio e di altri 35 Km per arrivare a Nueva Guadalupe Tepeyac. Le condizioni di questa strada si deteriorano durante il periodo delle piogge, aumentando le difficoltà di comunicazione tra le comunità.
I gruppi etnici che compongono queste comunità sono il Tojolabal, Tzotzil e Tzeltal. Il gruppo Tojolabal è localizzato nella parte centro settentrionale della zona, gli altri gruppi si sono insediati a Sudest, a ridosso della frontiera con il Guatemala.
Nell’estrema parte orientale dello Stato, a 102 chilometri dall’antica capitale di San Cristóbal de Las Casas, è ubicato il municipio di Las Margaritas. Confina a nord con i municipi di Ocosingo e Altamirano, a sud con il municipio di La Indipendencia e con il Guatemala. La sua estensione territoriale è di 5.718 kmq che rappresenta il 7,7 per cento dello Stato. Le principali località del municipio sono: Las Margaritas, Vicente Guerrero, San José del Rio, Guadalupe Tepeyac.
Nelle comunità del Chiapas, l’educazione è una delle necessità più importanti, e quindi, una richiesta centrale. In queste zone la scarsità di scuole è una questione storica deplorevole, quanto la mancanza di maestri delle comunità stesse e l’inesistenza di programmi di formazione per educatori.
Ciò non significa che non ci siano mai state scuole ufficiali ma, semplicemente, che sono state poche e che hanno funzionato parzialmente, ossia, senza mezzi, con insegnanti mal preparati, non impegnati nel loro compito educativo, e con una metodologia educativa formalista, meccanica e mnemonica che apporta poco o niente alle comunità e agli scolari.
Allo stesso modo sono falliti molti progetti educativi informali, soprattutto perché poco sistematizzati e perché rispondenti più a interessi esterni che a quelli delle comunità stesse.
Queste circostanze non si limitano al Chiapas ma di fatto, colpiscono tutte le comunità indigene del paese. L’interesse di sviluppare questo progetto nel Chiapas nasce a fronte di chiare richieste volte a formare un modello educativo nuovo, che sia realmente proprio delle comunità.
Da questa necessità esplicita sorge il progetto "Semillita del Sol"; l’intento è di generare nella zona un sistema educativo proprio, che risponda alle necessità delle comunità e sia soggetto al loro mandato e che non riproduca né l’imposizione di contenuti irrilevanti, né forme meccaniche d’insegnamento. Si tratta di costruire un processo di formazione integrale costruito assieme ai docenti, alunni e comunità, strettamente relazionato con la loro realtà e in accordo a dinamiche locali.
Progetto per l’Educazione
"Semillita del Sol"
Il progetto "Semillita del Sol", ha avuto inizio nel 1995 e, operativamente, all’inizio del 1996 grazie all’aiuto dei comitati e delle organizzazioni non governative d’Italia, Francia, Germania.
Il progetto è iniziato in due comunità.
La prima, Nuevo Guadalupe Tepeyac è una comunità abitata dagli sfollati - in seguito all’offensiva militare del febbraio 1995 - in esilio ormai da 2 anni.
L’altra comunità è quella di San José del Río.
All’inizio del 1996 non vi erano molte risorse economiche, per cui, con le comunità, siamo arrivati all’accordo che era prioritario costruire la scuola in Nuevo Guadalupe. Questa comunità vive attualmente in piena selva, per cui non si può contare su alcun tipo di infrastrutture.
La comunità di San José del Río invece aveva almeno una tettoia sotto cui fare scuola.
Costruzione della scuola in Nuevo Guadalupe Tepeyac
A gennaio del 1996 arriva il primo istruttore nella comunità in esilio.
Come primo obiettivo si forma il comitato di educazione della comunità con lo scopo di definire le differenti attività e mete del progetto educativo.
Quindi viene stabilito il luogo per la costruzione della scuola e il tipo di materiale da utilizzare per la costruzione.
Mentre si sta costruendo la scuola, l’istruttore inizia a lavorare parallelamente in una capanna utilizzata per molteplici attività (riunioni, atti religiosi, ecc.).
La costruzione è in legno e lamiere galvanizzate, si compra il legno per alzare le pareti mentre i pali portanti vengono tagliati dalla comunità.
Il legno viene comprato da un’altra comunità che ha il permesso per il disboscamento. Si contrattano camion da tre tonnellate per il trasporto. Il resto del trasporto viene effettuato a spalle dagli uomini della comunità.
Parallelamente a tutto questo lavoro si costruiscono 116 sedie e tavoli di tre misure diverse.
Quando la costruzione è ultimata si trasportano sedie e tavoli fino alla scuola, e in questo trasporto aiutano anche i bambini e le bambine della comunità.
La scuola è composta da sei piccole aule, uno spazio per la biblioteca, un cortile centrale e un altro per le cerimonie.
Con la partecipazione dei falegnami della comunità e dell’istruttore si costruiscono altri mobili per rendere funzionale la biblioteca.
Come attività parallela nelle classi, i bambini, insieme ai promotori, ornano la scuola con ritagli di carta colorata.
Allo stesso modo si seminano piante e fiori per rendere il luogo molto accogliente.
Attività educative
La comunità ha designato sei giovani della comunità, fra i 13 e i 18 anni, che hanno terminato le elementari, per frequentare un corso professionale per maestri.
Si fa scuola dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 10 e dalle 11 all’una del pomeriggio per un totale di 110 alunni, fra bambini e bambine.
Si tiene un corso di alfabetizzazione per 60 donne della comunità, divise in quattro gruppi. E questo tre volte alla settimana.
La biblioteca ha approssimativamente 500 libri, che si stanno catalogando per poter preparare schede tecniche.
Si è ottenuta una donazione di libri per la biblioteca (angoli di lettura) e consigli per il suo uso da parte di uno specialista in lettura-scrittura. Il corso è durato una settimana e si sono specializzati 6 promotori di varie comunità.
L’obiettivo era quello di motivare i bambini alla lettura, attraverso racconti, opere di teatro, disegni ed attività manuali. Questo corso si è tenuto nella comunità di San José del Río.
Fra gli obiettivi del progetto ci sono attività collegate all’educazione ambientale, per imparare a conservare le risorse naturali. Così pure, insieme ai bambini, sono stati disegnati dei cartelloni per la promozione dell’igiene personale.
Si è iniziato a lavorare in laboratori per attività manuali ed artistiche.
Laboratorio di ricamo e tessitura
Vi partecipano 60 donne, ed è funzionato pure come terapia occupazionale, perché le donne si riuniscono un’ora al giorno nella biblioteca, e così si riposano pure dalle faccende domestiche.
Nel mese di luglio hanno prodotto tovagliette e borse, vendute nel mese di agosto, durante l’Incontro Intercontinentale. Il ricavo ottenuto è stato diviso fra tutte le donne e una parte destinato come fondo comune per il Laboratorio-cooperativa, per poter comprare del materiale.
Il progetto continuerà ad appoggiare queste attività e per l’acquisto di materiale, nell’intento che in futuro si autofinanzi. In questo momento non si può dire che abbia raggiunto l’autosufficienza, visto che la vendita di tovagliette e borse si è limitata a questa iniziativa, però si cercherà di trovare il miglior modo per poter rendere commerciabile questa produzione.
Laboratorio di pittura
I bambini possono sviluppare le loro attività artistiche e promuovere così la propria autostima attraverso l’espressione artistica. Attualmente si lavora con i bambini nella costruzione di giochi di legno, cartelli e striscioni.
Laboratorio di ceramica
Si è già costruito un tornio di legno per la fabbricazione di pentole, principalmente per uso interno della comunità.
Dato il tipo di risposta suscitato dai laboratori, la comunità ha sollecitato l’apertura pure di un Laboratorio di panetteria, il che per ora non è stato ancora possibile.
Istruttori
Sono persone con preparazione universitaria che hanno lavorato all’inizio nella scuola di San José del Río. L’impegno con la comunità è che si fermino a vivere lì per periodi non inferiori ai 6 mesi, lavorando nella scuola a tempo pieno dal lunedì al venerdì.
Scuola di San José del Río
Durante il primo semestre di quest’anno, in questa scuola hanno seguito le lezioni dal lunedì al venerdì 71 bambini, dalle ore 9 alle 11 e dalle 12 alle 14. Le lezioni sono state curate da due promotori per l’educazione della comunità con l’appoggio di volontari che vivono nell’accampamento per la pace (ubicato in questa comunità).
Ci sono pure lezioni per le donne e gli uomini, con un orario che va dalle 7 alle 9 di sera e la risposta è molto buona.
Ad agosto del 1996 sono stati commissionati i tavoli e le sedie per la scuola. Si sta lavorando insieme nel comitato educativo per la definizione dei materiali necessari per la ristrutturazione della scuola.
Verso la "nuova" scuola di La Realidad
Centro formativo per promotori d’educazione
In una riunione con i responsabili delle comunità si è deciso che, per affrontare meglio il problema dell’analfabetismo nella zona, è necessario creare un Centro professionale per promotori per l’educazione.
In questo progetto contiamo sull’appoggio di giovani universitari che si tengano in costante contatto con la comunità e la commissione educativa, che cerchino di favorire l’interesse degli alunni all’apprendimento e, al tempo stesso, rispondano agli interessi comunitari.
I dati considerati in questo progetto forniscono il modello per comprendere e sviluppare un tipo di processo educativo più coerente con la situazione rurale e indigena del Chiapas; è a partire da queste esperienze che le comunità hanno voluto condividere in altre zone la creazione di scuole su questo modello.
Il punto di riferimento della "nuova" scuola che si vuole costruire è il processo di riflessione costante tra tutti i partecipanti; un confronto sul significato del fatto educativo, sul valore del sapere locale, della sua apertura a nuove conoscenze, e in modo particolare, sulle forme per costruire questa conoscenza attraverso una partecipazione congiunta.
Un processo che dovrà essere costruito gradualmente, attraverso lo scambio reciproco fra tutti gli attori coinvolti: coloro che si stanno formando e coloro che guidano la formazione, la comunità e la sua commissione educativa; tutto ciò per analizzare cosa si fa, come si fa, quanto coerente è ciò che si fa e cosa resta invece da fare. L’intento è che durante il processo di sviluppo del progetto si valutino tutti gli aspetti relativi alle necessità della comunità, la coerenza dei suoi contenuti, i processi di conoscenza che si vanno generando nelle situazioni di apprendimento, che permettano di ridefinire e adeguare contenuti, mete e metodi. La nuova scuola non deve nascere predeterminata dall’esterno ma va costruita con coerenza rispondendo alla caratteristica essenziale: favorire la costruzione comune di una formazione propria e rilevante per le comunità.
Il Centro di formazione si pone inoltre l’obiettivo di formare i giovani delle comunità come promotori d’educazione, perché a breve termine possano, oltre che a continuare nel lavoro formativo dei bambini nelle comunità, formare altri giovani che li sostituiranno in futuro, nonché a continuare e consolidare la loro formazione.
La comunità di La Realidad, nel municipio di Las Margaritas sarà la sede del Centro di Formazione, destinato non solo alla formazione di promotori d’educazione ma anche a quella di istruttori in vari mestieri.
La costruzione del Centro è già già in una fase avanzata. Consta di aule, laboratori, dormitori, cucina, ecc... e funzionerà come convitto. All’interno vivranno anche docenti esterni.
La sua capienza iniziale è pensata per ospitare 120 futuri promotori, più 10 docenti esterni, nonché maestri di Laboratorio che saranno presenti per periodi più brevi.
I programmi didattici comprenderanno sia la preparazione pedagogica e accademica, sia laboratori di ordine pratico e creativo.
Il progetto costituisce una risposta alla richiesta delle comunità del Municipio di Las Margaritas, cioè impostare un nuovo tipo di educazione propria, coerente con i loro interessi e necessità, rifiutando le tendenze educative che storicamente hanno prevalso, caratterizzate da un’istruzione meccanica, senza significato e impartita in modo irregolare, insufficiente, poco coinvolgente e irrispettosa della propria cultura.
Il processo di riflessione sulla nuova scuola è già iniziato. Giovani di formazione universitaria e con esperienze educative in comunità rurali si stanno preparando seguiti da un gruppo di docenti universitari con esperienza in diversi campi dell’educazione e specializzati in vari rami del sapere, conoscitori, inoltre, della realtà rurale e indigena del paese.
Già da mesi questi docenti lavorano con altre componenti educative della comunità nella costruzione di un piano di lavoro per il Centro di Formazione.
Per ora i docenti esterni si stanno impegnando in un primo ciclo di sei mesi nella formazione dei promotori d’educazione.
I futuri educatori sono circa 120, giovani tra i 15 e i 20 anni che hanno terminato almeno il quarto anno della scuola elementare, scelti dalle loro comunità per diventare insegnanti delle nuove scuole comunitarie della regione.
Essi assumono un triplice impegno:
a) formarsi nel Centro come educatori dei bambini nelle loro comunità;
b) essere parte del sistema tradizionale di incarichi nelle loro località;
c) formare assistenti che possano sostituirli.
Per poter compiere tutto ciò saranno aiutati dalla comunità che si impegna a sostenerli mentre si dedicano all’educazione dei bambini. In seguito, restituiranno alla comunità parte di quanto ricevuto condividendo le loro conoscenze ed esperienze con uno o più assistenti, iniziando così un sistema di apprendistato per nuovi promotori.
La formazione dei futuri educatori comprende tre processi inter-relazionati:
- la riflessione sui contenuti e la loro valutazione;
- la costruzione reciproca di conoscenze proprie, a partire dal sapere locale e la sua articolazione e comparazione con nuove conoscenze;
- l’esercizio creativo di attività espressive e pratiche(corsi di falegnameria, radio, teatro, ecc.).
Nella prima tappa del progetto: si formeranno 120 educatori, che si faranno carico di scuole nuove in 80 o più comunità della regione, per cui almeno 3.000 bambini avranno accesso alla nuova scuola (si calcolano circa 40 bambini per ogni scuola).
Se si considera che questo è solo l’inizio di un programma integrale di formazione educativa a lungo termine che interesserà tutte le comunità limitrofe agli "Aguascalientes" zapatisti: La Realidad (Las Margaritas), Oventic (Los Altos), La Garrucha (Ocosingo), Morelia (Altamirano) e Roberto Barrios (Palenque), dove le comunità, gli educatori saranno interamente coinvolti, si può già immaginare la possibilità reale di fare della nuova scuola un sistema educativo realmente proprio, che offra alle comunità risorse maggiori e nuove per iniziare a costruirsi un nuovo destino.
CAPITOLO TERZO
Ogni giorno che passa
ci dimentichiamo di non stare più nelle nostre case...
A scuola nella Selva
Conversando con Mercedes e Victor
Conversazione fatta alla fine di luglio del 1996 a San Cristóbal de las Casas con Mercedes dell’ONG Semilla del Sur (ora Enlace Civil A.C.) e Victor, maestro volontario di Nueva Guadalupe Tepeyac.
A cura del Comitato Chiapas di Torino e del Consolato Ribelle del Messico di Brescia.
Mercedes
In Messico, come in quasi tutti i paesi del mondo, la scuola è un servizio statale obbligatorio. Ma, lontano, nelle campagne, sulle montagne, la scuola praticamente non esiste, esiste al massimo un fantasma di scuola. I maestri, mal pagati dal governo, non sono motivati, anche perché ci sono poche strade, e la maggioranza delle comunità non ha accesso a queste strade e c’è da camminare molte ore. "Per un salario così ridotto, non vado a lavorare in montagna" dicono, e così il maestro non ci va... o ci va, al massimo, due o tre giorni la settimana.
La situazione è tale per cui l’educazione è quindi molto trascurata. Inoltre è un tipo di educazione adatta a Città del Messico, e non pensata per le comunità indigene del Chiapas, di Oaxaca, di Guerrero.
A partire dal 1994, con la sollevazione armata dell’EZLN, alcune comunità di questa regione si sono dichiarate comunità in resistenza. Ciò significava e significa ancora rifiutare i maestri del Ministero di Educazione Pubblica. Le comunità non vogliono questi maestri, non vogliono medici che siano pagati dal governo. Non vogliono nessuno che sia pagato dal governo.
"Così da circa due anni e mezzo alcune comunità non hanno maestri, neppure maestri per tre giorni come prima. C’erano comunità che, secondo il Ministero di Educazione Pubblica (SEP), non giustificavano la presenza di più maestri: c’era un solo maestro che doveva occuparsi della prima, della seconda, della terza e della quarta classe; ora non c’è neppure quello.
Così vi sono bambini che non sanno né leggere, né scrivere. Neppure quelli che sono in quarta sanno ciò che sta succedendo.
Nel ‘94 vi è stata l’emergenza, e ci si preoccupava del mangiare e dei vestiti. A poco a poco, mentre la situazione si normalizzava, nelle comunità incominciammo a chiederci: "Bene, cosa facciamo dei bambini? Tutto il giorno stanno qui, ci aiutano a tagliar legna, ci aiutano a seminare mais, però la maggioranza, specialmente i più piccoli, non hanno nulla da fare...". Ti rendevi conto che effettivamente i bambini erano molto stressati e passavano tutto il giorno bisticciando.
