ANTOLOGIA TEMATICA
Organizzatori
e antiorganizzatori[1]
Sono degli anni che si fa
tra gli anarchici un gran discutere su questa questione. E, come avviene
spesso, quando si piglia passione in una discussione e alla ricerca della
verità subentra il puntiglio di aver ragione, o quando le discussioni teoriche
non sono che un tentativo per giustificare una condotta pratica ispirata da
altri motivi si è prodotta una grande confusione d’idee e di parole,
Ricordiamo di
passaggio, tanto per sbarazzarcene, le semplici questioni di parole, che a
volte han raggiunto le più alte cime del ridicolo come per esempio: “Noi non vogliamo
l’organizzazione ma l’armonizzazione”; “Siamo contrari all’associazione, ma
ammettiamo l’intesa”; “Noi non vogliamo segretario e cassiere, perché sono cose
autoritarie, ma incarichiamo un compagno di tenere la corrispondenza, e un
altro di custodire il denaro” – e passiamo alla discussione seria.
Vi sono tra
coloro che rivendicano, con aggettivi vari o senza aggettivi, il nome di
anarchici, due frazioni: i partigiani e gli avversari dell’organizzazione.
Se non possiamo
riuscirci a metterci d’accordo, cerchiamo almeno di comprenderci. E prima di
tutto distinguiamo, poiché la questione è triplice: l’organizzazione in
generale come principio e condizione di vita sociale, oggi e nella società
futura l’organizzazione del partito anarchico; e l’organizzazione delle forze
popolari e specialmente quella delle masse operaie per la resistenza contro il
governo e contro il capitalismo.
La necessità dell’organizzazione nella vita sociale, e quasi direi la sinonimia tra organizzazione e società, è cosa tanto evidente che si stenta a credere come si sia potuta negare. Per rendersene conto bisogna ricordare quale è la funzione specifica, caratteristica del movimento anarchico, e come gli uomini e i partiti sono soggetti a lasciarsi assorbire dalla questione che più direttamente li riguarda, dimenticando tutte le questioni connesse, a guardare più la forma che la sostanza, infine a vedere le cose da un lato solo e perdere così la giusta nozione della realtà.
Il movimento
anarchico cominciò come reazione contro lo spirito d’autorità, dominante nella
società civile, nonché in tutti i partiti e tutte le organizzazioni operaie, e
si è andato ingrossando man mano di tutte le rivolte sollevatesi contro le
tendenze autoritarie e accentratrici.
Era naturale quindi che molti anarchici fossero come ipnotizzati da questa lotta contro l’autorità e che, credendo, per l’influenza dell’educazione autoritaria ricevuta, che l’autorità è l’anima dell’organizzazione sociale, per combattere quella combattessero e negassero questa. E veramente l’ipnotizzazione arrivò al punto far sostenere cose veramente incredibili.
Si combatté ogni
sorta di cooperazione e dì intesa, ritenendo che l’associazione era l’antitesi
dell’anarchia, si sostenne che senza accordi, senza obblighi reciproci, facendo
ognuno quello che gli passa per il capo senza nemmeno informarsi di quello che
fa l’altro, tutto si sarebbe spontaneamente armonizzato; che anarchia
significa che ogni uomo deve bastare a se stesso e farsi da sé tutto quello
che gli occorre senza scambio e senza lavoro associato; che le ferrovie
potevano funzionare benissimo senza organizzazione, anzi che questo avveniva
dì già in Inghilterra(!); che la posta non era necessaria e che chi a Parigi
voleva scrivere una lettera a Pietroburgo… se la poteva portare da sé(!), ecc.
ecc.
Ma queste sono
sciocchezze, si dirà, e non vale la pena di rilevarle. Sì, ma queste
sciocchezze sono state dette, stampate, propagate: sono state accolte da gran
parte del pubblico come l’espressione genuina delle idee anarchiche: e servono
sempre come armi di combattimento agli avversari, borghesi e non borghesi, che
vogliono aver di noi una facile vittoria. E poi quelle sciocchezze non
mancano del loro valore, in quanto sono la conseguenza logica di certe premesse
e possono servire di riprova sperimentale della verità o meno di quelle premesse.
Alcuni
individui, di mente limitata ma forniti di potente spirito logico, quando hanno
accettato delle premesse ne tirano tutte le conseguenze fino all’ultimo, e, se
così vuole la logica, arrivano senza scomporsi alle più grandi assordirà, alla
negazione dei fatti più evidenti. Ve ne sono bensì altri più colti e di spirito
più largo, che trovan sempre modo di arrivare a conclusioni più o meno
ragionevoli, anche a costo di strapazzare la logica; e per questi gli errori
teorici hanno poca o nessuna influenza sulla condotta pratica. Ma insomma fino
a che non si rinunzia a certi errori fondamentali si è sempre minacciati dai
sillogizzatori a oltranza e si torna sempre da capo.
E l’errore
fondamentale degli anarchici avversari dell’organizzazione è il credere che non
sia possibile organizzare senza autorità – e il preferire, ammessa quella
ipotesi, piuttosto rinunziare a qualsiasi organizzazione che accettare la
minima autorità.
Ora, che
l’organizzazione, vale a dire l’associazione per uno scopo determinato e colle
forme e i mezzi necessari a conseguire quel fine, sia una cosa necessaria alla
vita sociale ci pare evidente. L’uomo isolato non può vivere nemmeno la vita
del bruto: esso è impotente salvo nelle regioni tropicali e quando la
popolazione è eccessivamente rada, a procurarsi il nutrimento e lo è sempre,
senza eccezioni a elevarsi a una vita alcun poco superiore a quella degli animali.
Dovendo perciò unirsi cogli altri uomini anzi trovandosi unito in
conseguenza dell’evoluzione antecedente della specie, esso deve, o subire la volontà
degli altri (essere schiavo), o imporre la volontà propria agli altri (essere
un’autorità), o vivere cogli altri in fraterno accordo in vista del maggior
bene di tutti (essere un associato). Nessuno può esimersi da questa necessità;
e i più eccessivi antiorganizzatori non solo subiscono l’organizzazione
generale della società in cui vivono, ma anche negli atti volontari della
loro vita, anche nelle loro rivolte contro l’organizzazione sì uniscono, si
dividono il compito, si organizzano con quelli con cui vanno d’accordo e utilizzano
i mezzi che la società mette a loro disposizione… sempre, s’intende, che si
tratti di cose volute e fatte davvero e non di vaghe aspirazioni platoniche,
di sogni sognati.
Anarchia significa società organizzata senza
autorità, intendendosi per autorità la facoltà dì imporre la propria
volontà e non già il fatto inevitabile e benefico che chi meglio intende e sa
fare una cosa riesce più facilmente a far accettare la sua opinione e serve
di guida, in quella data cosa ai meno capaci di lui.
Secondo noi
l’autorità non solo non è necessaria all’organizzazione sociale ma, lungi dal
giovarle, vive su di essa da parassita, ne inceppa l’evoluzione e
volge i suoi vantaggi a profitto speciale di una data classe che sfrutta e
opprime le altre. Fino a che in una collettività vi è armonia d’interessi, fino
a che nessuno ha voglia o modo di sfruttare gli altri, non v è traccia
d’autorità: quando viene la lotta intestina e la collettività si divide in
vincitori e vinti, allora sorge l’autorità, la quale naturalmente è devoluta ai
più forti e serve a confermare, perpetuare e ingrandire la loro
vittoria.
Crediamo così, e
perciò siamo anarchici: che se credessimo cioè non vi possa essere
organizzazione senza autorità, noi saremmo autoritari, perché
preferiremmo ancora l’autorità, che inceppa e addolora la vita, alla
disorganizzazione che la rende impossibile.
Del resto, quel
che saremmo noi importa poco. Se fosse vero che il macchinista e il
capotreno debbano per forza essere delle autorità, anziché dei compagni che
fanno per tutti un determinato lavoro, il pubblico amerebbe sempre piuttosto
subire la loro autorità che viaggiare a piedi. Se il mastro di posta non
potesse non essere un’autorità, ogni uomo sano di mente sopporterebbe l’autorità
del mastro di posta, piuttosto che portar da sé le proprie lettere. E allora…
l’anarchia sarebbe il sogno di alcuni, ma non potrebbe realizzarsi mai.
L’organizzazione
come condizione della vita sociale[2]
L’organizzazione, che poi
non è altro che la pratica della cooperazione e della solidarietà, è
condizione naturale, necessaria della vita sociale: è un fatto ineluttabile che
s’impone a tutti, tanto nella società umana in generale, quanto in qualsiasi
gruppo di persone che hanno uno scopo comune da raggiungere.
Non volendo e
non potendo l’uomo vivere isolato, anzi non potendo esso diventare veramente
uomo e soddisfare i suoi bisogni materiali e morali se non nella società e
colla cooperazione dei suoi simili, avviene fatalmente che quelli che non hanno
i mezzi o la coscienza abbastanza sviluppata per organizzarsi liberamente con
coloro con cui hanno comunanza d’interessi e di sentimenti, subiscono l’organizzazione
fatta da altri individui, generalmente costituiti in classe o gruppo dirigente,
allo scopo di sfruttare a proprio vantaggio il lavoro degli altri. E
l’oppressione millenaria delle masse da parte dì un piccolo numero di
privilegiati è stata sempre la conseguenza della incapacità della maggior parte
degl’individui di accordarsi, di organizzarsi con gli altri lavoratori per la
produzione, per il godimento e per l’eventuale difesa contro chi volesse
sfruttarli e opprimerli.