Allora le comunità decisero di fare qualcosa per l’educazione. Con l’offensiva del febbraio ‘95, sono arrivati osservatori nazionali e internazionali e sono stati aperti vari accampamenti civili per la pace nella zona di Ocosingo e poi in quella di Las Margaritas. E’ stato molto difficile trovare persone disponibili a recarsi nelle comunità, potevano esserci dei rischi, non si sapeva bene quali. Ho trovato solo quattro giovani disponibili, di cui Victor era il maggiore.
Dovevano comprarsi da mangiare mentre la comunità avrebbe assicurato loro le tortillas, e un posto per cucinare e per dormire. Arrivi e non puoi stare senza fare niente; puoi prender nota dei soldati che passano... e poi?
Allora non si poteva lavorare né con le donne, né con gli uomini, perché la comunità era in allarme rosso, ma i bambini erano tutti là, col timore degli elicotteri e dell’esercito.
Allora la comunità ha detto "Benissimo! Occupatevi di loro", e questo è stato il lavoro iniziale.
Si è cominciato a fare un progetto con Renato, di Brescia, che è pittore. Ci ha detto: "Bene, faremo una scuola di pittura, di arti plastiche, giocheremo con i bambini. All’inizio non giocheremo con i numeri, con le lettere, ma pittureremo, disegneremo affinché i bambini tirino fuori tutto quello che hanno dentro...". Subito i bambini si sono messi a disegnare elicotteri, soldati ed aeroplani, come i bambini degli accampamenti dei rifugiati guatemaltechi, quando erano venuti qui in Chiapas. A poco a poco però hanno cominciato a cambiare i colori ed a disegnare altre cose.
E’ stato allora impostato il progetto per i bambini di una comunità del municipio di Las Margaritas che abbiamo chiamato "Semillita del Sol". Questo progetto è stato inviato in Italia, con l’avallo del comando dell’Ezln, quale conferma che il progetto era destinato alle comunità di Las Margaritas.
Attualmente si sta lavorando in due comunità: San José del Río e a Nuevo Guadalupe Tepeyac: quest’ultima è una comunità di fuoriusciti, gente che non ha potuto ritornare nella propria casa e sta vivendo nella selva dal febbraio del ‘95.
Nella selva non c’è nulla e allora col denaro che abbiamo ricevuto da tutti i comitati, abbiamo potuto costruire la scuola. Tutta la comunità ha trasportato legna per fare le pareti. Per molte ore tutti gli uomini hanno trasportato legna, lamiere per il tetto, chiodi e tutto quello di cui c’è bisogno. Poi hanno fabbricato le sedie, una sedia per ogni bambino perché nella loro vita non hanno mai avuto una sedia ed un tavolo per lavorare nella scuola; e si sono fatti tavoli di legno grandi, che non servano solo per leggere e per scrivere, ma anche per disegnare.
Molti bambini che non volevano andare a scuola, quando hanno saputo che c’erano sedie e tavoli, ci sono subito andati.
Adesso ci sono 110 bambini di questa comunità che frequentano la scuola, tutti i giorni, dal lunedì al venerdì. I maestri sono sei persone della stessa comunità, ragazzi giovani che hanno terminato le scuole elementari; per sei mesi abbiamo avuto anche un giovane di Città del Messico per preparare i promotori per l’educazione. Ha già finito i suoi sei mesi e ora c’è una ragazza. Il periodo di permanenza ininterrotta nella comunità infatti è di sei mesi. Non possono uscire dalla comunità per due ragioni: una per motivi di di sicurezza perché la gente è nascosta e se vai e vieni ti interrogano: "Dove sei stato? Dove vai?", e l’altra perché la comunità non ha fiducia in qualcuno che va e viene, come facevano prima i maestri del governo.
Questi due ragazzi sono stati prima maestri a San José, adesso sono insegnanti dei promotori nell’altra comunità.
Nella scuola c’è anche una piccola biblioteca, piena di libri. Non sappiamo quanti libri ci siano, ma è piena e i ragazzi hanno frequentato un corso di preparazione per usufruirne. Si leggono racconti da cui si possono trarre molte attività: opere di teatro, disegni, pitture, tutto ciò che piace ai bambini.
I giovani prima si preparano a Città del Messico e poi vengono a preparare altri promotori a San José e a partire da queste due comunità, stiamo cominciando a lavorare in tutta la zona, come pure in quelle di Ocosingo e Altamirano.
La zona di Las Margaritas è la più conosciuta, anche se nel dicembre del 1994 gli zapatisti hanno cambiato il nome a tutti i municipi; adesso si chiama San Pedro Michoacan e San José del Río appartiene a questo municipio.
Nella comunità di Guadalupe, la gente non voleva più costruire nulla, perché c’era il pericolo che tutto venisse distrutto dai soldati. Dopo la costruzione della scuola, hanno cominciato a dirsi: "Faremo molte cose", e le donne si sono riunite e hanno voluto un laboratorio di ricamo e di tessitura.
Il ragazzo di Città del Messico mi aveva chiesto: "Possiamo aprire un laboratorio?". "Sì, certo! C’è un po’ di denaro, avanti!". Così si sono iscritte sessanta donne per ricamare e per tessere; c’è la biblioteca e la scuola diventa un luogo dove una donna può andare a ricamare due ore, senza pensare a niente, a far da mangiare, senza preoccuparsi del marito... pensa solo a ricamare.
L’importante non è tanto il ricamare, ma il parlare con altre donne, con le compagne, con gente di fuori e dopo aver ascoltato un racconto, può lei stessa scegliersi un libro. E’ un laboratorio molto importante per le donne e hanno deciso che quello che stanno ricamando lo venderanno all’Incontro Intercontinentale per l’Umanità e contro il Neoliberismo e con i soldi ricavati compreranno altro materiale per andare avanti. A partire dalla scuola stiamo pensando di allestire vari laboratori: il primo è una lavorazione di creta per fabbricare vasi.
Con questi giovani di Città del Messico abbiamo lavorato e parlato a lungo. Non sono professori, sono studenti, però hanno tanto entusiasmo.
Ci siamo occupati dei bambini di San José per circa un anno, intrattenendoli, perché non sapevamo come far loro scuola. Ora stiamo lavorando in un’altra comunità in cui stiamo preparando i promotori per l’educazione.
Ma come proseguire? Ci siamo confrontati di nuovo, dato che sono solo due le comunità; bisognerebbe realizzare un centro di specializzazione per promotori dell’educazione, un centro simile ad un collegio, dove sia possibile mangiare, dormire, ricevere le lezioni, esercitarsi nei corsi di falegnameria, musica, creta, tutto ciò che le comunità propongono, senza che noi andiamo ad imporre nulla, se non aiutarli in ciò che esse vogliono realizzare.
Quindi quello che è nato come un progetto molto piccolo si sta sviluppando e sta diventando un progetto molto grande, che serve alle comunità perché, comunque si evolva la situazione, non debbano star lì ad aspettare che arrivino i maestri dalla città, ma abbiano i loro promotori per l’educazione, in modo da dare continuità alla scuola.
Lo stesso discorso vale per i promotori di salute. Già ci sono i promotori fissi che vanno in certe regioni e riuniscono i vari promotori delle comunità per un corso di aggiornamento di cinque giorni, più o meno, ogni tre mesi.
Quello che stiamo pensando per la scuola è diverso: non impartire dei corsi e basta, ma aprire una scuola-collegio permanente.
Forse stiamo sognando perché non sappiamo come farlo, né abbiamo il denaro per farlo, però possiamo iniziare con le idee.
Abbiamo parlato con la comunità e ci hanno detto: "Vogliamo altre quattro scuole, ora non abbiamo né le risorse umane né quelle economiche, perciò in questo momento pensiamo che un centro di preparazione sia la cosa più giusta".
Nell’intervista che segue, Victor, il giovane che ha lavorato nella comunità di San José, afferma che i maestri migliori sono quelli della comunità stessa perché conoscono la lingua, i costumi e in più sanno come si può insegnare ai propri bambini. All’inizio, oltre a lavorare come maestri, stavano ancora studiando chi da ingegnere, chi da medico o da dentista. Può darsi che non piacesse loro insegnare, però il loro ‘karma’ è diventato quello di insegnare. E lo hanno fatto molto bene, perché fortunatamente - ora che possiamo dare una valutazione positiva - non avevano la deformazione delle scuole magistrali.
E’ stata proprio una fortuna, perché il loro insegnamento l’hanno fatto col cuore, cercando in ogni modo di entrare in comunicazione con i bambini e adeguandosi a loro per potersi far capire, perché anche quando parlano spagnolo è uno spagnolo molto diverso.
Il papà di Victor infatti, che l’ha rivisto dopo i sei mesi trascorsi nella selva, mi ha detto: "Ho bisogno di un traduttore per comprendere Victor. Non lo capisco più perché usa nuove parole imparate nella comunità, che non è una lingua, ma un dialetto spagnolo".
Victor ha iniziato a insegnare i numeri con una ranocchia: la ranocchia saltava e i bambini contavano. Quali tra i maestri di Stato che c’erano prima, insegnavano giocando? Nessuno, mai! Spiegavano: "uno più uno due" e "tre per due fa sei" e se uno non imparava erano bastonate. Gente giovane come Victor ha patito tutto il trauma della formazione di quel tipo di maestri e ora si rifiuta di essere come loro.
Victor racconta di quando sono arrivate le sedie e una lunga fila indiana di bambini ha percorso il sentiero, ciascuno con in testa la sua sedia, più di cento sedie, una per ogni bambino della comunità.
"Da allora iniziammo a lavorare, a proporre iniziative alla comunità, perché io lavoravo solo con i maestri, ero un po’ come il direttore della scuola, facevamo sempre riunioni con gli altri maestri e pensavamo alle cose nuove da proporre.
La situazione era estremamente caotica, fuori dalle loro case, senza cibo, senza denaro, senza nulla. Allora abbiamo dato inizio a delle attività ricreative ed educative con una certa regolarità, abbiamo fatto in modo che i maestri avessero i loro corsi di preparazione. C’è ancora molto da fare ma stiamo migliorando.
La gente è molto interessata, i bambini sono contentissimi di andare a scuola, perché lo possono fare tranquillamente senza dover andare a trasportare legna o a fare altri lavori.
A poco a poco, il loro numero è aumentato.
Abbiamo proposto allora alla comunità di fare scuola alle donne ed agli uomini adulti per imparare a leggere, a scrivere e a contare. Le donne hanno accettato subito con entusiasmo.
Abbiamo iniziato con cinquanta donne, divise in due gruppi: io ne portavo avanti uno e un altro maestro si occupava del secondo, ma ci siamo resi conto che non funzionava. Così alla fine abbiamo fatto quattro gruppi di quattro livelli diversi: l’ultimo è di livello superiore, mentre nel primo si insegna a leggere e scrivere, a sommare e sottrarre.
Sono già tre i giorni della settimana in cui c’è scuola nel pomeriggio per le donne. Tenuto conto della difficile situazione abbiamo pensato di costituire un laboratorio di ricamo per le donne.
Loro stesse hanno preso il controllo del laboratorio, si sono organizzate, hanno nominato il loro direttivo. Le più grandi insegnano a ricamare alle più piccole. Di sera, mentre non c’è scuola, circa sessanta donne ricamano tovagliolini, borse, di tutto. All’inizio ricamavano le loro cose, poi si cominciò a pensare di creare un vero e proprio laboratorio, grazie anche agli aiuti che stavano arrivando dal di fuori. La grande speranza è che all’Incontro si possano vendere queste cose e le donne possano reinvestire questo denaro. Sono loro che in realtà stanno portando avanti le cose, hanno deciso loro che cosa fare.
Con i bambini si sta preparando un orto, che ancora non è terminato, dato che la mattina c’è scuola per i bambini, al pomeriggio c’è scuola per gli adulti ed i maestri e, al tramonto, non si può più fare altro. Tutto va avanti piuttosto bene.
La gente all’inizio era un po’ incredula; ci dicevano: "E’ tutto perfetto, però è difficile che si riesca". Quando hanno visto che il lavoro procedeva, che le donne andavano al laboratorio, che c’era la scuola, che arrivavano sedie e tavoli, che c’era già la biblioteca, la gente ha cominciato a convincersi che si stava facendo sul serio. Così hanno dato sempre maggior appoggio al lavoro. Adesso hanno recintato la scuola ed è proprio diventata un bel centro, con tutti i suoi edifici, le aree per il gioco. La scuola viene sempre ripulita assieme a tutti i bambini, i quali piantano anche fiori, piantine, per renderla sempre più bella.
Sono state fatte varie proposte, come ad esempio un forno per il pane che si sta già costruendo, sempre con l’organizzazione dello stesso gruppo di donne.
Appena fatto il tornio per la ceramica, tutti pensavano che da là sarebbero uscite subito padelle. Quando fu pronto, ci domandarono: "E la padella?" perché la padella, secondo loro, doveva già sbucar fuori dal tornio.
Non avevamo spiegato loro che dopo aver costruito il meccanismo, bisognava ancora fare altre cose...prima di vedere una bella padella.
Abbiamo già fabbricato qualche padellina e servirà a costruire utensili che servono alle donne che sono sempre quelle che lavorano di più e ai bambini pure, che però per questo tipo di cose non hanno alcun interesse.
Con i bambini abbiamo fatto altri tipi di laboratori: ad esempio abbiamo costruito giocattoli di legno, uno scaffale di legno per i libri, cose che servono man mano e che sono frutto delle loro idee.
Inoltre ci sono laboratori di disegno e di striscioni, più che altro per ragazzi e ragazze. Li ho avviati insegnando loro un po’ di disegno, benché non sia molto esperto in disegno. Abbiamo dipinto striscioni e preparato avvisi perché non si beva acqua sporca ed altre cose simili ad uso della comunità. E ora, prima che me ne venissi via, stavano preparando un grande striscione per l’Incontro, con il lavoro di tutti i ragazzi e tutte le ragazze della comunità. Lo proseguiranno come laboratorio perché così era stato pensato fin dall’inizio".
Si sa che i bambini, e in particolare le bambine, danno un grande aiuto, nell’economia familiare contadina... riescono a venire a scuola?
Victor
Quasi tutti i bambini, vanno a scuola, sono circa centodieci: in quarta ci sono solo bambine (dodici o tredici bambine), mentre nelle altre classi sono più o meno alla pari con i maschi. Con la comunità c’è una specie di mutuo impegno non dichiarato: da quando hanno visto che si lavora, che la scuola funziona seriamente, mandano tutti i bambini e le bambine.
Le madri si addossano più lavoro di prima per permettere alle bambine di andare a scuola; insomma la comunità dà importanza alla scuola, svincolando i bambini dal lavoro.
Mercedes
C’è ancora qualcosa da aggiungere. Victor ha detto che la gente non credeva nel progetto; era perché... immaginate cosa prova la gente a dover vivere in un posto nuovo, che non è casa sua, ma è un terreno prestato. Non vuoi costruirvi, perché hai l’illusione di potertene tornare a casa in breve tempo. L’atteggiamento psicologico è quello di dire: "Perché mai dovrei stabilirmi qui, se questa non è casa mia, se voglio tornare a casa". Questo è uno dei problemi in cui ci siamo imbattuti all’inizio del progetto, ma ora ne stiamo uscendo fuori.
Victor
Il problema centrale è che la gente non vuole far nulla anche perché tutto quello che fa poi glielo portano via i soldati. Tutto il loro lavoro, tutte le loro cose, tutte le loro riserve alimentari, tutte le mucche se li sono portati via i soldati. Quindi perché lavorare quando domani i soldati si mangiano tutto?
La scuola, in quel momento ha rappresentato un’isola nella comunità, è riuscita a risollevare l’animo, perché era l’unico posto dove si lavorava non solo per procurarsi il necessario per sopravvivere, ma per un progetto; ciò ha lasciato un segno nella gente, nelle donne, in tutti.
Questo ha dimostrato loro che era possibile costruire qualcosa e ciò è servito a riprendere con più volontà il lavoro. Non era semplice, nessuno voleva impegnarsi; era più comodo dire "vediamo cosa succede..." che convincersi che poteva essere una cosa seria, che ci credevamo, che potevamo farcela.
Io parlo sempre al plurale perché siamo in otto maestri, io solo vengo da fuori mentre la maggioranza sono della comunità. Tutto è loro: il lavoro, il progetto, io non sono altro che un aiuto. Do una mano ai maestri ad organizzare feste, opere teatrali, balli e spettacoli per i bambini. Lo si fa per tenere allegra la gente che non ha nulla. Questo è molto importante.
La scuola - come dicevo - è stata un’isola in mezzo ad una comunità duramente colpita, scacciata dalla sua terra.
Mercedes
Inoltre di fronte a cento bambini che non avevano nulla da fare, in un clima molto teso, dove, sorgevano conflitti familiari e la gente litigava perché le case erano troppo vicine le une alle altre, mentre prima c’era molto spazio fra una casa e l’altra, la condizione psicologica non era delle migliori.