Per rimediare a
questo stato di cose è sorto l’anarchismo, il cui principio fondamentale è
l’organizzazione libera, fatta o mantenuta dalla libera volontà degli
associati senza nessuna specie di autorità, cioè senza che nessuno abbia il
diritto di imporre agli altri la propria volontà. Ed è quindi naturale che gli
anarchici cerchino di applicare nella loro vita privata e di partito quello
stesso principio, su cui, secondo loro, dovrebbe essere fondata tutta quanta
la società umana.
Da certe
polemiche può sembrare che vi siano degli anarchici refrattari a ogni organizzazione;
ma in realtà le molte, le troppe discussioni che si fanno tra noi sull’argomento,
anche se oscurate da questioni di parole, o avvelenate da questioni personali,
in fondo riguardano il modo e non già il principio di organizzazione. Così
avviene che dei compagni, che a parole sono i più avversi all’organizzazione,
quando vogliono davvero fare qualche cosa, si organizzano come, e spesso
meglio degli altri. La questione, ripeto, sta tutta nel modo.
Io credo soprattutto necessario, urgente, che gli anarchici s’intendano, si organizzino il più e il meglio possibile per influire sulla via che seguono le masse nelle loro lotte per i miglioramenti e l’emancipazione.
Oggi la più grande forza di trasformazione sociale è il movimento operaio (movimento sindacale), e dal suo indirizzo dipende in gran parte il corso che prenderanno gli avvenimenti e la meta a cui arriverà la prossima rivoluzione. Per mezzo delle organizzazioni, fondate per la difesa dei loro interessi, i lavoratori acquistano la coscienza dell’oppressione in cui giacciono e dell’antagonismo che li divide dai loro padroni, incominciano ad aspirare ad una vita superiore, si abituano alla lotta collettiva e alla solidarietà, e possono riuscire e conquistare quei miglioramenti che sono compatibili con la persistenza del regime capitalistico e statale. Dopo, quando il conflitto diventa insanabile, viene o la rivoluzione, o la reazione. Gli anarchici debbono riconoscere l’utilità e l’importanza del movimento sindacale, debbono favorirne lo sviluppo, e farne una delle leve della loro azione, facendo tutto quello che possono perché esso, in cooperazione colle altre forze di progresso esistenti, sbocchi in una rivoluzione sociale che porti alla soppressione delle classi, alla libertà totale, all’eguaglianza, alla pace e alla solidarietà fra tutti gli esseri umani. Ma sarebbe una grande e letale illusione il credere, come fanno molti, che il movimento operaio possa e debba da se stesso, in conseguenza della sua stessa natura, menare ad una tale rivoluzione. Al contrario, tutti i movimenti fondati sugl’interessi materiali e immediati (e non si può fondare su altre basi un vasto movimento operaio), se manca il fermento, la spinta, l’opera concertata degli uomini d’idee, che combattono e si sacrificano in vista di un ideale avvenire, tendono fatalmente ad adattarsi alle circostanze, fomentano lo spirito di conservazione e la paura di cambiamenti in quelli che riescono ad ottenere condizioni migliori, e finiscono spesso col creare nuove classi privilegiate e servire a far sopportare e consolidare il sistema che si vorrebbe abbattere.
Di qui la
necessità impellente di organizzazioni prettamente anarchiche che dentro, come
fuori dei sindacati lottino per la realizzazione integrale dell’anarchismo
e cerchino di sterilizzare tutti i germi di degenerazione e di reazione.
Ma è evidente che per conseguire i loro scopi le organizzazioni anarchiche debbono essere, nella loro costituzione e nel loro funzionamento, in armonia coi principi dell’anarchismo, e cioè che non siano in nessun modo inquinate da spirito autoritario, che sappiano conciliare la libera azione degl’individui con la necessità e il piacere della cooperazione, che servano a Sviluppare la coscienza e la capacità d’iniziativa dei loro membri, e siano un mezzo educativo per l’ambiente in cui operano e una preparazione morale e materiale per l’avvenire che desideriamo. (…)
Un’organizzazione
anarchica deve essere fondata secondo me sulle seguenti basi. Piena autonomia,
piena indipendenza e quindi piena responsabilità, degl’individui e dei gruppi;
accordo libero tra quelli che credono utile unirsi per cooperare a uno scopo
comune; dovere morale di mantenere gl’impegni presi e di non far nulla che
contraddica al programma accettato. Su queste basi si adottano poi le forme
pratiche, gli strumenti adatti per dar vita reale all’organizzazione.Quindi i
gruppi, le federazioni di gruppi, le federazioni di federazioni, le riunioni, i
congressi i comitati incaricati della corrispondenza o altro. Ma tutto questo
deve esser fatto liberamente in modo da non inceppare il pensiero e
l’iniziativa dei singoli, e solo per dare maggiore portata agli sforzi che,
isolati, sarebbero impossibili o di poca efficacia
Così i congressi
in un’organizzazione anarchica, pur soffrendo come corpi rappresentativi di
tutte le imperfezioni non fanno la legge, non impongono agli altri le proprie
deliberazioni. Essi servono a mantenere e aumentare i rapporti personali fra i
compagni più attivi, a riassumere e fomentare gli studi programmatici sulle
vie e sui mezzi d’azione, e far conoscere a tutti le situazioni delle diverse
regioni e l’azione che più urge in ciascuna di esse, a formulare le varie
opinioni correnti tra gli anarchici e farne una specie di statistica – e le
loro decisioni non sono regole obbligatorie, ma suggerimenti, consigli,
proposte da sottoporre a tutti gli interessati, e non diventano
impegnative ed esecutive se non per quelli che le accettano e finché le
accettano. Gli organi amministrativi che essi nominano – Commissione di
Corrispondenza, ecc. – non hanno nessun potere direttivo, non prendono
iniziative se non per conto di chi quelle iniziative sollecita e approva e non
hanno nessuna autorità, per imporre le proprie vedute, che essi possono
certamente sostenere e propagare come gruppi di compagni, ma non possono
presentare come opinione ufficiale dell’organizzazione. Essi pubblicano le
risoluzioni dei congressi e le opinioni e le proposte che gruppi e individui
comunicano loro; e servono per chi se ne vuol servire, a facilitare le relazioni
fra i gruppi e la cooperazione tra quelli che son d’accordo sulle varie
iniziative: libero chi crede di corrispondere direttamente con chi vuole, o di
servirsi di altri comitati nominati da speciali raggruppamenti.
In un’organizzazione
anarchica i singoli membri possono professare tutte le opinioni e usare tutte
le tattiche che non sono in contraddizione coi principi accettati e non nuocciono
all’attività degli altri. In tutti i casi una data organizzazione dura fino a
che le ragioni d’unione sono superiori alle ragioni dì dissenso: altrimenti si
scioglie e lascia luogo ad altri raggruppamenti più omogenei.
Certo la durata,
la permanenza di un’organizzazione condizione di successo nella lunga lotta che
dobbiamo combattere e d’altronde è naturale che qualunque istituzione aspira,
per istinto, a durare indefinitivamente. Ma la durata di un’organizzazione
libertaria deve essere la conseguenza dell’affinità spirituale dei suoi
componenti e dell’adattabilità della sua costituzione ai continui cambiamenti
delle circostanze: quando non è più capace di compiere una missione utile
meglio che muoia.
A
proposito di libertà[3]
Noi ci vantiamo di essere
soprattutto e innanzitutto propugnatori di libertà: libertà non per noi soli,
ma per tutti. Libertà non solo per quello che a noi sembra la verità, ma anche
per quello che può essere o parere l’errore.
Sappiamo la
prima obiezione che tentano di farci i nostri avversari, i quali poi vogliono
anche essi una specie di libertà, che essendo limitata alle loro persone, al
loro partito e alle loro idee si traduce in arbitrio e tirannia a danno degli
altri. Voi, ci dicono, vi fate della libertà una specie di divinità. Voi
reclamate la libertà assoluta, che è cosa impossibile e assurda.
Abbiamo più
volte risposto a questa falsa interpretazione delle nostre idee, ma naturalmente
senza ottenere che ci sentano quei sordi… che non vogliono sentire.
Non c’è niente
d’assoluto nelle nostre concezioni, poiché siamo profondamente convinti della
relatività di tutte le cose almeno per quanto gli uomini possono concepirle.
Noi non reclamiamo una libertà astratta, metafisica che rompendo i vincoli che
legano l’uomo alla natura e alla società, negherebbe e annullerebbe l’umanità.
Noi reclamiamo semplicemente quella che si potrebbe chiamare la libertà
sociale, cioè l’eguale libertà per tutti, un’eguaglianza di condizioni tale che
permetta a tutti di fare il proprio volere col solo limite imposto dalle
ineluttabili necessità naturali e dalla eguale libertà degli altri.
“Ma voi volete dunque anche
la libertà per la borghesia, voi nella vostra mania di libertà volete
ostacolare il proletariato nella sua lotta per l’emancipazione” dicono spesso
e volentieri i comunisti che ricevono il verbo dal governo di Mosca.