E’ verissimo quello che dice Victor, perché adesso i bambini hanno un luogo dove trascorrere tutto il giorno. Lì si possono intrattenere tutti, perché nella biblioteca ci sono anche i giochi, giochi collettivi. Arrivano e... "Maestro, mi presti il rompicapo?", "Maestro mi presti l’automobilina" e tutto questo rappresenta un buon pretesto perché vadano in biblioteca e giochino tutti insieme; se ogni bambino avesse il proprio giocattolo, giocherebbe poi da solo a casa sua. Invece, il poter andare a chiedere giocattoli alla biblioteca diventa molto importante perché imparino a vivere insieme.
A San José, dove è stato pure Victor (che insieme ad Andreina e altri due ragazzi ha fondato l’accampamento di San José), la situazione era veramente difficile: per fare scuola la comunità gli aveva assegnato un luogo senza riparo lungo la riva del fiume, gli aveva dato un bastone in mano per picchiare i bambini (perché è così che facevano scuola i maestri del governo). Il clima quindi era molto teso; quando si parlava con i bambini, si coprivano la faccia, non volevano parlare, non volevano alcun contatto con gente estranea.
Riguardo al corso di ricamo, sorgevano sempre dei problemi: sessanta donne con cinque metri di tessuto; servivano quindi molte forbici, filo e aghi. Non so se vi rendete conto di quello che succedeva. Ciò che le donne desideravano, era avere una alternativa al non dover stare tutto il giorno in casa a pensare al loro esilio, ma poter uscire e andare per un’ora in biblioteca a ricamare e a chiacchierare con le loro amiche, stare fra donne.
Questo psicologicamente le ha aiutate moltissimo, e non era importante se alla fine non avevano ricamato nulla. L’importante non era ricamare, ma uscire da casa, lasciare i bambini più grandi a sorvegliare i bambini più piccoli, creando un momento di sollievo: "ogni giorno che passa ci dimentichiamo che non siamo più nelle nostre case".
Ho conosciuto la comunità di Guadalupe Tepeyac prima, quando viveva nel suo villaggio, e già c’erano vari gruppi organizzati: il collettivo del pane, quello della rivendita, quello della cucina ecc. C’è sempre stata un po’ di organizzazione di vita comunitaria.
Qualche tempo fa qualcuno ha proposto a varie comunità di fornire il materiale per costruire un forno per il pane in cemento. Ma la gente della comunità aveva risposto: "non lo vogliamo". Non volevano il forno perché: "trasportiamo tutto il materiale, costruiamo il forno e poi ce ne dobbiamo andar via".
E’ passato del tempo! Iniziata la scuola, hanno ripreso nuova energia, perché si son resi conto che in effetti poteva servire, si poteva utilizzare, si poteva sfruttare. In seguito le donne si sono rivolte a Victor per avere... un forno!
Avevamo un po’ di denaro poiché c’era una lista di cose necessarie che stavamo comprando per la scuola. In quel momento ci mancavano sette lavagne grandi, che venivano a costare un bel gruzzolo: 200 pesos, circa 40.000 lire l’una.
Allora abbiamo deciso di tenere alcune lavagne vecchie ancora utilizzabili e il denaro che avanzava l’avremmo speso per comprare il materiale per il forno. Mandai a dire che si poteva costruire un forno, non bello come quello che era stato loro offerto tempo addietro, ma di fango e che dovevano farlo loro.
Victor
L’importante era che le signore avevano cambiato idea: prima rifiutavano il forno, ora, quando io avevo risposto: "se non c’è denaro, non so se riusciamo a farlo", esse mi hanno detto: "non importa, noi trasporteremo le pietre e lo faremo di fango".
Questo fatto del forno è importante perché mette in evidenza come sia cambiato lo spirito: dal rifiuto di un forno fatto a regola d’arte, cioè di cemento, sono passate a voler costruire un forno loro, caricandosi di pietre e di legna... un piccolo forno che non avrebbe avuto nulla a che vedere con quello che avevano rifiutato, anche se era gratis.
Mercedes
Sono importanti le donne, le mamme, perché se loro stanno bene, parlano con i bambini e con lo sposo e così cambia molto lo spirito di tutti. Non diciamo che è una comunità perfetta, ci sono problemi, perché vivere in una simile situazione, in esilio da più di un anno e mezzo, è veramente difficile.
Un’altra cosa importante è la fiducia che ripone in noi la comunità. Lì non può andare qualsiasi persona, ma si deve sempre avere l’autorizzazione. La gente commenta sempre: "bene, e questo qui chi è? Chi l’ha autorizzato? Si può sapere perché sta qui?".
Victor è stato uno dei soggetti importanti per poter fare la scuola in questa comunità. Victor è arrivato e loro hanno detto: "Sì, il maestro Victor noi lo rispettiamo, abbiamo fiducia in lui".
Appena arrivato, non gli credevano perché era molta la gente che veniva a fare solo promesse: "faremo questo e quello, costruiremo un pollaio, un allevamento di conigli, di..." e solo per far bella figura; scattavano foto di rito e poi se ne tornavano a Città del Messico, o da dove erano venuti.
Quando è arrivato Victor si è andati comprare le lamiere a San Cristóbal, cercando il mezzo per portarle fino alla comunità; si trattava di percorrere 210 chilometri, in più erano lamiere grandi, 3 per 5, da portare in montagna.
Qui da noi è tutto sempre molto complicato perché le condizioni sono difficili. Nonostante tutto, sono ben contenta che sia venuto Victor, anche se lui avrà pensato: "Mercedes mi ha messo qui e poi mi ha mollato ad arrangiarmi!".
Vorrei che la gente sapesse, quando leggerà questo libro sulla scuola, che non solo sto cercando di ringraziare Victor, ma tutte quelle persone dell’Europa che stanno rendendo possibile il progetto.
Il progetto comprende due scuole, però a San José ancora non si vede un granché, dato che l’accordo preso con le autorità della comunità, visto che non c’era disponibilità di denaro, è stato di mantenere la piccola scuola di San José ancora senza tavoli e sedie. L’altra comunità infatti aveva ancora meno, per cui "la priorità è la costruzione della scuola per i fuoriusciti di Guadalupe". Così, a poco a poco, mano a mano che avremo denaro disponibile, cominceremo a mettere a posto San José, perché c’è un impegno: si compreranno sedie e tavoli, la scuola sarà più spaziosa, perché - come sanno tutti- è un villaggio molto festaiolo e tutti amano ballare in spazi più grandi.
Victor
Ne abbiamo parlato molte volte con la gente del posto e dicevano che la scuola di base andava bene ma la gente per poter lavorare e continuare a pensare ha bisogno di un sogno da raggiungere. Le scuole di base si stanno già costruendo, tutti hanno già cominciato a studiare. A San José manca ancora molto lavoro e molte cose, ma soprattutto manca l’idea di come proseguire.
Pensiamo prima di tutto di completare tutto il progetto della scuola di base, della scuola elementare, dobbiamo farlo con un piano ben preciso, ma che dipenda solo da loro e non dall’esterno. I maestri devon essere loro, quindi dobbiamo preparare dei maestri, dar loro una mano perché possano insegnare bene, soprattutto per migliorare il loro livello di preparazione.
Se il piano interessa gruppi di comunità, la cosa può essere risolta perché i primi avranno la possibilità di aiutare gli altri e, se dalla scuola escono dei maestri ben preparati di quattro o cinque comunità, possono poi possono andare per un periodo a prestare il loro aiuto in un’altra comunità.
Questa è solo un’idea, ma quello che sogniamo è una scuola completa, perché la gente dice: "Sì, le elementari, le elementari, però poi....". I bambini di dodici anni nel finire le elementari ti dicono: "Vado a lavorare, so già scrivere e leggere un po’, so contare, posso apprendere ancora qualcos’altro, però poi..." e lì finisce la speranza di poter imparare altro perché non c’è alcuna alternativa.
A noi, sembra importante mantenere alta la speranza o il sogno che si possano fare altre cose. Così ci è venuta l’idea, ancora da analizzare bene e che impegnerà altro tempo, di poter scegliere alcuni tra i bambini dell’ultima classe che la stessa comunità decida di mandare a vivere, a studiare, a lavorare in questo posto e fondare un complesso educativo.
L’intenzione dei maestri è di trovare quelli che possono insegnare a preparare i promotori per le elementari, trovare quelli che siano disponibili a restare lì per dare anche una preparazione extra in modo da arrivare a livello di scuola media, all’inizio anche solo a livello della prima classe.
E ogni anno si potrebbe avanzare di una classe...
La nostra idea è quella di creare un centro autosufficiente, affinché gli studenti si organizzino, coltivino la terra, abbiano i loro laboratori, per poter produrre cose diverse e poter così raccogliere fondi per mantenere la scuola. Quindi tentare di renderla autosufficiente mentre ancora riceviamo aiuti da fuori sapendo però che non sarà per sempre.
La gente del posto è molto entusiasmata, apprezzato molto l’idea e così ne abbiamo parlato anche con le autorità della comunità e hanno già idea di dove costruire tutto questo, inoltre pensano che ciò che si sta facendo possa essere un ottimo esempio per altre comunità. Infatti, membri di altre comunità, che hanno visto la scuola e gli spettacoli dei bambini, sono rimasti molto impressionati al punto che si sta diffondendo l’idea di questa esperienza in altre comunità che non hanno scuola, né maestri, oppure un maestro bilingue. Quindi, quello della scuola è un esempio molto forte.
Mercedes
C’è un’altra cosa importante che ho notato negli anni in cui ho lavorato nelle comunità. La comunità dipende dall’ingegnere, dal medico, dal maestro. Se il maestro non ha voglia d’insegnare, si ferma due giorni nella comunità e poi se ne va. Se al medico non regali galline, uova, tortillas, fagioli, non ti visita.
Dal gennaio del ‘94, quando le comunità si sono dichiarate in resistenza (e questo significa non accettare più nulla dal governo), accettano aiuto solo dalla società civile.
Da allora si è concretizzata sempre più l’idea della formazione di promotori.
Per esempio, in tutta questa zona ci sono promotori per la salute. Se la comunità è costretta a rifugiarsi in montagna, i promotori per la salute vanno con loro perché sono del villaggio e possono continuare ad essere i medici della comunità.
E’ arrivato ultimamente un aiuto per il progetto di agro-ecologia, ed è già partita la preparazione di promotori per l’agricoltura. Ci si chiede: "Cosa possiamo insegnare ai contadini visto che hanno più di 500 anni d’esperienza nel coltivare queste terre?".
In passato si è utilizzato troppo fertilizzante chimico e la terra è molto, molto stanca. La sfida è quella di lavorare con fertilizzante organico, cercare di elevare il livello di produzione di mais e fagioli, sperimentare altre coltivazioni che nella selva non sono conosciute, come grano, zucca, rapa, ecc. Cercare di vedere a mano a mano quello che può piacere loro, senza imporre nulla: la soia sarebbe la più appropriata per le sue qualità nutritive, ma, come è già accaduto dopo aver comprato tonnellate di soia per i rifugiati guatemaltechi, nessuno di loro la mangiò, perché ha un sapore terribile.
Per quanto riguarda i promotori per l’educazione, il problema è rappresentato dal fatto che sono molto giovani, quindi non ottengono rispetto da parte delle comunità e degli alunni; alcuni erano loro compagni di scuola ed ora se li ritrovano come maestri. Se questo promotore per l’educazione ricevesse invece una buona preparazione ed anche un diploma di certificazione, allora le cose cambierebbero.
L’importante è che le comunità abbiano i loro promotori per l’educazione e possibilmente bilingui perché, come dice anche Victor, i maestri del governo sono lì solo per ricevere uno stipendio: arrivano il martedì e se ne vanno il giovedì, o perché hanno la riunione col sindacato, o perché li devono pagare o perché devono compilare dei documenti; quindi i giorni effettivi di lavoro alla settimana sono tre, ma con tre giorni non c’è continuità educativa. Per questo Victor si è fermato per tutti i sei mesi senza uscire dalla comunità. Questo era l’accordo.
Questa nuova esperienza ha avuto una buona riuscita e lo si può costatare a San José, dove ora i bambini sono molto aperti; all’inizio non era così.
Nella comunità di Nuevo Guadalupe, dove è stato Victor, la situazione è più dura: star lontani dal proprio villaggio per più di un anno, aver perso tutto e pensare che l’esercito possa tornare in qualsiasi momento e doversene andare di nuovo in fretta. E’ tutto molto difficile.
Che didattica e metodologia si mettono in atto? Che cosa si conosce delle nuove tecniche educative?
Victor
Dipende da noi, da quanto siamo in grado di proporre e quanto possa venir accettato. I maestri della comunità sono molto giovani e aperti a tutto. Non siamo molto metodici: con i bambini si gioca davvero tanto, ed in ogni caso i maestri sono più aperti dei maestri che ho conosciuto in città. Qui i maestri sono più attivi e di conseguenza l’educazione è più attiva. Rispetto a Città del Messico qui si insegna con passione e quindi anche l’insegnamento è migliore.
Io ho sempre appoggiato l’idea che i maestri debbano essere della comunità, perché hanno una metodologia più adatta.
Molto importante è anche la questione della lingua. Si parla tojolabal, e quando arrivano i maestri, se sono di fuori, i bambini chiedono che s’insegni il tojolabal.
Quello che stiamo facendo è costruire un vocabolario tojolabal-spagnolo, è un bel lavoro e lo stiamo facendo un po’ alla volta. Hanno molta voglia di ricuperare la loro lingua e vogliono parlarla, ma non la sanno. Vanno dal nonno e: "Nonnino, mi hanno dato per compito trenta parole in tojolabal". "Siediti e dimmele". Il giorno seguente ognuno copia le sue parole tojolabal nel proprio vocabolario e tutti insieme stanno costruendo un vocabolario molto grande. Poi si divertono a parlare in tojolabal al maestro, a me, con parole che non avevano nel compito, ma che il nonno ha insegnato loro.
Quello che è più carente è l’aspetto informativo e materiale per far conoscere più cose ai maestri. Non è solo importante leggere e scrivere, esiste un livello di isolamento incomprensibile. Dobbiamo loro spiegare che esistono molte cose nel mondo che non immaginano. Questa è una parte molto importante dell’educazione: conoscere il mondo di fuori.
Credo che finora si sia lavorato molto bene, ma quello che ci manca è l’esperienza. Apprendono con molta facilità, perché sono persone giovani che hanno cambiato il loro modo di vivere e di insegnare in poco tempo, molto più di quanto noi abbiamo mai fatto nella nostra vita.
CAPITOLO QUARTO
Insegna ai tuoi bambini quello che noi
abbiamo insegnato ai nostri bambini:
che la Terra è la nostra madre.
Qualsiasi cosa accada alla Terra
accade ai figli della Terra.
Questo noi sappiamo:
la Terra non appartiene all'uomo,
l'uomo appartiene alla Terra.
(anonimo)
Due maestri raccontano
Comunità di Guadalupe Tepeyac in esilio
Nelle comunità del Chiapas, prima del 1994, i maestri mandati dal mal governo venivano a insegnare per tre o quattro giorni e poi ritornavano a casa o in città con il pretesto che i loro familiari erano ammalati; la verità era che se ne andavano a bere alcool. Ritornavano alla comunità alcuni giorni dopo con i postumi della sbornia per insegnare ai nostri figli.
Cominciammo anche a renderci conto che i maestri inviati dal governo non avevano un piano di sviluppo educativo per i nostri figli. Allora, nel 1994, quando ci siamo sollevati in armi avevamo già chiaro cosa avremmo fatto in seguito.
Quando l’Ezln venne allo scoperto, i maestri venivano di tanto in tanto solo per non perdere il posto, ma la comunità disse loro che non potevano più insegnare perché si pensava già di nominare degli altri maestri, dei maestri nostri.
Con il passar del tempo i maestri si sono ritirati definitivamente dalle comunità e il governo diceva che eravamo noi zapatisti a non voler maestri. La verità è che volevamo dei maestri sobri e non ubriachi; che esempio davano ai nostri figli?
Quello che vogliamo è un piano educativo per i nostri figli. I maestri del governo nascondono tutta la verità, mentre ciò che i maestri dovrebbero fare è insegnare ai nostri figli cose importanti. Ad esempio, per quanto riguarda la storia di Zapata, insegnano solo che ci fu un Zapata che lottò e combattè per i poveri e basta, tacendo il resto della verità: del perché alcuni uomini sono morti lottando per il loro popolo o per l’indipendenza.
Nel nostro villaggio ci eravamo organizzati per usare una parte della coltivazione di caffè per ottenere il denaro necessario a costruire le nostre scuole.
Noi, a Guadalupe Tepeyac, non ricevevamo alcun appoggio dal governo e tutto quello che stavamo costruendo era opera nostra. Avevamo finito di costruire la scuola e c’erano dei maestri nominati dalla comunità.
Ma con l’offensiva governativa del 9 febbraio 1995, siamo stati costretti ad abbandonare tutto. Ci hanno obbligato a fuggire dal nostro villaggio e siamo rimasti parecchio tempo esiliati sulle montagne e tutto il nostro sforzo è andato in fumo.
Ma non è questo che più ci importa: siamo sopravvissuti e tutto ciò che è materiale può essere recuperato.
Dopo essere rimasti molto tempo in esilio, ossia isolati in montagna, abbiamo cominciato ad organizzarci e stabilirci poi in qualche villaggio zapatista che ci ha concesso una parte di terreno dove edificare le nostre case; abbiamo così iniziato di nuovo a occuparci dell’educazione dei nostri figli.
La comunità di Guadalupe Tepeyac, in un’assemblea di uomini, donne e bambini, nominò dei nuovi maestri. A me è toccato in sorte di essere scelto e ho iniziato così a insegnare ai nostri figli.
Per prima cosa abbiamo contattato alcuni amici della città perché ci procurassero penne, quaderni e tutto il necessario per iniziare.
Ricevuto il materiale, eravamo ancora in una situazione molto dura in quanto non avevamo neppure un tetto per dar riparo agli alunni. Abbiamo dato inizio alle lezioni all’ombra degli alberi, chiedendo inoltre ai genitori dei bambini di costruire dei banchi provvisori.
In seguito abbiamo recuperato lamiere e altro materiale e la comunità si è messa all’opera per edificare le aule, alcune per la prescolarità altre per le sei classi elementari; poi siamo passati alla biblioteca.
Per la scelta del nome si è riunita l’assemblea di uomini, donne e bambini del villaggio a cui abbiamo chiesto di fare delle proposte. Si è deciso che fossero i bambini, gli alunni a scegliere il nome della loro scuola.
Il giorno seguente, a scuola, abbiamo chiesto ai bambini quale nome volessero dare alla scuola e la maggioranza ha scelto: "Scuola Elementare Prima Dichiarazione della Selva Lacandona".
La comunità ha conferito l’incarico di insegnare a tre maestre e cinque maestri; abbiamo distribuito il lavoro tra noi in base alla nostra preparazione.
Ci siamo resi conto però che quel poco che sapevamo non era sufficiente: alcuni avevano fatto solo la terza elementare, altri avevano frequentato solo il primo anno di scuola e pochi avevano completato tutte le classi. Chi aveva frequentato di più ero io, perché avevo avuto la possibilità di arrivare fino alla seconda media e per questo sono stato scelto come coordinatore della piccola scuola di Guadalupe Tepeyac in esilio.
Abbiamo allora convocato un’altra assemblea generale di uomini e donne cui abbiamo chiesto se volevano anche loro iniziare ad apprendere qualcosa, come le somme e le sottrazioni; si trattava in pratica di trasmettere quello che sapevamo noi. Le più pronte ad accettare e a partecipare alle lezioni sono state le donne. Due o tre ore ogni pomeriggio davamo loro lezioni a tre livelli.
Dato che tutto si svolgeva con impegno e entusiasmo, abbiamo pensato a cos’altro fare dopo le lezioni del pomeriggio e si è deciso per un laboratorio di ricamo. Anche in questo caso abbiamo ricevuto l’aiuto di altri compagni che ci hanno procurato filo, tela e aghi. Le donne sono arrivate numerose e si sono organizzate in gruppi iniziando a ricamare proprio le parole del nostro collettivo e dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Ben presto si sono unite anche le bambine.
Col tempo hanno imparato a ricamare molto bene e nel corso del Primo Incontro per l’Umanità e contro il Neoliberismo c’è stata la presentazione del laboratorio di ricamo di Guadalupe Tepeyac in esilio e si sono vendute le tovagliette a 50 e 80 pesos l’una. Questo denaro è stato distribuito in parti uguali e utilizzato per comprare fagioli, zucchero e riso, mentre il resto dei soldi è servito per costituire un fondo comune necessario per acquistare altro filo, tela e continuare così ad organizzare il laboratorio di ricamo.
Gli uomini non partecipavano alle lezioni del pomeriggio perché impegnati nel lavoro nei campi. Anche noi maestri lavoravamo nel campo come gli altri e quindi dovevamo fare un doppio sforzo.
Allora abbiamo convocato un’assemblea della comunità esprimendo il desiderio di lasciare il nostro incarico e poterci limitare a lavorare nei campi per sfamare i nostri figli. Si sono nominati allora dei maestri giovani che non avevano ancora una famiglia a carico e quanto accadde dopo lo racconterà la compagna...
* * *
Io sono una dei nuovi maestri e ho iniziato a insegnare qui a Guadalupe Tepeyac in esilio nel novembre del 1995. A tutt’oggi siamo in sei ad occuparci dell’educazione, tutti ex alunni di quei maestri del governo che ci raccontavano menzogne e che non ci insegnavano bene.
Allora il Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno dell’Ezln ha aperto un corso nell’Aguascalientes di La Realidad per dare la possibilità ai maestri scelti dalle comunità di frequentarlo per poter insegnare la verità ai bambini.
Ci siamo andati insieme a tutti i maestri provenienti dalle altre regioni. nell’Aguascaliente siamo organizzati in gruppi dove discutiamo di storia, matematica, lingue, ecologia e di altre cose, come, ad esempio, le richieste dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
Ci sono dei bravi maestri e ci piacciono molto le lezioni e il lavoro di gruppo. Si è deciso di restare nel Centro di Formazione per 20 giorni e nei 10 restanti torniamo nelle nostre comunità ad insegnare ai bambini tutto quello che abbiamo imparato, e tutto per un periodo di sei mesi.
Grazie all’appoggio ricevuto ora abbiamo la scuola "Prima Dichiarazione della Selva Lacandona" e speriamo un giorno di poter conoscere quelli che ci hanno aiutato.
CAPITOLO QUINTO
La semillita è cresciuta tanto
da diventare una ceiba…
Conversazione con Mercedes, coordinatrice generale di Enlace Civil, Marika e Analisa, formatrici di promotori d’educazione per le comunità.
San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, 9 ottobre 1997.
Intervista realizzata da Renza Salza del Comitato Chiapas di Torino
Mercedes
Nell’Aguascaliente di La Realidad si sta già lavorando. A settembre si è già compiuto il primo anno di lavoro di preparazione del progetto in educazione.
Le comunità che si riuniscono negli altri Aguascalientes stanno pensando come vogliono il loro progetto d’educazione; si stanno riunendo con quelli di Enlace Civil, con gli "assessori" riferendoci che scuola vogliono. Noi annotiamo quanto ci dicono e poi lo sottoponiamo nuovamente alla loro valutazione.
"No, modificate questo - ci dicono -, quest’altro non serve, quest’altro ancora lo vogliamo così, ecc.". Rielaboriamo il tutto e, quando corrisponde alle loro esigenze, si dà il via al progetto.
Con questo voglio solo sottolineare che noi non ci inventiamo i progetti, siamo lavoratori delle comunità, facciamo quello che le comunità ci dicono, che progetto vogliono, come lo vogliono, quando, dove... rispettiamo i loro tempi e le necessità delle comunità... per questo siamo un po’ diversi da tutte le altre O.N.G.
Quant’è il costo di tutto questo progetto?
Mercedes
Dato che il progetto è per le 5 Aguascalientes, puoi immaginarti di quanto denaro abbiamo bisogno. Adesso, a La Realidad, stiamo spendendo circa 10 pesos al giorno per 163 persone.
Il 90% di quelli che lavorano in Enlace Civil sono volontari, pochissime sono le persone che vengono pagate, più che di un vero stipendio si tratta di un contributo economico.
Noi compagni che lavoriamo qui in Enlace lo facciamo perché ci crediamo davvero, non stiamo qui perché c’è un posto di lavoro, ma per convinzione e così si lavora tutto il tempo che è necessario per poter sviluppare tutti questi progetti.
C’è una situazione di guerra e sembra invece che tutto proceda normalmente...
Mercedes
Certo, puoi vedere i ragazzi andare a scuola tutti i giorni, dal lunedì fino al mezzogiorno della domenica. Hanno solo il pomeriggio di riposo per occuparsi delle loro cose e lavarsi i panni. Si lavora venti giorni.
Nonostante la situazione, la gente lavora con grande energia; il problema è che quando l’esercito si mobilita, tutto si altera, tutti diventano nervosi, i bambini smettono d’andare a scuola, le donne non possono andare né a far legna né a prendere l’acqua, finché passa la crisi.
Per cui il grave problema che continuiamo ad avere qui in Chiapas è il grado di militarizzazione... continuano ad installare nuovi accampamenti, come quello nuovo, su Río Euseba, vicino a La Realidad.
E i progetti continuano, ho visto la nuova scuola di San José del Río.
Mercedes
Mancano solo le pareti e le porte delle aule ma dovrebbe essere terminata in pochi giorni. La vecchia struttura, che è ancora utilizzata come scuola, servirà come salone per le molteplici iniziative della comunità, per tenere le riunioni della scuola, della comunità, delle donne e continuerà ad essere anche sala da ballo, naturalmente!
Mi stavo dimenticando di dire, soprattutto per i compagni italiani, che la "semillita" è cresciuta tanto da diventare una "ceiba", così come ci hanno detto i compagni di Brescia. Semilla del Sur, l’ONG che ha iniziato questo progetto, è entrata a far parte di Enlace Civil, ma il progetto d’educazione continua a chiamarsi "Semillita del Sol", così come avevano scelto nel 1995 i bambini di San José del Río e il loro amico Renato Tanfoglio.
Marika
Avendo già lavorato con i bambini di San José del Río, conoscevamo la situazione. Lì la gente era rimasta entusiasta del nostro modo di fare scuola, però parlando con la comunità ci siamo resi conto che era difficile dare continuità all’insegnamento con dei maestri che arrivavano sempre da fuori, per cui le stesse comunità sono giunte alla conclusione che è importante avere dei maestri propri e che è necessario fare una scuola dove gli alunni abbiano una preparazione tale per poter poi insegnare nelle proprie comunità.
Analisa
Chiedevano inoltre di decidere loro stessi sul tipo di educazione, perché l’insegnamento fosse realmente utile. Importante è anche la lingua, e quindi nelle scuole vogliono un insegnamento in tzotzil, tzeltal, tojolobal... e nello spagnolo della regione, che è diverso da quello di Città del Messico.
Come è nato il vostro gruppo di maestre?
Marika
Ci hanno detto: "Andrete a lavorare con ragazzi di differenti comunità che si riuniranno in una scuola, in una specie di centro di formazione, dove per un periodo anche voi rimarrete"; quindi abbiamo formato un gruppo che discuteva e si consultava con le comunità su quale tipo d’educazione poteva interessare, partendo dall’idea che più avanti non sarebbero più stati necessari maestri esterni. Il gruppo si è formato a Città del Messico, con docenti, con persone che avevano già lavorato in comunità e conoscevano la situazione indigena. Tutti insieme abbiamo iniziato a pensare come risolvere il problema creatosi per la mancanza dei maestri della S.E.P. (Segreteria di Educazione Pubblica).
Analisa
C’era come un dialogo con le comunità che ci consultavano e ci chiedevano che cosa si potesse fare.
Marika
Curioso è che nessuna di noi era maestra... e per questo abbiamo avuto molti problemi con i cosiddetti maestri riguardo al metodo d’insegnamento; questi hanno un’idea, una sola, sul modo di insegnare e di educare e invece ce ne sono molti...
Analisa
Di riunioni ne abbiamo fatte tantissime. Gli ultimi tre-quattro mesi li abbiamo trascorsi in riunioni quotidiane, perché ci rendevamo conto che la nostra preparazione non era sufficiente e continua ad essere insufficiente. Discutevamo molto sulla questione generale, su che cosa focalizzare il lavoro educativo, come recuperare il sapere locale, sulla delicatezza della proposta di contenuti, come parlarne con loro, come elaborare un programma congiunto, in pratica come lavorare avendo loro come interlocutori;è difficile, sarebbe stato molto più facile arrivare lì e impartire una lezione.
Tutti quelli che hanno partecipato a questo gruppo di formazione sono poi andati a insegnare?
Marika
No, il gruppo dei consiglieri è rimasto a Città del Messico a preparare nuovi maestri per mantenere la continuità passato il nostro periodo.
Il gruppo di docenti continua ad aiutarci, c’è costante comunicazione con loro e lavoriamo insieme.
Quante maestre eravate?
Marika
Cinque, solo cinque per 160 ragazzi dai 12 ai 20 anni, ma con l’aiuto di volontari ce la siamo cavata bene!
Come sono stati scelti questi ragazzi dalle comunità? Lo sapete?
Analisa
Sì, più o meno. Ci sono stati vari criteri: che sapessero lo spagnolo, che sapessero leggere e scrivere, questo come base. Poi è venuta la gente che voleva venire, chi ha potuto venire perché la comunità li avrebbe aiutati e così via. Su 160 ragazzi che vengono da 120 comunità al momento ci sono solo 20 donne.
Marika
Abbiamo iniziato a lavorare in gruppi ed ha funzionato molto bene perché alcuni di loro hanno iniziato ad assumere il ruolo di maestri e questo ci ha aiutato molto.
Ci occupiamo di matematica, ecosistema, storia ecc. Nella scuola della S.E.P. la lingua usata è solo lo spagnolo, mentre qui si parla la loro lingua: tzeltal, tzotzil o tojolabal.
E voi come fate? Conoscete le lingue maya?
Analisa
No. Loro lavorano in gruppo parlando la loro lingua; pensano, parlano, discutono, scrivono e tirano le conclusioni nella loro lingua e poi ce le traducono.
Marika
Un’altra cosa importante è che cerchiamo di articolare tutti i contenuti attorno alle loro rivendicazioni: tetto, terra, alimentazione, salute, lavoro, educazione, ecc., come punti di partenza di tutto quello che si fa.
Quindi abbiamo uno spazio in cui discutiamo del significato di queste rivendicazioni; quando si parla della terra, per esempio studiando storia, si guarda alle lotte fatte dai popoli per il diritto alla terra.
Quindi non utilizzate libri di testo? Materiale didattico già predisposto?
Analisa
No, stiamo cercando di elaborare del materiale che esca da loro, dalla loro realtà. Ci sono però alcuni libri della S.E.P. e li teniamo in biblioteca; a volte vengono consultati, ma ci dicono subito che quello che c’è scritto non è vero, o non è sufficiente. È importante che si rendano conto di questo: che la parola stampata non sempre dice la verità.
Non state insegnando a fare i maestri?
Marika
Si può essere maestri in modo più ampio. Nelle comunità si trasmettono continuamente conoscenze, sono abituati a trasmetterle con altri meccanismi, assolutamente diversi di quelli che si utilizzano in una scuola del governo. Imparano molte cose osservando e facendo, al di fuori della scuola.
Ci sono molti modi per trasmettere conoscenze, che possono essere diversi dalla situazione di un maestro che di fronte ad un gruppo di bambini impartisce una lezione... quindi credo sia importante aprire nuove possibilità, in modo che loro possano man mano stabilire cos’è importante e cosa non lo è.
Il fatto stesso che stanno lavorando in gruppo è un tipo di metodologia che possono poi utilizzare?
Analisa
Sì, non solo in gruppo ma collettivamente, che è il contrario di individualmente. Ci sono molte idee, anche perché la situazione nelle varie comunità è diversa. Ad esempio, ci possono essere bambini di diversa età e un solo maestro.
Allora si formano gruppi non divisi per età, ma in cui il più grande abbia un suo ruolo nel gruppo e il piccolo un altro, perché non c’è un’unica conoscenza, qualcuno che sa e qualcun altro che apprende; è un altro modo di lavorare. Nei primi giorni, quando non avevamo ancora attività nel pomeriggio, alcuni si intrattenevano, come se avessero una necessità impellente di conoscere, di sapere, di ascoltare altre cose; interessa loro che tu parli, di tutto.
Ad esempio, per quanto riguarda la matematica, si sa che in città è una materia odiata, qui invece è un successo, perché è una cosa reale di tutti i giorni, molto importante per loro, e così ti ritrovi il salone colmo di gente che vuole lezioni supplementari di matematica.
E come insegnate matematica? Le quattro operazioni? I problemi?
Analisa
Si parte sempre da problemi concreti da risolvere. Ad esempio, si applica la geometria riguardo agli appezzamenti di terra che rivendicano; si insegna a ricavare il perimetro di un terreno, la superficie.
Per poter seminare occorre sapere moltiplicare e sommare: per calcolare quanti semi servono per un campo arato, rispetto ai solchi... Nella costruzione c’è da calcolare il perimetro di una casa, quante lamiere servono per coprire il tetto rispetto alla superficie. Si parte dalla realtà.
E poi le misure sono molto varie: quella che va dal pollice all’indice aperto, un’altra la "mazorca" (la pannocchia), la "corda" o la "cordaccia" che misura 23 metri (le loro misure tradizionali). Ad esempio, abbiamo misurato il perimetro e calcolato la superficie del locale dove ci troviamo con la corda... hanno i loro metodi di misurazione, ma devono conoscere altri metodi, ed in effetti lo sanno perché quando devono comprare o vendere, devono sapere le misure di fuori e così si lavora con le equivalenze. Alla fine anche noi stiamo imparando!
Cosa state apprendendo?
Marika
Di tutto. Conoscenze riguardanti la natura, la comunicazione, l’organizzazione, il collettivo: una cosa che in città non è assolutamente possibile. E’ un po’ come recuperare di colpo la dimensione umana delle cose, e questo per noi è molto importante.
Analisa
Il nostro ruolo non è solo quello di insegnare, quanto quello di dimostrare loro tutto quello che sanno, perché sono convinti di non sapere niente e invece man mano si rendono conto di sapere molte cose e ciò rappresenta un buon punto di partenza.