L’affermazione
sarebbe semplicemente stupida se non fosse volutamente maligna, se non
tendesse, come evidentemente tende, a metterci in cattiva luce innanzi al proletariato,
che essi comunisti vorrebbero governare domani a loro beneplacito senza
l’incomodo di quei rompiscatole degli anarchici.
Tutti
troverebbero ridicolo il pensare che, essendo noi partigiani della libertà, vorremmo
che ciascuno avesse la libertà di uccidere i suoi simili. Solo i comunisti trovano serio il dire che noi vorremmo rispettata la libertà dei borghesi
dì sfruttare il lavoro altrui, che è poi un modo attenuato di uccidere gli
altri.
La libertà che
vogliamo noi non è il diritto astratto di fare il proprio volere, ma il potere
di farlo; quindi suppone in ciascuno i mezzi di poter vivere e agire senza sottoporsi alla volontà altrui. E siccome per vivere è prima condizione il
produrre, presupposto necessari, della libertà è la libera disposizione per
tutti del suolo, delle materie prime e degli strumenti di lavoro.
Ciò che
costituisce l’essenza della borghesia è l’accaparramento dei mezzi di
produzione e di scambio, che la mette in grado di sfruttare l’opera dei
lavoratori e ordinare tutto il processo produttivo e
distributivo in vista del proprio profitto, tenendo nel minor conto possibile l’interesse dei produttori e dei
consumatori.
Fino a quando
questo accaparramento sussisterà non vi sarà liberta per la grande massa dei
proletari che debbono mendicare presso i borghesi i mezzi per vivere. E qualunque
cambiamento di regime politico riuscirà impotente, anche supposta la buona volontà
dei governanti, a garantire ai proletari la libertà e la giustizia.
È chiaro dunque
che nostro scopo precipuo è quello di espropriare la borghesia e naturalmente
di abbattere il governo che sta a sua difesa. Ma la borghesia resisterà, difenderà
i suoi privilegi con tutto l’accanimento possibile. D’accordo; e perciò noi
l’attaccheremo, la combatteremo con la massima energia e non avremo
posa fino a quando non l’avremo ridotta all’impotenza, cioè
fino a quando non l’avremo distrutta come classe, levandole i mezzi di
sfruttare il lavoro altrui e assorbito tutti i borghesi nella massa lavoratrice
con diritti uguali a quelli di tutti gli altri.
La differenza
tra noi e i comunisti di fronte alla borghesia sta in questo. Essi vogliono
combatterla e debellarla con mezzi di polizia, organizzando un
nuovo governo, una dittatura, la quale, oltre il sopprimere ogni libertà di
pensiero e d’azione per coloro che non godono la protezione dei dittatori, non
riuscirebbe a distruggere la classe borghese se non creando una nuova classe
privilegiata che cominciando coll’essere classe burocratica saprebbe presto
trasformarsi in nuova classe capitalistica.
Noi vogliamo
combattere e abbattere la borghesia con mezzi rivoluzionari, coll’azione diretta
della massa proletaria che prende possesso dei mezzi di produzione. Chi sa i
borghesi quale metodo apprezzerebbero di più.
Un’altra
osservazione. Noi siamo avversari decisi, irreduttibili del regime borghese.
Ma non bisogna dimenticare che la storia passata ha conosciuto regimi peggiori
di quello borghese, e che se non si sta attenti regimi peggiori potrebbero
vedersi anche nell’avvenire.
Se al regime
borghese dovesse sostituirsi un governo di fanatici che volessero darci qualche
cosa che ricorderebbe il comunismo dei gesuiti del Paraguay, noi non diventeremmo
per questo amici del regime decaduto, ah no, ma combatteremmo con eguale
decisione il regime vecchio e nuovo.
Anarchismo
e gradualismo[4]
L’anarchismo dicevo, deve
essere necessariamente gradualista. Si può concepire l’anarchia come la
perfezione assoluta, ed è bene che quella concezione resti sempre presente alla
nostra mente, quale faro ideale che guida i nostri passi. Ma è evidente che
quell’ideale non può raggiungersi d’un salto, passando di botto dall’inferno
attuale al paradiso agognato.
I partiti
autoritari, quelli cioè che credono morale ed espediente imporre colla forza
una data costituzione sociale, possono sperare (vana speranza del resto) che,
quando si saranno impossessati del potere, potranno a forza di leggi, decreti…
e gendarmi sottoporre tutti e durevolmente al loro volere.
Ma una tale
speranza e un tale volere non sono concepibili negli anarchici, i quali non
vogliono nulla imporre salvo il rispetto della libertà e contano per la
realizzazione dei loro ideali sulla persuasione e sui vantaggi sperimentati
della libera cooperazione.