Quale è la difficoltà più grande che avete incontrato?
Marika
All’inizio la difficoltà più grossa è stata la comunicazione. Sembrava che non ci fossero codici in comune. Magari tu parli di una certa cosa, ma in realtà non è per nulla chiaro di cosa stai parlando, non c’è comunicazione. E questo è un grosso sforzo... così come stabilire un rapporto di fiducia, perché è passata molta gente dalle comunità promettendo tanto e poi è sparita, per cui c’è una sfiducia generalizzata. Devi guadagnarti la loro fiducia e questo non è stato facile.
Concretamente come’è organizzato questo corso di 6 mesi?
Analisa
Si lavora 20 giorni al mese, gli altri 10 si torna nelle comunità, con l’obiettivo di mettere in pratica ciò che si è imparato e per riprendere i contatti, per non perdere le proprie radici, per ritornare nel proprio mondo. E’ tutto molto variabile, a volte ci sono meno giorni di scuola perché c’è festa, dipende molto dalla situazione. In questi 10 giorni noi invece torniamo a San Cristóbal per riorganizzare e preparare il lavoro del mese successivo.
Dato che il lavoro è incentrato sulle rivendicazioni di base e il tempo è suddiviso in 6 periodi di 20 giorni, in ogni periodo analizziamo una rivendicazione.
Quindi abbiamo tre settimane di lavoro su di un tema e il primo giorno facciamo un lavoro in generale sulla rivendicazione.Ad esempio, il lunedì discutiamo tutto il mattino sulla rivendicazione, poi c’è il pranzo, un attimo di riposo per avere anche il tempo di lavare le proprie cose e per adempiere ai propri incarichi, poi tutti i pomeriggi ci sono laboratori. Ce ne sono tanti: il laboratorio di teatro, il laboratorio di ortografia, di matematica, di materiale didattico, del giornale murale, ce n’era uno anche di Tai Chi e, dimenticavo, quello di falegnameria.
Vengono anche persone da fuori, per aiutarci nei laboratori. E così va avanti tutta la settimana tranne il sabato, dove c’è sempre uno spazio di riflessione sull’educazione e, dopo le discussioni, il gioco, il calcio, ecc.
Marika
L’orario giornaliero: dalle 7 alle 9 una lezione e dalle 10 e mezza alle 13 un’altra lezione. I laboratori sono dalle 17 alle 19 del pomeriggio; nell’intervallo pomeridiano c’è sempre molto da fare perché ci sono compiti a cui bisogna assolvere e siamo suddivisi in commissioni. La nostra è una comunità "inventata" di quasi duecento persone. Quindi bisogna andare a far legna, pulire i bagni, occuparsi dell’orto, cucinare... è una scuola autogestita. Non è che facciamo da mangiare, anche se si collabora, perché ci sono gruppi di donne delle varie comunità che fanno i turni per venire a cucinare e sono donne delle stesse comunità da cui vengono i ragazzi: a volte c’è proprio la mamma... ci sono 6 donne a turno che ci fanno da mangiare.
Analisa
Siamo all’inizio, l’idea è quella di essere autosufficienti. Infatti l’orto è solo un inizio di autofinanziamento, con la produzione non solo per autosostenersi ma anche da vendere, i pomodori, per esempio sono già stati venduti. E questo vuol essere un esempio anche per le altre piccole scuole, che hanno un piccolo appezzamento di caffè, un orto o un campo.
E pensate che sei mesi bastino per prepararli?
Marika
Abbiamo iniziato per ora in questo modo, ma ne abbiamo parlato anche con loro e ci hanno detto di aver bisogno di più tempo. In più il loro numero è sempre più in crescita.
Il primo mese ne sono arrivati150, il secondo 160 e ora che stiamo iniziando il terzo quanti saranno? 170 o più? Qualche partecipante del primo mese non ha potuto ritornare per problemi familiari, la comunità allora ha nominato un sostituto. Altre comunità, sentendo che il progetto stava funzionando, hanno mandato il loro maestro, e altri che erano venuti da soli, tornando nella comunità hanno chiesto di inviarne altri.
Analisa, Marika
Infine vogliamo riferirti uno slogan che i "maestri" hanno inventato: "Al neoliberalismo lo quieren desneoliberalizar, el que lo desneoliberaza, buen desneolibizador será", con diritti riservati: Promotori d’Educazione del Centro di Formazione di La Realidad.
CAPITOLO SESTO
Ve lo racconto come me l’hanno raccontato.
Ci creda chi ci vuol credere.
Abbiamo raccolto queste storie per farne un libro.
Tutte queste storie le hanno raccontate i nostri nonni
e i nostri genitori. Abbiamo chiesto a chi le sapeva,
ai vecchietti e anche a chi tra di noi le ricordava.
Questa raccolta è per i bambini, perché conoscano le storie
raccontate nella loro comunità e perché vedano
che si può fare un libro con quanto è raccontato qui.
Queste storie sono fatte dalle nostre stesse parole.
Per questo i bambini le capiranno, perché sono parole
che usiamo qui nella comunità.
Non stiamo raccogliendo invano queste esperienze,
esperienze vissute dove viviamo.
Stiamo conservando così la nostra cultura.
(Promotori d’educazione della Comunità di San José del Río,
municipio di Las Margaritas, Selva Lacandona)
STORIE DELLA COMUNITA’
Queste storie sono state raccontate dalle comunità di San José e Rancho Nuevo e scritte dai promotori di educazione nell’aprile del 1997.
IL CANE RABBIOSO
I miei genitori raccontano che, quando io ero molto piccolo, lavoravano da un padrone che si chiamava Nicolas.
Questo signore era molto buono con i miei genitori ma accadeva sempre che quando il mio papà passeggiava nei pressi della sua casa, un cane passava sempre per il cortile di questo signore; quando invece il mio papà c’era, il cane non si faceva vedere perché il mio papà non ne aveva paura.
Accadde una volta che il mio papà era nella cucina a mangiare e il cane, non vedendolo, passò lo stesso.
A quel punto il mio papà prese il rifle che gli era costato 500 pesos e gli sparò.
Il povero cane si rotolava dal dolore ma rapido si alzò in piedi e prese a correre sù per il monte con il mio papà dietro.
Ad un certo punto il cane si trasformò in un animale bianco.
Mio papà gli sparò di nuovo ma il cane scomparve.
IL SIGNORE PAUROSO
Questa è una storia.
Una volta un signore andò in una "ranchería" per una commissione.
Sua suocera era appena morta e lui doveva passare proprio per il cimitero, ma prima di attraversarlo mandò giù un buon sorso di liquore e si disse: "Adesso sì che ci passo, in nome di Dio! Adesso ci vado!".
Montò a cavallo e cammina e cammina, non si rese conto di essersi incastrato tra alcuni rami perché era assorto nei suoi pensieri, mentre il cavallo aveva continuato per un’altra strada.
Ad un certo punto se ne accorse e lottò per liberarsi e scendere, ma da tanto lottare cadde e continuò il suo cammino a piedi in cerca del cavallo.
Era già molto vicino al cimitero quando vide il suo cavallo che pascolava proprio dove era sepolta sua suocera.
Con molta paura entrò per riprendere il cavallo e, quando riuscì a portarlo fuori, montò in sella e scappò via per lo spavento.
I DUE SIGNORI STREGATI
Una volta due signori andarono a passeggiare in montagna.
Durante il cammino scorsero una luce; si fermarono, e presero a camminare in direzione della luce fino ad avvicinarsi a quella lucina e lasciarono un palo di legno come segnale perché non avevano con sé attrezzi per dissotterrarla.
Tornarono quindi alle loro case per prendere gli attrezzi e ritornarono sul luogo della luce.
Scavarono quasi tre metri in profondità fino a trovare una grotta: continuarono a scavare senza trovare nulla... quando, ad un certo punto, videro una grande pentola.
- Eccola qua la fortuna, compare! Prendiamola, compare! Dai, compare!
Però, quando uno di loro cercò di sollevare la pentola, non riuscì neppure a muoverla.
- Avvicinatevi, compare, aiutatemi! In due riusciremo a sollevarla facilmente.
- Va bene, compare, adesso arrivo.
Tra tutti e due riuscirono a caricare la pentola e a riprendere la via del ritorno. Però, non riuscivano a trovare l’uscita della grotta.
Uno di loro disse:
- Guarda, compare, lasciamo questa pentola dove l’abbiamo trovata perché qui c’è di mezzo il diavolo. Andiamo!
Tornarono insieme allo stesso punto dove l’avevano trovata e vi posero la pentola.
Al ritorno ritrovarono facilmente l’uscita, dato che la porta della grotta era aperta e i due compari tornarono facilmente all’aperto.
Il Cavaliere
C’era una volta un cavaliere senza paura che cavalcava nei pressi del fiume.
Raccontano che un giorno vide una luce ai piedi di un tronco d’albero proprio come se ci fosse un falò alle radici e, non avendo modo di cavarla, continuò per il suo cammino.
Tutte le volte che passava di là accadeva la stessa cosa, fino a che un giorno si decise a scavare.
Portò i suoi attrezzi e si mise al lavoro.
Aveva scavato fino a tre metri di profondità quando trovò un forziere tutto arrugginito.
Aprì il coperchio e vide che usciva del fuoco che si trasformò subito in oro.
Ritornò verso casa ma era come muto, nessuno lo sentiva, nessuno lo vedeva perché si era convertito in uno spirito e nessuno lo poteva vedere.
Raccontano che ogni volta che si guarda verso il fiume si scorge come un fantasma bianco che cavalca per il fiume e raccontano anche che del cavaliere non restò traccia.
L’Asino e il Sombreron
Un tempo un signore del quartiere era ubriaco e, in procinto di rientrare a casa, salutò i compari e disse:
- A domani amici, io vado a casa.
Sul cammino di casa si trovò davanti un torrente in piena per le recenti piogge. Era notte e davanti al torrente sentì che gli si rizzavano i capelli e gli si raggelava il sangue e pensò quindi di tornare indietro.
Ma era ubriaco e allora decise di riprovare ma, davanti al torrente, gli si rizzarono i capelli e gli si raggelò il sangue e ancora una volta tornò indietro.
Quattro volte ripeté la scena ma, alla quarta volta vide un asino che aveva il muso tappato da un panno rosso.
Il signore ubriaco si avvicinò al torrente ma l’asino iniziò a scalpitare dritto su due zampe e il signore dallo spavento bevve un altro sorso dalla bottiglia e disse all’asino:
- Attraverserò con questo bastone in mano e se mi darai ancora fastidio ti darò una bastonata proprio sul muso!
L’asino scomparve proprio quando il signore stava cercando un guado del torrente che era sempre più gonfio d’acqua.
Quando l’ubriaco si trovava già a metà del torrente scorse l’asino ma vide che questa volta veniva montato da un cavaliere. Guardandolo bene il signore si accorse che si trattava del Sombreron perché portava un cappello grandissimo e quando gli parlò, egli rispose:
- Per questa volta passi, ma se piove di nuovo e il torrente si ingrossa, fammi il favore di ripassarci sobrio così ti incontro di nuovo e ti porto dove vivo; non pensare però di passarla male, perché ti darò un regalo.
Fine e colorin colorato questo racconto è terminato.
La Vecchietta
C’erano una volta due vecchietti.
La vecchietta sognava di avere molte uova.
Un giorno pensò di metterle insieme e di andarle a vendere in città.
Una volta riunite tutte le uova si incamminò per andare a venderle.
Ma c’erano tre sentieri: uno che portava al campo di mais, l’altro alla piantagione di caffè e l’ultimo in città.
Prima imboccò quello del campo, ma si accorse che non era quello giusto e tornò indietro.
Allora la vecchietta prese il sentiero della piantagione e arrivò vicino ad un albero.
Lasciò il cesto delle uova sotto l’albero e andò a vedere se c’era il sentiero che portava in città. Accorgendosi che non era quello giusto la vecchietta tornò sui suoi passi.
Quando ripassò dall’albero dove aveva lasciato il cesto delle uova sentì il ruggito di un giaguaro e non avendo dove scappare, iniziò a salire sull’albero.
Il giaguaro arrivò, rovesciò il cesto delle uova e iniziò ad arrampicarsi sull’albero.
Vide la vecchietta spaventata che era già arrivata a metà del tronco ma, un grosso serpente dalla cima dell’albero, le impediva di salire.
Come fece la vecchietta a scappare dai due animali?
Semplice: era un sogno, lei si svegliò e non c’era più nulla.
Le Scimmie e il Sombreron
Racconta la gente che tanto tempo fa, in una comunità della regione dove noi viviamo qui nella Selva, non si poteva camminare da soli perché si veniva spaventati da alcuni animali.
Si vedevano delle ombre grandi e nere, brutte a vedersi e così la gente si spaventava molto quando andavano da soli nelle piantagioni di caffè dove c’erano dei grandi alberi di arance.
Sentivano le grida delle scimmie che si mangiavano le arance e quando qualcuno passava di là veniva colpito dalle arance tirate dalle scimmie.
Nessuno poteva andarci da solo e bisognava farlo almeno in due o tre per non essere spaventati.
Molti pensavano che si trattasse di una stregonerìa e che lì c’era il diavolo Sombreron.
CAPITOLO SETTIMO
Non morirà il fiore della parola.
Potrà morire il volto nascosto di chi oggi la nomina,
ma la parola che è venuta dal fondo della storia e della terra
non potrà più essere strappata dalla superbia del potere.
Noi siamo nati dalla notte, in lei viviamo. Moriremo in lei.
Ma domani per i più ci sarà la luce,
per tutti quelli che piangono la notte, per tutti quelli
a cui si nega il giorno, per chi accoglie la morte come un regalo.
Per quelli cui è proibita la vita.
Per tutti luce. Per tutti tutto. Per noi il dolore e l’angoscia,
per noi l’allegra ribellione, per noi il futuro negato,
per noi la dignità insorta. Per noi niente.
Dalla Quarta Dichiarazione della Selva Lacandona.
Ai bambini messicani e di tutto il mondo
Giornata del bambino, 12 maggio
30 aprile 1994
Bambini e bambine,
abbiamo chiesto al Subcomandante insorto Marcos di cercare parole che voi possiate intendere affinché possiate conoscere il nostro pensiero.
Noi siamo i bambini zapatisti. Siamo indigeni del Chiapas. Siamo poveri. Siamo i non-nati.
Per il nostro governo, per i nostri compatrioti, per le associazioni dei diritti infantili, per l’Onu, per i giornali, per la televisione, per la radio, per i bilanci governativi, per il Tlc, per il mondo intero, noi non esistevamo prima del 1° gennaio 1994. Mai siamo esistiti, visto che nessuno ha preso nota della nostra nascita, né della nostra morte. La cosa peggiore è che neppure per voi, bimbi e bimbe del Messico e di tutto il mondo, esistevamo prima di questo inizio d’anno.
Noi non conoscevamo né dolci, né giocattoli, né medicine, né ospedali, né scuole, né libri, né latte, né carne, né verdura, né uova e, gran parte di noi, nemmeno i vestiti. Adesso, in mezzo a questa guerra, delle brave persone (che non sono del governo) ci hanno inviato cose per curarci, per vestirci, per mangiare e per giocare. I nostri padri e i nostri fratelli maggiori sono dovuti morire lottando affinché noi conoscessimo queste cose. Alcuni, ci dicono, sono morti combattendo. Noi non conoscevamo quel modo di morire. Conoscevamo la morte per febbre, per diarrea, per malattie senza nome. Ma non conoscevamo la morte per combattimento. Altri dei nostri parenti non sono tornati, ma non sono morti. Ci raccontano che sono rimasti su quella montagna, grande e azzurra, che si vede anche di notte. Sono guerrieri, dicono. Alcune volte li abbiamo rivisti. Sono vestiti in maniera diversa e hanno dei ferri tra le mani. La faccia è la stessa, ma paiono più belli: adesso ridono spesso. Quando ci vedono iniziano a ridere, e ridono, anche noi ridiamo, e nessuno si chiede il perché. Dopo se ne vanno. Chiediamo agli adulti rimasti perché ridono i nostri che scendono dalle montagne, ci rispondono che è per la guerra.
Ci chiediamo se in guerra si vince qualcosa: pare di sì, altrimenti perché tutto quel ridere? Ci rispondono che essi non vincono niente, ma che noi, i bambini di queste terre, finiremo per guadagnarci. Abbiamo visto che cosa ci ha portato il governo con la guerra, abbiamo visto gli aerei e gli elicotteri e abbiamo visto che sparavano qui vicino, e là sulla montagna dove sono i nostri. Abbiamo avuto un po’ di paura, ma non molta, perché già prima ci avevano insegnato dove correre e dove nasconderci per metterci in salvo. Ci hanno insegnato anche a salutare la bandiera messicana, a cantare l’inno nazionale, a marciare, e qualcuno non sa marciare bene. Abbiamo visto che nell’altro villaggio alcuni non marciano a tempo. I nostri genitori, invece, marciano a tempo e anche noi lo vogliamo fare.
Noi abbiamo 10, 12, 8, 5, 9, 5, 11 e 6 anni. I genitori ci dicono che "ce l’abbiamo fatta", perché quando si ha meno di 5 anni si muore con maggiore facilità. Da che ci ricordiamo il governo non è mai venuto a farci visita. La prima volta è stato dopo il primo gennaio di quest’anno ed è venuto con aerei, elicotteri, proiettili, carriarmati e soldati. E’ stato così che abbiamo conosciuto il volto del governo, noi bambini e bambine del Messico e di tutto il mondo. Prima non lo conoscevamo e nessuno veniva a fare foto o a chiederci se mangiavamo, studiavamo, o se avevamo giocattoli. I grandi, un giorno, si sono riuniti e si sono messi a parlare e parlare. Qua si è grandi a 12 anni, perché a quest’età già si ragiona, si è in grado di caricarsi un tercio di legna, di lavorare la terra, di seminare, di macinare il mais, di badare ai più piccoli. I grandi si sono riuniti e hanno pensato alla guerra. Tutti hanno parlato della paura e della morte. Tutti hanno taciuto. Tutti hanno parlato di noi. Tutti hanno riso. Ognuno ha detto la sua e la maggioranza ha deciso che si iniziasse la guerra, e a noi hanno insegnato come non morire in guerra. Abbiamo chiesto il perché, e loro ci hanno detto che si battevano affinché la morte fosse solo cosa da grandi e non da bambini. Questo ci hanno insegnato: a non morire. A combattere affinché non muoiano i bambini come noi.
Non sappiamo se è sbagliato imparare a proteggersi e a difendersi in guerra, non sappiamo se è sbagliato imparare a non morire. Certi dicono che non si deve insegnare la violenza ai bambini, che dobbiamo vivere come i bambini della città, che però imparano il karatè e hanno pistole giocattolo, aerei ed elicotteri a batteria con le lucine che si accendono; ma qui la terra trema e i grandi tremano e non sappiamo se lì da voi, dove con quei giocattoli giocate alla guerra, la terra non trema, mentre qui, dove non giochiamo, invece trema. E allora impariamo a non morire. Ma forse è sbagliato e sarebbe meglio morire senza imparare a non morire.
Abbiamo visto le foto. Abbiamo detto che c’è qualcuno che non marcia bene e lì si vede chiaro che Beto marcia tutto storto. Abbiamo chiesto al sup se le foto spiegano che Beto marcia così perché è malato ai polmoni e prossimo a morire, ma il sup dice che la foto non lo dice. Abbiamo allora deciso di scrivervi, bambini e bambine del Messico e di tutto il mondo, per spiegarvi perché il Beto marcia curvo, e non dovete pensare che non marcia bene perché non vuole. E’ perché è malato di polmoni e presto morirà, e comunque ha voluto marciare. E noi vogliamo che voi non pensiate male di noi perché non sappiamo marciare. Vogliamo che Beto non muoia e che tutti possiamo marciare bene, perché stiamo imparando a non morire. E Beto è infuriato perché le foto non lo lasciano parlare, e non è una bella cosa, perché la foto va e parla agli altri che la vedono, ma Beto, che è quello della foto, non può andare dietro alla foto e spiegare perché non marcia impettito e la foto va da da tante parti, mentre Beto resta qui, col dolore nel petto, morendo, e la foto non viene a chiedergli perché marcia storto, e il Beto è sempre più infuriato e il petto non gli fa più male perché sta morendo, ma per la collera, dice. E Beto va dal sup perché è arrabbiato, e quando si arrabbia inizia a tirare pietre e il sup si è nascosto dietro un tavolo e Beto non trova nessuna pietra, e il sup gli dice di chiudersi la cerniera dei pantaloni, di non far tanta scena, e il sup gli racconta della foto che parla per Beto, ma impedisce a Beto di parlare. Allora il sup si mette a pensare, e racconta a Beto la storia di un uomo che, lassù a Città del Messico, in un posto che si chiama "Alameda", faceva le foto ai bimbi e poi andava in giro a venderle, e poi quell’uomo è partito per andare a marciare a tempo con altri uomini, molti anni fa, dice il sup, e ora è già morto; e non ci ricordiamo se il sup ha raccontato se l’uomo ha potuto vedere, o no, le sue foto, e il Beto ha chiesto al sup se le foto di quell’uomo lasciavano parlare i bambini fotografati per spiegare perché marciano curvi, e il sup dice che non sa e magari era proprio quel che voleva scoprire quell’uomo quando è andato a marciare assieme agli altri, e la storia finisce perché il Beto ha dimenticato le foto e il dolore al petto ed ha rubato la pipa al sup ed è scappato, e il sup gli è corso dietro, ma non lo raggiungerà mai, con tutto quel ferro che Beto ha in corpo, e inoltre è già salito su un albero e il sup dice che va ha prendere la motosega; "Bene - dice Beto - tanto non c’è benzina", e allora il sup ci manda a prendere i machetes; tutti andiamo a prendere i machetes per abbattere l’albero. Allora Beto ha paura e scende; e restituisce la pipa al sup e ci mettiamo tutti a vedere le foto, e ci rendiamo conto che è vero: le foto non ci lasciano parlare e non ci chiedono perché non marciamo bene e non dicono che ciò che vogliamo è imparare a non morire; il Beto e il sup si sono messi poi a vedere le foto delle donne nude e a ridere.
Il sup ci ha detto che oggi, in Messico, è il giorno del bambino e così vogliamo fare gli auguri a tutti i bambini e tutte le bambine affinché lo passino giocando felici. Noi non possiamo giocare molto perché dobbiamo imparare a non morire. E il sup ci ha detto che oggi verranno delle persone buone che ci porteranno molte vesciche per giocare e, dice il sup, che in città non si chiamano "vesciche", ma "palloncini". Il Beto dice che le vesciche le ha mandate suo zio per farci giocare e noi gli abbiamo detto che suo zio è morto in Ocosingo e il Beto dice che per questo le vesciche le ha mandate suo zio per farci giocare.
E mentre stiamo andando a giocare con le vesciche, il sup ci dice che dobbiamo firmare questa lettera che vi inviamo, bambini e bambine del Messico e di tutto il mondo, e noi gli diciamo che la firmi lui perché sappiamo che è una bugia quando ci dice che ha 25 anni, e sappiamo benissimo che è un bambino come noi, altrimenti che cosa ci farebbe qui con noi? Il sup dice che quando sarà grande, vuole essere di nuovo un bambino.
Bene, bambini e bambine del Messico e del mondo intero, è tutto; vi vogliamo dire che il sup parla male il dialetto e il Beto lo ha preso in giro perché il sup voleva dire "occhio" e gli è venuto fuori "culo" e il sup ha riso di Beto, ma non sappiamo perché ride il sup quando ci incontra e se gli rubiamo la pipa non si arrabbia, e vi vogliamo anche dire che il sup non sa gonfiare le vesciche perché ne ha già fatte scoppiare tre e il Beto lo prende in giro e il sup dice che vuole mettere il suo passamontagna a una vescica... per andarsene in volo, dice il sup.
Ciao.
Bimbi zapatisti. Ezln.
Montagne del Sud-est messicano, Chiapas
Il Messico che vogliono gli zapatisti
17 luglio 1994
... Allo spuntare dell’anno, un esercito formato da indigeni dichiara guerra al governo, lotta per delle "utopie", ossia per la democrazia, la libertà e la giustizia nel Messico che vogliamo. Sul muro di un palazzo municipale in Chiapas, palazzo di caciques, c’è una scritta "Ya basta!", in rosso spento, di sangue rappreso. Gli impiegati cercano inutilmente di cancellarla. "Solo abbattendo il muro", dicono e si dicono gli impiegati. Qualcuno, da qualche parte del paese, inizia a capire... nel Messico che vogliamo.
Heriberto indossa solo un paliacate rosso. Ha tre anni, il fazzoletto gli tappa l’ombelico e il ditino del sesso. Quando Heriberto cade nel fango, si gira rapido a vedere se lo ha visto qualcuno e ride, se non c’è nessuno si rialza e va al torrente a lavarsi, a sua madre dirà che si è bagnato perché è andato a pescare. Se c’è qualcuno che lo prende in giro, va a prendere un machete grande quanto lui e, dopo averlo impugnato, carica tutto quanto è a portata di mano. Heriberto non piange per la caduta, ma per la burla: per quello piange Heriberto.
Nel Messico che vogliamo, Heriberto avrà scarpe per il fango, pantaloni per le sbucciature, una camicia affinché non gli scappino le speranze che gli si annidano in petto, il paliacate rosso sarà solo un paliacate rosso, e non un simbolo di ribellione. Avrà lo stomaco soddisfatto e sano, e la sua mente sarà affamata di conoscenza. Piangere e ridere, solo quello, Heriberto non dovrà diventare adulto troppo presto.
Un mattino, dopo una notte lunga e piena di incubi e commovente dolore, giungerà l’alba del Messico che vogliamo. I messicani si sveglieranno con parole che non vogliono più tacere, senza più una maschera per rivestire le proprie pene. Con nei piedi un’inquieta voglia di ballare e le mani che prudono dalla voglia di stringere altre mani amiche. Quel giorno, non ci sarà più da vergognarsi di essere messicani. Quel giorno, il Messico che vogliamo sarà una realtà e non un semplice argomento di conversazione tra sogni e utopie.
Dalle montagne del Sud-est,
Subcomandante Insurgente Marcos
da: "Il Messico che vogliono gli zapatisti",
Comunicato del 17 luglio 1994
CAPITOLO OTTAVO
La repressione nazionale è la premessa necessaria per la globalizzazione che il neoliberismo impone.
Ogni paese, ogni città, ogni campagna, ogni casa, ogni persona,
tutto è un campo di battaglia più o meno grande.
Da un lato c’è il neoliberismo, con tutto il suo potere repressivo
e il suo macchinario di morte; dall’altro c’è l’essere umano.
ACCAMPAMENTI CIVILI PER LA PACE
Il 9 febbraio del 1995 il Presidente del Messico Ernesto Zedillo svelava in televisione la presunta identità del Subcomandante Marcos e impartiva l’immediato ordine di arresto per lui e per tutto il comando generale dell’Ezln.
Iniziava così l’operazione che riversava nel Chiapas migliaia di soldati dell’Esercito messicano per invadere e rastrellare le comunità della Selva Lacandona e di Los Altos, operazione a sorpresa che non raggiungeva l’obiettivo sperato grazie anche alla fortissima protesta e mobilitazione della società messicana e internazionale
Ha costretto però centinaia di uomini, donne e bambini indigeni ad abbandonare per molto tempo i propri villaggi e a rifugiarsi sulle montagne per salvarsi dalla violenza dei soldati che distruggevano le loro capanne e i raccolti, avvelenavano i pozzi d’acqua, saccheggiavano i loro beni.
Applicando i manuali statunitensi di tattica contro-insorgente che fanno della repressione una vera e propria guerra di bassa intensità, i militari si accampavano in luoghi strategici dei territori in ribellione, a pochi chilometri dalle comunità, aumentandone le già difficili e precarie condizioni di vita, umiliando gli indigeni con i soprusi e l’introduzione dell’alcool e della prostituzione.
E, in risposta a questa situazione, tuttora in corso, che sono nati gli accampamenti civili di pace dislocati nella zona compresa tra Los Altos de Chiapas e la Selva Lacandona dove operano volontari di San Cristóbal de Las Casas, in collaborazione con alcune ONG, per garantire la presenza stabile di osservatori civili provenienti dal Messico e da tutto il mondo.
In un comunicato dell’Ezln del 25 marzo 1995, augurandosi che siano in molti a visitare gli accampamenti e a fermarvisi, Marcos afferma: "... presenti in diversi villaggi dello Stato del Chiapas, hanno reso possibile ai nostri fratelli il ritorno alle loro case".
La presenza stabile nei villaggi indigeni di osservatori e volontari messicani e stranieri pone un freno alla repressione militare, consente il flusso dei rifornimenti di generi di prima necessità (viveri, medicine, coperte...), permette la raccolta e la divulgazione di informazioni e denunce sulle violazioni dei diritti umani.
L’appello che le organizzazioni della società civile messicana lanciano a livello nazionale ed internazionale è chiarissimo: la presenza civile permanente nella regione è, in questo momento, urgente ed indispensabile.
Per partecipare agli Accampamenti civili per la pace si possono contattare i comitati di appoggio alla lotta zapatista presenti nelle varie città italiane che operano in contatto con l’organizzazione chapaneca Enlace Civil.
CAPITOLO NONO
In lingua guaraní "nèê" significa "parola" e significa anche "anima".
Gli indigeni guaraní credono che coloro che mentono o abusano della parola tradiscono l’anima.
Eduardo Galeano
La Parola
PAROLA E LINGUA
"La parola è il cuore della cultura e la lingua la vita dei nostri popoli".
(Forum Nazionale Indigeno 1996)
La radice del popolo è la radice di cui fummo privati dopo la Conquista.
Siamo qui, indigeni e non indigeni, per riscattare, ricuperare quello che ci è stato rubato delle nostre culture.
Ricordare la nostra cultura, la nostra vita, la nostra razza, la nostra origine.
Si deve andare avanti, mantenere l’unità, le parole che sono state dette non solo devono restare scritte, devono essere ascoltate.
Noi, il popolo, siamo quello che diciamo. Però abbiamo un lungo cammino da fare, per andare avanti; è appena un passo, però è il primo della storia. Difendere la nostra parola.
(Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale)
CULTURA
La cultura è ciò che si fa, ciò che non si fa, ciò che si vede e ciò che non si vede. E’ il modo di essere, di vivere e di convivere, prodotto dalla relazione armonica con la natura e con gli altri uomini e donne.
Si nutre della vita di comunità, che significa risolvere i problemi e fornire alternative insieme; è un lavoro di mediazione, di servizio, dove si accettano cariche per essere servitori, comandare obbedendo al popolo; è un modo di relazionarsi e di valorizzare ciò che si ha intorno, di conoscere il valore che hanno le cose, ciò che significano le cose, è sapere che la natura e tutto ciò che si fa è qualcosa di sacro che viene da più in là.
Si manifesta nelle feste, nei balli, nel mangiare, nella musica, nell’arte, nell’abbigliamento, nei prodotti del lavoro, nella lingua; ma non è solo questo, è tutto il senso della vita. Da lì la sua vitalità e ricchezza, perché sa dare e ricevere.
(Forum Nazionale Indigeno- 1996)
CULTURA… DONNE
Se le culture millenarie esistono ancora oggi, è perché noi donne abbiamo preservato gli insegnamenti sacri dei nostri antenati, siamo convinte che la nostra parola abbia lo stesso valore di ogni altra parola nel mondo, per questo ne reclamiamo il suo rispetto.
Molti sforzi si sono fatti per preservare gelosamente le nostre conoscenze, i modi di essere, di vedere il mondo, i modi di vivere, dalla distruzione istituzionalizzata della cultura chiamata "educazione ufficiale".
Dobbiamo recuperare i Centri Cerimoniali che si trovano nei nostri territori.
Noi indigene siamo capaci di promuovere progetti per incentivare lo sviluppo delle nostre lingue.
Vogliamo creare centri editoriali gestiti da indigeni, uomini e donne, per tramandare la letteratura indigena.
Che i convegni nazionali e internazionali siano tradotti nelle lingue indigene.
(Forum Nazionale Indigeno -1996)
L’EDUCAZIONE INDIGENISTA
L’educazione indigenista alla quale ci obbliga il governo federale e statale, è nociva per le comunità e i popoli, perché forma culturalmente i bambini, facendo perdere loro i propri valori e l’educazione che danno i loro genitori e la comunità. Gli insegnanti cercano di imporre a bambini e bambine la lingua castigliana, affermando che le nostre lingue non servono, che è passato il loro tempo, che ora non si usano più. Molti neppure trasmettono l’istruzione che dovrebbero impartire. Altri, fanno processi agli usi e costumi delle comunità, confondendo in tal modo i bambini e le bambine; ignorano gli anziani, i padri e le madri di bambini e bambine della comunità.
I valori che vengono trasmessi nella scuola sono estranei alla vita comunitaria. Sentiamo che i nostri figli, invece di essere educati, stanno perdendo il tempo e già ora non sanno fare i lavori della comunità.
La cosa più grave è che i governi hanno utilizzato i sistemi educativi come forme di penetrazione e svalutazione delle culture e, in molti casi, come strumenti di controllo politico.
(Forum Nazionale Indigeno-1996)
CAPITOLO DECIMO
L’articolo 3 della Costituzione stabilisce
la gratuità e l’obbligatorietà dell’educazione primaria
per tutta la popolazione del paese.
Tuttavia, il primo gennaio del ‘94, è stato attraverso le armi
che parte della popolazione indigena si è vista obbligata a esigere
il proprio diritto all’educazione, al lavoro, alla terra, alla casa,
al cibo, alla salute, all’indipendenza, alla libertà, alla democrazia, alla giustizia e alla pace.
Il sistema scolastico nei territori indigeni del Chiapas
Carenze generali
La Prima Dichiarazione della Selva Lacandona dell’Ezln mette in evidenza che non ci sarà né pace né democrazia se i dieci punti sociali non avranno una diversa configurazione costituzionale; tra questi l’Educazione.