Ciò non
significa che io creda (come a scopo polemico mi ha fatto dire un giornale riformista
poco informato o poco scrupoloso) che per fare l’anarchia bisogna aspettare
che tutti siano anarchici. Io credo al contrario – e perciò sono
rivoluzionario – che nelle condizioni attuali solo una piccola minoranza
favorita da circostanze speciali possa arrivare a concepire l’anarchia, e che
sarebbe una chimera lo sperare nella conversione generale se prima non si
cambia l’ambiente, nel quale prosperano l’autorità e il privilegio. E appunto
per questo credo che bisogna, appena è possibile, cioè appena si sia
conquistata la libertà sufficiente e vi sia in un dato luogo un nucleo di
anarchici abbastanza forte per numero e capacità da bastare a se stesso e
irradiare intorno a sé la propria influenza, bisogna, dico, organizzarsi per
applicare l’anarchia o quel tanto di anarchia che diventa mano a mano
possibile.
Poiché non si
può convertire la gente tutta in una volta e non si può isolarsi per necessità
di vita e per l’interesse della propaganda bisogna cercare il modo di
realizzare quanto più di anarchia è possibile in mezzo a gente che non
anarchica o lo è in gradi diversi. Il problema dunque non è se bisogna o no
procedere gradualmente, ma quello di cercare quale è la via che più rapidamente
e più sinceramente conduce all’attuazione dei nostri ideali.
Né
democratici né dittatoriali: anarchici[5]
“Democrazia” significa
teoricamente governo di popolo: governo di tutti, a vantaggio di tutti, per
opera di tutti. Il popolo deve, in democrazia, poter dire quello che vuole, nominare
gli esecutori delle sue volontà sorvegliarli revocarli a suo piacimento.
Naturalmente
questo suppone che tutti gli individui che compongono il popolo abbiano la
possibilità di formarsi un’opinione e di farla valere su tutte le questioni che
li interessano. Suppone dunque che ognuno sia politicamente ed economicamente
indipendente, e nessuno sia obbligato per vivere a sottoporsi alla volontà
altrui.
Se vi sono
classi e individui privi dei mezzi di produzione e quindi dipendenti da chi
quei mezzi ha monopolizzati, il cosiddetto regime democratico non può essere
che una menzogna atta ad ingannare e render docile la massa dei governati con
una larva di supposta sovranità, e così salvare e consolidare il dominio della
classe privilegiata e dominante. E tale è, ed è sempre stata, la democrazia in
regime capitalistico qualunque sia la forma ch’essa prende, dal governo
costituzionale monarchico al preteso governo diretto.
Di democrazia,
di governo di popolo non ve ne potrebbe essere che in regime socialistico,
quando, essendo socializzati i mezzi di produzione e di vita, il diritto di
tutti a intervenire nel reggimento della cosa pubblica avesse a base e
garanzia l’indipendenza economica dì ciascuno. In questo caso sembrerebbe che
il regime democratico fosse quello che meglio risponde a giustizia e meglio
armonizza l’indipendenza individuale con le necessità della vita sociale. E
tale apparve, in modo più o meno chiaro, a coloro che in tempi di monarchie
assolute combatterono soffrirono e morirono per la libertà.
Sennonché, a
guardare le cose come veramente sono, il governo di tutti risulta
un’impossibilità in conseguenza del fatto che gli individui che compongono il
popolo hanno opinioni e volontà differenti l’uno dall’altro, e non avviene mai,
o quasi mai, che su di una questione od un nome qualunque tutti siano
d’accordo; e perciò il “governo di tutti”, se governo ha da essere, non può che
essere, nella migliore delle ipotesi, che il governo della maggioranza. E i
democratici, socialisti o no, ne convengono volentieri. Essi aggiungono, è
vero, che si debbono rispettare i diritti delle minoranze; ma siccome è la
maggioranza che determina quali sono questi diritti, le minoranze in
conclusione non hanno che il diritto di fare quello che la maggioranza vuole e
permette. Unico limite all’arbitrio della maggioranza sarebbe la resistenza
che le minoranze sanno e possono opporre; vale a dire che durerebbe sempre la
lotta sociale, in cui una parte dei soci, e sia pure la maggioranza, ha il diritto
di imporre agli altri la propria volontà, asservendo ai propri scopi le forze
di tutti.
E qui potrei
dilungarmi per dimostrare col ragionamento appoggiato ai fatti passati e contemporanei,
come non sia nemmeno vero che quando vi è governo, cioè comando, possa davvero
comandare la maggioranza e come in realtà ogni “democrazia” sia stata, sia e
debba essere niente altro che una “oligarchia”, un governo di pochi, una dittatura.