Ci sembra importante definire alcuni elementi generali sulle gravi carenze del sistema scolastico nell’ambiente indigeno: ci sono pochissime scuole bilingui e molte di loro sono incomplete, ossia non offrono tutte le classi elementari. Inoltre manca il materiale pedagogico.
Nei comuni e nelle zone meticce le scuole sono generalmente complete, con banchi e lavagne in buono stato, libri scolastici in quantità sufficiente.
Invece, nelle comunità prettamente indigene è usuale vedere banchi sconquassati e lavagne rese inservibili dall’usura, buchi enormi alle pareti. I libri di testo gratuiti non arrivano mai oppure arrivano tardi e in quantità inadeguata.
Tutti gli studi dimostrano che l’educazione prescolare svolge un ruolo determinante perché i bambini e le bambine sviluppino attività manuali e psicocognitive necessarie a studiare in buone condizioni.
Nelle comunità indigene, l’accesso alla scuola materna è un’eccezione, dato che sono praticamente inesistenti. Le maestre che vi lavorano raramente hanno ricevuto una preparazione specifica. Non hanno a disposizione materiale pedagogico, e quindi le maestre si dedicano a raccogliere tappi di bottiglia e sassolini per far giocare i piccoli.
Al giorno d’oggi è risaputo che con la sola licenza elementare non si va molto lontano. Tuttavia, all’immensa maggioranza della gioventù indigena, è stata negata la possibilità di studiare oltre le classi elementari all’interno della loro comunità.
In generale non c’è sufficiente personale docente, e oltre ad essere mal pagato, molte volte manca di preparazione accademica e capacità pedagogiche. Oltre ad essere pochi i maestri e le maestre, spesso non giungono tutti i giorni alla scuola; questo perché la maggior parte del personale docente, incluso quello indigeno, vive in città, dove usufruisce di una casa assegnatagli dal ministero della pubblica istruzione (SEP) ed è costituito in maggioranza da donne sulle quali pesa già il lavoro domestico e la cura della famiglia. Se la comunità dove lavorano non è molto distante dalla città preferiscono viaggiare quotidianamente, spesso arrivando nella tarda mattinata per ritornare il prima possibile in città, dove spesso li attende un secondo lavoro. Coloro che invece sono stati assegnati in luoghi sperduti, vi devono restare tutta la settimana, spesso senza neppure saper parlare l’idioma del luogo.
Inoltre è necessario descrivere il costume perverso relativo all’assegnazione del personale docente. I posti migliori, in città o nei suoi dintorni, cioè zone di lingua spagnola, sono riservati al personale docente con maggiore anzianità. Le comunità più sperdute, quelle comunque accessibili in auto, ricevono generalmente personale inesperto e appena diplomato. Se è possibile arrivarci solo a piedi, come nella maggioranza delle zone indigene, si apre allora una scuola bilingue, cioè con docenti indigeni, visto che la stragrande maggioranza della gente meticcia si rifiuta di sopportare anche otto ore di cammino e le condizioni precarie di soggiorno in una campagna emarginata.
Le donne indigene e il sistema scolastico
Esistono parecchie difficoltà per valutare la copertura scolastica. Da una parte, esiste una sottostima della popolazione indigena in età di studio. I censimenti ufficiali nazionali non prendono in considerazione la lingua dei minori di cinque anni. Neppure sono affidabili rispetto alla dispersione dell’habitat, delle difficoltà di comunicazione per ragioni linguistiche e dei dubbi che spesso le famiglie indigene hanno sulla quantità e sull’età dei figli da mandare a scuola.
D’altro canto, i dati forniti dalle scuole vengono in un certo qual modo sovrastimati: sovente si conta solamente la quantità di bambine e bambini iscritti all’inizio del ciclo scolastico, cifra molto più elevata della quantità di alunni che effettivamente riescono a completare ogni classe. Pur così risultano manifeste sia la bassa assistenza scolastica e l’altissima diserzione tra il primo e l’ultimo anno di elementari, sia la presenza sempre minore delle bambine.
La non frequenza e la diserzione scolastica hanno molteplici cause.
L’assenza di scuole, o il fatto che spesso non vadano oltre la seconda o la terza classe, obbliga i bambini e le bambine a camminare per lunghe distanze a stomaco vuoto per arrivare all’aula più vicina, dove la maggior parte delle volte non si è presentato l’insegnante.
Inoltre le bambine sono sempre esposte a una possibile persecuzione o aggressione sessuale lungo il cammino o nella stessa aula.
Per proseguire gli studi secondari devono andar via dalla comunità. I genitori, che a volte sostengono enormi sacrifici economici per mandare i figli maschi a studiare in città, raramente mandano le figlie, per timore dell’"immoralità" delle città meticce.
Inoltre, esiste discriminazione nei confronti delle bambine anche in aula: sono quasi sempre in netta minoranza, soprattutto nelle ultime classi. Sembra, a volte, che siano lì quasi di passaggio, tollerate ma non presenti con pieno diritto.
L’atteggiamento di molti maestri rafforza questa sensazione: consciamente o inconsciamente, non valorizzano allo stesso modo la partecipazione delle bambine e le loro capacità intellettuali e non le invogliano a continuare gli studi come fanno con i bambini promettenti.
La povertà è evidentemente uno dei fattori di maggior peso per spiegare la poca presenza nella scuola, dato che è vero che la scolarizzazione in sé è gratuita, ma ci sono sempre da comprare i quaderni, i vestiti o l’uniforme, contributi da dare per questa o quella festa scolastica. La stessa povertà obbliga molti padri a condurre con sé, o con tutta la famiglia, i maschi nelle proprietà agricole dei latifondisti per il raccolto. Le madri, affaticate dai lavori domestici (che l’assenza di servizi di base rende ancora più pesanti), ritirano sovente le loro figlie maggiori dalla scuola, affinché le aiutino.
Tuttavia, la povertà in sé non giustifica il fatto che le figlie vengano mandate in proporzione minore a scuola e che le si tolga da lì prima dei maschi. La spiegazione profonda si trova nel diverso concetto che si ha delle capacità e dei differenti destini di ambedue i sessi. Le donne non sono quasi mai considerate come alunne, perché il loro futuro è chiaramente stabilito: dovranno sposarsi presto e avere famiglia, molte volte in età adolescenziale, non appena conclusa la scuola elementare. Per i genitori dare loro un’educazione sembra un vano investimento, in quanto si dedicheranno solo al lavoro domestico.
Il ruolo di madre e di educatrice delle generazioni venture rinchiude le donne indigene nella loro posizione di principali escluse dal sistema scolastico. Non si tratta unicamente di una miopia dei genitori che non vedono che si dovrebbero favorire le bambine, perché molte volte ricadrà su di loro la responsabilità di mantenere i figli in qualsiasi situazione. Ma sembra che l’atteggiamento dei genitori indigeni di mandare le loro figlie a scuola solo lo stretto necessario, funzioni invece come un meccanismo di preservazione culturale con costi abbastanza elevati per le donne e i bambini, e in fin dei conti per le popolazioni nel loro insieme.
A rafforzare quest’idea accade che da una generazione all’altra, i maschi vanno a scuola, apprendono un po’ di spagnolo, fanno incursioni nel mondo meticcio per ottenere il denaro e i beni considerati necessari. Le donne si mescolano il meno possibile con il mondo meticcio, conservando così l’idioma e le tradizioni indigene che personificano nel loro corpo e linguaggio.
Il fatto che il monolinguismo sia molto più elevato tra le donne, e che esse siano coloro che continuano a usare e fabbricare le vesti tradizionali, sembra confermare questa divisione per sesso di responsabilità di preservazione culturale quotidiana, che permette alle comunità indigene, considerate come un tutto, di mantenere le loro culture.
La scolarizzazione per le popolazioni indigene, un’arma a doppio taglio
Le culture indigene, dopo tanto lavoro di preservazione, entrano in pericolo nel momento in cui devono affrontare la scuola e quindi nel passare attraverso la grande macchina della cultura. I metodi di insegnamento, con cose da imparare a memoria anche senza capirle, si scontrano subito con le culture indigene, nelle quali si favorisce l’apprendimento per imitazione. Anche l’orario di lezione e il calendario scolastico si scontrano con l’uso del tempo nelle popolazioni indigene, che lavorano la mattina nelle ore di lezione, vengono determinate dal calendario rurale e in funzione della necessità di lavorare durante il periodo di intensa attività agricola.
La lingua è un altro elemento centrale della violenza culturale. Se è vero che l’educazione bilingue-biculturale può essere percepita come un avanzamento, ha invece serie limitazioni.
Innanzitutto, questo sistema non arriva a tutte le comunità dove impera il monolinguismo. I criteri per aprire una scuola bilingue, molte volte non sono: "quali idiomi si parlano nelle comunità" ma "che scomodo per i docenti non indigeni arrivare fino alla scuola". Inoltre, non sempre il personale docente, anche se indigeno, parla la lingua indigena appropriata (maestri/e Tzeltal nella zona Chol, oppure Tzotzil nella zona Tzeltal...).
Infine, l’educazione bilingue-biculturale non è realmente né bilingue né culturale. Invece di bilinguismo, si opera una spagnolizzazione: si parla nella lingua madre ai bambini di prima elementare, ma la meta è quella di arrivare a parlare solo lo spagnolo nelle ultime classi. In nessun momento si invita a parlare o scrivere con idiomi indigeni.
Rispetto alla biculturalità, i contenuti dei testi scolastici presentano principalmente la storia occidentale e meticcia, facendo dei colonizzatori degli eroi e menzionando di più gli Egizi che gli Aztechi o i Maya, dei quali si parla come di popoli morti senza alcun riferimento alle popolazioni indigene di oggi.
Invece, abbondano le illustrazioni e gli esempi tratti dal mondo urbano e meticcio.
Per completare il quadro, l’atteggiamento del corpo docente è sovente impregnato di disprezzo, esplicito o latente, verso le culture indigene. Nel caso del personale meticcio, si alterna il razzismo manifesto con il paternalismo e il mancato riconoscimento delle lingue e culture indigene - che non fanno parte del programma obbligatorio della Scuola Normale -.
Nel caso del personale indigeno, si mescolano l’autodisprezzo proprio dei membri di gruppi fortemente oppressi, con un una chiara tendenza a pensare che il loro modo personale di accedere come docenti a un qualche tipo di riconoscimento sociale è la via migliore da seguire; attraverso l’influsso culturale vissuto nell’abbandonare la comunità per studiare, molti di loro si convertono in propagandisti del mondo meticcio. Sono ben pochi i docenti che trasmettono una visione positiva e opportuna delle culture indigene.
Così, per l’immensa maggioranza delle bambine e dei bambini indigeni, andare a scuola, sia a quella per tutti sia alla bilingue, significa vivere una profonda violenza culturale e un processo di culturizzazione demolitore a scapito dell’autostima personale e collettiva come indigeni.
Oltre a questo, il processo di acculturazione non mantiene le sue promesse, anche se l’ideologia scolastica lo presenta come una via di promozione sociale, personale e collettiva, oppure come l’unico modo di riuscire a "diventare qualcuno" e quindi "difendersi" e uscire dall’"arretratezza".
Invece, l’educazione ricevuta è quasi sempre di basso livello, non solo perché le bambine e i bambini non riescono a terminare gli studi, ma anche perché l’educazione nelle zone indigene è realmente di terza categoria. E’ molto difficile che, completando una scuola bilingue un bambino o una bambina raggiunga il livello per entrare in un’altra scuola, e quindi avere accesso a buoni lavori. Le professioni possibili per la gente indigena sono veramente poche. Se fino alla metà degli anni ottanta il sistema bilingue assorbiva "naturalmente" come maestri la gente indigena in possesso di un titolo di studio, oggi quasi non recluta.
Per diventare contadino/a, bracciante, autista o domestica, lo studio è di ben poca utilità. Il razzismo imperante fa sì che, a parità di studi, quasi sempre verrà data preferenza a gente non indigena. Quindi, studiare, per che cosa?
da "La violencia cultural del sistema educativo, las mujeres indigenas victimas de la Escuela", France J. Falquet, Documentos del Instituto de Asesoría Antropologica para la Región Maya, San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, México 1995, traduzione del Consolato Ribelle del Messico.
CAPITOLO UNDICESIMO
Affinchè ci vedessero ci siamo coperti il volto,
perchè ci nominassero ci siamo negati il nome.
Abbiamo scommesso sul presente per il futuro.
L’EDUCAZIONE TOJOLABAL
Carlos Lenkersdorf
La comunità intersoggettiva offre il condizionamento educativo per tutti e ognuno dei suoi membri
A noi è data la possibilità di essere testimoni dei risultati impressionanti e istruttivi di questo tipo di educazione.
Un giorno in una comunità molto appartata, stavo preparando lo zaino. Sarei partito il giorno successivo dopo un mese di alfabetizzazione nella piccola comunità in cui mai era esistita una scuola. Non conoscevano neppure la presenza dei maestri, né le visite dei sacerdoti o dei medici. Di quando in quando arrivavano invece inviati del governo, per il problema comune a tante comunità: le proprietà della terra non erano in ordine. La comunità, inoltre, non disponeva nemmeno di luce elettrica, acqua corrente, né di bagni o cose del genere. Lo spaccio più vicino si trovava a un giorno di cammino.
Mentre mettevo le cose nello zaino, Guillermo, un ragazzino di forse dieci anni, stava al mio fianco. Tra le cose che stavo preparando vidi un dolce e glielo diedi. Finito di preparare lo zaino andai a dare le ultime lezioni nella comunità.
Il mattino seguente stavo parlando con alcune persone prima di lasciare la comunità. Ad un certo punto si avvicinò Guillermo e mi chiese se potevo dare un’ultima lezione. Siccome non avevo fretta gli dissi di sì.
Immediatamente chiamò alcuni bambini per cominciare. Una volta riuniti tutti in circolo all’aria aperta, non ebbi il tempo di dire una parola, perché fu Guillermo quello che entrò in azione per impartire la lezione. Dalla sua borsa estrasse il dolce che gli avevo dato il giorno prima. Io già me lo ero dimenticato. Alzò il braccio con il dolce in mano perché gli altri bambini lo vedessero e disse: "Questo dolce me lo ha dato ieri il fratello Carlos". Di fronte a tutti lo mise in bocca per dividerlo in due con i denti. La metà la diede ad un altro bambino. Poi i due divisero le due metà per dividerle a loro volta. Il processo proseguì finché tutti i bambini presenti ebbero in mano il proprio pezzettino.
Per Guillermo sarebbe stato più facile mangiarsi il dolce. Era un regalo per lui. Rappresentava un tesoro. Nella comunità non c’erano dolci da comprare, e se ci fossero stati, Guillermo non disponeva del denaro per comprarli. Inoltre, nessuno aveva visto che aveva ricevuto quel regalo. Lui stesso prese la decisione di dividerlo, forse con l’idea aggiuntiva di mostrarmi, anzi, di insegnarmi i modi della sua comunità: vivere la comunità significa condividere.
In ogni caso questi tipi di insegnamenti non li aveva ricevuti da maestri, sacerdoti o altri educatori professionali. L’esempio di Guillermo ci fa vedere il risultato dell’educazione che si impartisce nelle comunità: la comunità è educatrice ed educando, perché è composta dalle due parti. Così si trasmette la cultura nel contesto intersoggettivo.
L’educazione non competitiva
Qui commenteremo un’altra testimonianza che ci mostra un ulteriore aspetto molto caratteristico del concetto di processo educativo.
Ci troviamo in un’altra comunità, anch’essa molto isolata, per un corso di formazione di venticinque giovani delegati di differenti ejidos. Il corso è di dieci settimane ed ha come fine quello di formare educatori per le rispettive colonie.
Alcuni dei partecipanti si erano alfabetizzati in precedenza nelle scuole delle comunità a cui appartenevano. Altri non sanno né leggere né scrivere e non conoscono nemmeno i numeri; nelle loro colonie non ci sono scuole. Il corso si tiene in tojolabal. Tutti imparano a leggere e a scrivere nella loro lingua, materia che non si insegna in nessuna delle scuole.
Un giorno mi dicono: "Fratel Carlos, facci fare un esame". Sanno che nelle scuole si fanno esami. I corsi che facciamo non prevedono mai esami. Per un bel pezzo parliamo e dialoghiamo. Tutti siamo coscienti di ciò che sappiamo e che ci sono ancora tante cose da imparare.
Non chiedo perché vogliano fare un esame. Sottopongo loro un problema affinché lo risolvano. Poi tutti e venticinque si avvicinano l’uno all’altro per risolvere la questione in gruppo. Parlano tra loro animatamente, rapidamente trovano la soluzione e me la dicono.
Immediatamente ci mettiamo a parlare del problema e soprattutto della maniera di focalizzarlo e risolverlo. Lo confrontiamo con gli esami che si danno nelle scuole. Li, spiego, quando si fa un esame non si permette agli alunni di avvicinarsi gli uni agli altri, bensì ognuno si siede distante dagli altri perché nessuno veda quello che scrive il compagno vicino.
Sorgono le domande. Perché si fa così? Spiego che gli esami si fanno per vedere quali alunni sanno rispondere bene alle domande, per cui non si permette agli alunni di parlare tra loro. Non è nemmeno permesso copiare le risposte dai compagni. Questi comportamenti sono squalificanti per gli alunni. La ragione di tutto questo metodo di allontanamento, separazione e assenza di comunicazione è che non interessa la conoscenza del gruppo, bensì quella individuale di ogni alunno .
Detto in altro modo, si stabilisce la competizione tra gli alunni. Quello che saprà rispondere meglio riceverà il voto più alto e verrà considerato l’alunno migliore. I voti alla fine dell’anno si baseranno, in gran parte, sugli esami dati durante il ciclo scolastico. L’alunno che si distinguerà per i migliori voti conseguiti sarà il candidato per una possibile borsa di studio o un altro tipo di premio. In ogni caso, verrà considerato il migliore alunno del corso o classe. In questo modo vediamo che la competitività è una caratteristica dell’educazione offerta nelle scuole.
Mentre espongo questo tema mi interrompo spesso per chiedere cose poco chiare a spiegarsi. Non starò a ripetere le domande per non allungare troppo la testimonianza. Una cosa risulta evidente: il modo di dare gli esami nelle scuole diventa tema di un animato scambio di idee.
Ai tojolabal non convince questo metodo degli esami competitivi. Discutono di una delle abitudini ben radicate nelle loro colonie: quando si presenta un problema, la gente della comunità si riunisce e tutti insieme lo si soppesa. La ragione della riunione è ovvia e il gruppo dei venticinque alunni serve da esempio rappresentativo della comunità. Gli studenti all’unanimità esprimono questa idea: venticinque teste pensano meglio di una. Così come cinquanta occhi vedono meglio di due. Per questo non li convince per niente dividere il gruppo per far sì che ognuno competa con gli altri. I problemi nella vita reale sono tali da richiedere la migliore soluzione e per trovarla è necessaria la comunità e non l’individuo isolato.
La competitività, senza alcun dubbio, caratterizza non solo l’educazione, ma tutta la cultura non indigena.
Una delle esigenze fondamentali della modernizzazione attuale è che tutti dobbiamo essere competitivi. Ci viene detto che solo così potremo "competere" sul mercato mondiale. La produzione deve essere competitiva, così come l’educazione e tutti i restanti rami della società. La competitività non è una questione che si possa mettere in discussione. Si parte da alcuni presupposti che si presentano come se fossero accettati da tutti: tutti vogliamo modernizzarci e la modernizzazione presuppone la competitività. Questa, infine, rappresenta il funzionamento del mercato, che a sua volta, regola le interrelazioni sociali nel campo economico, politico, educativo...
I tojolabal, invece, vedono che la competitività distrugge la comunità, consolidata dall’intersoggettività. Di nuovo notiamo che i due tipi di società scelgono cammini contrastanti, per non dire incompatibili. Gli uni rafforzano la comunità, gli altri, gli individui competitivi, non ammettono la comunità. Le due opzioni si spiegano per le loro rispettive cosmovisioni e prospettive differenti.
I difensori della società competitiva possono asserire che non sono a favore dei gruppi perché questi ostacolano lo sviluppo individuale. Dalla loro prospettiva, la società intersoggettiva è solo collettivismo che distrugge l’individuo e lo spiegarsi di tutta la sua capacità d’iniziativa o creatività.
L’obiezione trae molti argomenti a suo favore. E’ ben pensata e giustificata dal punto di vista di quelli che vedono l’impossibilità di partecipare alla società intersoggettiva.
Senza alcun dubbio, al passare da una società all’altra, qualcosa di noi deve morire. Dobbiamo scartarlo coscientemente, farlo morire; disfarci dell’attaccamento alla cosmovisione che ci ha formato dalla nascita, e questo perché le due cosmovisioni sono così differenti.
Non è possibile passare dall’una all’altra senza una trasformazione profonda. Il cambiamento da una cosmovisione all’altra, differente fino alle radici, implica cambi radicali per le persone coinvolte. Non possiamo andare da cosmovisione in cosmovisione come passiamo di quadro in quadro in una galleria o in un museo. La cosmovisione non è solo una questione visiva, ma ci tocca nella totalità fatta di corpo e cuore. Non ci trasferiamo in un’altra cosmovisione così come ci cambiamo un vestito.
Solo che dalla prospettiva intersoggettiva c’è spazio per un’ulteriore osservazione: la comunità non distrugge gli individui e nemmeno impedisce lo sviluppo delle loro capacità creative. Al contrario ci si aspetta da ogni membro individuale la partecipazione responsabile alla vita della comunità. Non ci si aspetta contributi individuali perché poi uno possa vantarsene, ma perché ognuno si veda riflesso nel consenso della comunità.
La ragione è che, nel contesto tojolabal intersoggettivo, la comunità e gli individui non rappresentano poli opposti ma elementi complementari. Quella non può essere senza la collaborazione di questi e viceversa.
In sintesi, educandi ed educatori dicono no alla competitività. La loro finalità è quella di fomentare la comunità nel consenso e, in questo contesto, lo sviluppo degli individui, tanto donne come uomini.
Questo tipo di educazione è un’altra consistente manifestazione della comunità di eguali, cioè del lajan lajan ‘aytik.
Da "Los Hombres Verdaderos. Voces y testimonios tojolabales", Carlos Lenkersdorf, Ed. Siglo XXI, México, traduzione di Alessandro Simoncini.
CAPITOLO DODICESIMO
Siamo gli uomini e le donne di mais.
Siamo mais che alimenta la Storia,
quello che ci insegna
che bisogna comandare obbedendo.
La lotta di una cultura di vita contro un sistema di morte
Giulio Girardi
Nello stesso momento in cui la cultura degl’imperi annuncia la fine della storia, la cultura dei popoli emergenti annuncia il suo nuovo inizio. Nello stesso momento in cui i ricchi e potenti lanciano al mondo un messaggio di disperazione, i poveri e deboli gli contrappongono un messaggio di speranza. Nello stesso momento in cui i vincitori di ieri si accingono a celebrare la sepoltura delle loro vittime, queste insorgono e proclamano il loro diritti alla vita.
Le interpretazioni della storia di ieri e di oggi dipendono decisamente dalla scelta di campo dell’interprete e quindi dal "punto di vista" che egli assume, quello dei vincitori o dei vinti. La cultura dominante e la sua interpretazione della storia sono elaborate dal punto di vista dei vincitori o dei più forti; cioè dei paesi del Nord, Europa e Stati Uniti, cui si aggiungono i loro alleati subalterni del Sud.
Al punto di vista dei vincitori si oppone quello dei vinti, o più esattamente dei resistenti.
Esistono infatti, nell’attualità come nel passato, due classi di vinti: quelli che si sottomettono al vincitore, riconoscendo la sua superiorità, assumono il suo punto di vista, interiorizzando la sua cultura e la sua identità; e quelli che si ribellano e resistono, in forma violenta o non violenta.
Ora, la ribellione è anzitutto intellettuale. Essa implica il rifiuto del punto di vista del più forte, della sua cultura, del suo sistema di valori, della sua interpretazione della storia. Questo rifiuto si fonda sulla difesa, da parte dei resistenti, della loro identità, del loro punto di vista sulla conquista e la storia, della loro cultura.
Noi intendiamo qui schierarci dalla parte della resistenza. Ci riferiamo a quella di ieri, ai 500 anni di resistenza indigena, negra, e popolare; ed a quella di oggi, rappresentata degnamente dai movimenti che si sono impegnati a prolungare e rafforzare lo spirito di quella battaglia.
Gli indigeni rivendicano per le loro collettività omogenee il titolo di "popolo" che le qualifica anche sul piano internazionale come soggetti di diritti, e in primo luogo del diritto di autodeterminazione. Rifiutano invece i nomi di "etnia" o "razza" con cui sogliono designarli gli antropologi, e che li riduce (è questa la loro percezione) ad oggetti di osservazione e di studio. Considerano anche riduttiva la denominazione di "popolazioni", che prevale finora nelle organizzazioni internazionali, come l’ONU e la OEA (Organizzazione degli Stati Americani ).
Popolo è quindi nel loro linguaggio una collettività di persone unite consapevolmente da una comunità di origine, di storia, di tradizioni, di cultura, di religione, che si afferma come soggetto di diritti culturali, politici ed economici, primo fra tutti il diritto di autodeterminazione.
C’è una tragica continuità
fra l’attualità e i 500 anni di dominazione,
inaugurati dalla conquista:
si tratta di un’interminabile esperienza di massacro e di morte.
"Con l’invasione europea del nostro continente si inizia un processo caratterizzato dalla negazione dei nostri valori, la discriminazione contro le forme di vita dei nostri antenati, in primo luogo contro il diritto alla terra. La pratica del razzismo, della discriminazione, dell’etnocidio, della segregazione e dello sterminio, che è tuttora in atto contro i nostri popoli, ostacola l’esercizio dei diritti e la costruzione di una società basata sulla giustizia e l’uguaglianza".
"Il degrado del livello di vita dei popoli originari è spaventoso: la distruzione della natura su cui poggiano le nostre forme di vita, l’emigrazione in zone urbane per accedere al mercato del lavoro e dalle file dei disoccupati, senza terra, con indici allarmanti di mortalità, denutrizione, analfabetismo, prostituzione, sterilizzazione forzata, suicidi, droga; il tutto accompagnato dalla negazione del diritto elementare ad esistere come popolo"
"Con amarezza e tristezza dobbiamo constatare che l’etnocidio e il genocidio continuano. Il furto di terre e di risorse naturali non è cessato. La militarizzazione di popoli indigeni continua. Terre e territori indigeni continuano ad essere utilizzati per fini militari, che nulla hanno a che vedere con gli interessi degli indigeni. La repressione generalizzata, la discriminazione in tutti i suoi aspetti, la tortura e la morte sono parte della vita quotidiana dei nostri popoli. Si continuano a praticare la distruzione e la contaminazione dei territori tradizionali. Terre indie si stanno utilizzando o si vogliono utilizzare come pattumiere chimiche, industriali o radioattive. Si generalizza il saccheggio delle risorse indispensabili per la vita dei popoli indigeni. In nome di un preteso sviluppo si distruggono e si profanano luoghi di cerimonie e luoghi sacri. Le nostre culture, lingue, religioni, cerimonie, valori, contributi e creatività sono regolarmente calpestati"
"Le condizioni di vita dei Popoli Indigeni sono peggiorate. Si continua ad espellerci dalle nostre terre, manca il riconoscimento e l’applicazione effettiva delle leggi più elementari, cresce il degrado dell’ambiente e si aggrava l’uso irrazionale delle nostre risorse naturali. Continuano a verificarsi violazioni massicce e flagranti dei nostri diritti umani, vengono perseguitati i nostri dirigenti, crescono il razzismo e la violenza contro le nostre donne. Le politiche di ristrutturazione hanno un impatto terribilmente negativo sulla salute, il lavoro, l’educazione e le condizioni di vita dei nostri popoli. Il pagamento del debito esterno da parte dei governi dei paesi in cui viviamo e le politiche neoliberali che molti di essi praticano fanno di noi le vittime maggiormente sacrificate".
"La nostra lotta come figli di questo continente è quella delle culture dominate contro la cultura dominante, degli oppressi contro gli oppressori, degli sfruttati contro gli sfruttatori. La lotta di una cultura di vita contro un sistema di morte".
I movimenti indigeni, percepiscono la cultura come un costitutivo essenziale della loro identità. Pertanto denunciando con particolare virulenza il dominio e la distruzione a questo livello. "La cultura è un tutto in cui sono immersi tutti gli aspetti che si richiedono per condurre una vita degna: così come la pianta ha bisogno, per il suo sviluppo integrale, della terra, dell’acqua, del sole e di fecondazione"
"Con l’invasione spagnola, 500 anni fa, inizia la distruzione, il saccheggio e lo sfruttamento violento dei popoli nel nostro continente, della loro cultura, delle loro risorse naturali. Fatto, questo, fino ad allora senza precedenti nella storia dell’umanità. Ci vennero imposte strutture, credenze e leggi estranee alla nostra identità culturale. Si cercò di strappare le nostre radici, la nostra creatività, i nostri valori, la nostra forza. Nel trascorso del tempo, si verificarono altri interventi di indole neocolonialista e imperialista".
Manifestazioni concrete di razzismo e di dominazione culturale
L’alta percentuale di analfabetismo, dovuto anche al fatto che i bambini e le bambine in età scolastica lavorano per contribuire al mantenimento delle loro famiglie. Il misconoscimento del diritto all’educazione: "Si considera il tema dell’educazione della gioventù come qualcosa di secondario, negando che si tratti di un diritto umano".
Il carattere eurocentrico e razzista dell’educazione "in cui si insegna ai giovani la visione europea, negando i valori indigeni, e con una cattiva informazione sull’identità, la storia e le culture indigene".
"Esistono campagne e propaganda dirette a determinare cambiamenti nel modo di educare i nostri figli, che ci allontanano dalle nostre tradizioni e dalla nostra cultura".
La privatizzazione dell’educazione, imposta dalle misure di ristrutturazione, che favorisce il suo carattere elitista e razzista.
La scomparsa delle lingue originarie: "In tutta l’America, le lingue ufficiali non sono le originarie; queste anzi sono in via di eliminazione".
In molti paesi, le istituzioni educative proibiscono l’uso di vestiti tradizionali e della lingua autoctona. Altrove, si utilizza la lingua autoctona, ma per inculcare la cultura dominante. Molti giovani si sentono emarginati ed umiliati, perché esprimersi nella loro lingua significa sentirsi inferiori e di conseguenza adottano altre lingue. In alcuni luoghi, il solo fatto di pronunciare qualche parola nella propria lingua è motivo per essere puniti dagli insegnanti.
L’estinzione delle religioni indigene e delle credenze popolari. Quando i governi elaborano piani di azione, non tengono conto dell’importanza della religione nelle tradizioni indigene.
La discriminazione delle donne, specialmente delle indigene ed afroamericane.
La divisione e lo scontro fra gli interessi dei popoli indigeni e dei popoli negri sia tra di loro sia nei confronti degli altri settori popolari.
Fronte educativo-culturale
I popoli indigeni, attribuiscono al fronte educativo-culturale un’importanza prioritaria. Esso ha infatti il compito di elaborare l’alternativa a un sistema di dominazione che ha distrutto le culture e soffocano l’identità dei popoli, specialmente degl’indigeni e dei negri; il compito pertanto di rivalutare le culture originarie e di svilupparle autonomamente. La lotta culturale stabilisce così un legame tra la rivalutazione del passato e la costruzione del futuro.
Si parla di un fronte "educativo-culturale" perché la riscoperta creativa delle culture, che s’intende compiere, non sarà opera di alcuni intellettuali, ma dello stesso popolo, che riscopre le sue radici e le rivaluta attraverso un processo di autoeducazione e coscientizzazione.
Le donne manifestano una sensibilità particolare all’importanza dell’impegno educativo, o meglio autoeducativo: "Solo rafforzando la coscienza dei nostri popoli, avanzeremo verso il riconoscimento di valori umani ed otterremo che le donne siano ascoltate e tenute in considerazione".
Gli indigeni sottolineano varie implicazioni del loro diritto ad essere soggetti educativi e culturali: "Sviluppare un lavoro di educazione nelle comunità indigene e contadine, che parta dalle nostre culture, rafforzi i nostri tratti culturali e si opponga a forme di acculturazione imposta".
L’educazione indigena deve stare in mano agli indigeni, che i contenuti dell’educazione siano basati sulla filosofia e la cosmovisione indigena. Che la spiritualità, le lingue, le tradizioni, la sapienza ed i costumi indigeni siano parte integrante dell’educazione, che la storia sia scritta dagli stessi indigeni. Le culture poi non si possono separare dalle lingue originarie.
Di qui l’importanza che si attribuisce all’educazione bilingue, dove una delle due lingue sia quella originaria del popolo stesso. Una delle ragioni per cui l’educazione diventa strumento di sterminio per le lingue originarie è che la popolazione indigena non viene educata nella propria lingua.
Questo scritto è un estratto dai vari capitoli del libro di Giulio Girardi "Gli esclusi costruiranno la nuova storia?", Edizioni Borla, Roma 1994. "Libro - come afferma lo stesso autore - fondato sui principali documenti continentali di "Campagna 500 anni di resistenza indigena, negra e popolare dei popoli indigeni"; inoltre sugli "Atti dei due vertici mondiali dei popoli indigeni".
INDICE
Prefazione
di Renato Tanfoglio
Fuori campo
Dove si narra di giganti, di predoni e di bambini ribelli
di Claudio Albertani e Paolo Ranieri
1. Enlace Civil: seminando per raccogliere...
2. Il progetto "Semillita del Sol"
3. A scuola nella Selva.
Conversando con Mercedes e Victor
4. Due maestri raccontano
Comunità di Guadalupe Tepeyac in esilio
5. La semilla è cresciuta tanto da diventare una ceiba...
Parlando con Mercedes, Marika e Analisa
6. Storie delle comunità
7. Ai bambini messicani e di tutto il mondo. Lettere dell’Ezln.
8. Accampamenti civili per la pace
9. La Parola
10. Il sistema scolastico nei territori indigeni del Chiapas
di France J. Falquet
11. L’educazione Tojolabal
di Carlos Lenkersdorf
12. La lotta di una cultura di vita contro un sistema di morte
di Giulio Girardi