Ma preferisco, per lo scopo di quest’articolo, abbondare nel senso dei
democratici e supporre che davvero vi possa essere un vero e sincero governo di
maggioranza,
Governo
significa diritto di fare la legge e d’imporla a tutti colla forza: senza
gendarmi non v’è governo. Ora, può una società vivere e progredire
pacificamente, per il maggior bene di tutti, può essa adattare mano mano il suo
modo di essere alle sempre mutevoli circostanze, se la maggioranza ha il
diritto e il modo d’imporre colla forza la sua volontà alle minoranze ricalcitranti?
La maggioranza è
di sua natura arretrata, conservatrice nemica del nuovo, pigra nel pensare e
nel fare e nello stesso tempo è impulsiva, eccessiva, docile a tutte le suggestioni,
facile agli entusiasmi e alle paure irragionevoli, Ogni nuova idea parte da uno
o pochi individui, è accettata, se è un’idea vitale, da una minoranza più o
meno numerosa, e, se mai, arriva a conquistare la maggioranza solo dopo che è
stata superata da nuove idee, da nuovi bisogni, ed è già diventata antiquata e
forse ostacolo anziché sprone al progresso.
Ma vogliamo noi
dunque un governo di minoranza? Certamente che no; che se è ingiusto e dannoso
che la maggioranza opprima le minoranze e faccia ostacolo al progresso è anche
più ingiusto e più dannoso che una minoranza opprima tutta la popolazione od
imponga colla forza le proprie idee, che, anche quando fossero buone, susciterebbero
ripugnanza e opposizione per il fatto stesso di essere imposte.
E poi, non
bisogna dimenticare che di minoranze ve n’è di tutte le specie. Vi sono minoranze
d’egoisti e di malvagi, come ve ne sono di fanatici che si credono in possesso
della verità assoluta e vorrebbero, in piena buona fede del resto, impone agli
altri quello che essi credono la sola via di salvezza e che può anche essere
una semplice sciocchezza. Vi sono minoranze di reazionari, che vorrebbero
tornare indietro e che sono divise intorno alle vie e ai limiti della
reazione, come ci sono minoranze rivoluzionarie, anch’esse divise sui mezzi e
sugli scopi della rivoluzione e sulla direzione che bisogna imprimere al progresso
sociale.
Quale minoranza
dovrà comandare? È una questione di forza brutale e di capacità d’intrigo; e le
probabilità di riuscita non sono a favore dei più sinceri e dei più devoti al
bene generale. Per conquistare il potere ci vogliono delle qualità che non
sono precisamente quelle che occorrono per far trionfare nel mondo la
giustizia e la benevolenza.
Ma io voglio
ancora abbondare in concessioni, e supporre che arrivi al potere proprio
quella minoranza che, fra gli aspiranti al governo, io considero migliore per
le sue idee e i suoi propositi. Voglio supporre che al potere andassero i
socialisti, e direi anche gli anarchici, se non me lo impedisse la
contraddizione in termini.
Peggio che andar
di notte, come si dice volgarmente. Già, per conquistare il potere, legalmente
o illegaLmente, bisogna aver lasciato per istrada buona parte del proprio
bagaglio ideale ed essersi sbarazzati di tutti gl’impedimenti costituiti da
scrupoli morali. E quando poi si è arrivati, il grande affare è di restare al potere,
quindi necessità di cointeressare al nuovo stato di cose e attaccare alle
persone dei governanti una nuova classe di privilegiati, e di sopprimere con
tutti i mezzi possibili ogni specie di opposizione. Magari a fin di bene, ma
sempre con risultati lìberticidi.
Un governo
stabilito, che si fonda sul consenso passivo della maggioranza, forte per il
numero, per la tradizione, per il sentimento, a volte sincero, di essere nel
diritto, può lasciare qualche libertà,
almeno fino a che le classi privilegiate non si sentono in pericolo. Un
governo nuovo, che ha l’appoggio di una, spesso esigua, minoranza, è costretto
per necessità e per paura a essere tirannico.
Basti pensare a
quello che man fatto i socialisti e i comunisti quando sono andati al potere,
sia se vi sono andati tradendo i loro principi e i loro compagni, sia se vi
sono andati a bandiere spiegate, in nome del socialismo e del comunismo .
Ecco perché non
siamo né per un governo di maggioranza, nè per un governo di minoranza; né per
la democrazia, né per la dittatura.
Noi siamo per
l’abolizione del gendarme. Noi siamo per la libertà per tutti, e per il libero
accordo, che non può mancare quando nessuno ha i mezzi per forzare gli altri,
e tutti sono interessati al buon andamento della società. Noi siamo per
l’anarchia.
Sindacalismo e anarchismo[6]
Invitato, quasi forzato da
gentili insistenze, a parlare nella seduta di chiusura del recente congresso
dell’Unione Sindacale Italiana, dissi cose che scandalizzarono i “sindacalisti
puri”, dispiacquero ad alcuni compagni forse perché ritenute inopportune e,
quel che è peggio, riscorsero gli applausi più o meno interessati di altri,
estranei all’Unione Sindacale, che sono molto lontani dalle mie idee e dai miei
propositi. Eppure io non feci che ripetere opinioni da me mille volte espresse
e che mi sembrano far parte integrante del programma anarchico. Gioverà
ritornarci su ancora una volta.
Non bisogna
confondere il “sindacalismo”, che vuol essere una dottrina e un metodo per
risolvere la questione sociale, con la promozione, l’esistenza e le attività
dei sindacati operai.
I sindacati
operai (leghe di resistenza e altre manifestazioni del movimento operaio) sono
indubbiamente utili: sono anzi una fase necessaria dell’ascensione del proletariato.
Essi tendono a dar coscienza ai lavoratori della loro vera posizione di
sfruttati e di schiavi, sviluppano in essi il desiderio di cambiare stato, li
abituano alla solidarietà e alla lotta e, colla pratica della lotta, fanno
comprender loro che i padroni sono i nemici e che il governo è il difensore dei
padroni. I miglioramenti che per mezzo della lotta operaia si possono ottenere
sono certamente piccola cosa, lasciano sussistere il principio dello sfruttamento
e dell’oppressione di una classe da parte di un’altra e sono sempre in pericolo
di essere resi illusori o soppressi addirittura, dal gioco delle forze
economiche prevalenti; ma anche incerti e illusori, quei miglioramenti servono
pure a impedire che la massa si adatti e si abbrutisca in una miseria sempre
eguale, che leva persino la concezione e il desiderio di una vita migliore. E
la rivoluzione quale la vogliamo noi, fatta dalla massa e sviluppatesi per
opera della massa, senza imposizioni di dittature aperte o larvate, mal si
potrebbe produrre e consolidare senza l’esistenza precedente di un largo
movimento di masse.
Del resto,
checché se ne possa pensare, il movimento sindacale è un fatto che s’impone e
non ha bisogno del nostro riconoscimento per esistere. Esso è il frutto naturale,
nelle attuali condizioni sociali, dell’incipiente ribellione degli oppressi; e
sarebbe assurdo, oltre che dannoso, il pretendere che i lavoratori
rinunziassero ai tentativi di ottenere miglioramenti immediati, siano anche
piccoli, in attesa dell’emancipazione totale che dovrà essere il portato della
completa trasformazione sociale fatta per mezzo della rivoluzione. Perciò
noi, in quanto anarchici preoccupati soprattutto della realizzazione del nostro
ideale, lungi dal disinteressarci del movimento operaio, dobbiamo prendervi
parte attiva e cercare ch’esso, pur adattandosi alle necessità contingenti
della piccola lotta quotidiana, si svolga nel modo meno contrastante possibile
con le nostre aspirazioni e diventi sempre più un mezzo efficace di elevamento
morale e di rivoluzione.
Ma tutto questo
non è “il sindacalismo”, che vuol essere una dottrina e una pratica a sé, e
pretende che l’organizzazione operaia, fatta a scopo di resistenza e di lotta
attuale per i miglioramenti attualmente conseguibili, porti naturalmente, col
suo crescere e allargarsi, alla completa trasformazione delle istituzioni
sociali, e sia condizione e garanzia di una società egualitaria e libertaria.
È un fatto
spiegabilissimo la tendenza di ogni uomo di dare massima importanza al lavoro
che fa, al genere di attività ch’egli esercita – e se vi sono di quelli che,
occupandosi di anti-alcolismo, di neomaltusianismo, di riforma alimentare, di
lingua internazionale, ecc. ecc., han finito col vedere nella loro minuscola,
frammentaria propaganda il toccasana di tutti i mali sociali, non v’è davvero
da meravigliarsi se coloro che han dato tutto il loro entusiasmo, tutta la
loro attività a un così importante e vasto movimento come il movimento operaio,
finiscano spesso col fare di esso una panacea, un rimedio universale e
sufficiente. E infatti vi furono, specialmente in Francia, degli anarchici
che, entrati nel movimento operaio con i migliori propositi, per portare la
parola e i metodi nostri in mezzo alle masse, furono poi assorbiti e
trasformati, innalzarono il grido “il sindacalismo basta a se stesso”… e
bentosto cessarono dall’essere anarchici. Senza parlare di coloro che
tradirono coscientemente, cessarono anche di essere sindacalisti e colla scusa
dell’Unione sacra si misero al servizio del governo e dei padroni.
Ma se
l’ubriacatura sindacalista è spiegabile e perdonabile, ciò non è che una ragione
di più per stare in guardia e non prendere per un mezzo unico e sicuro di
rivoluzione, una forma di lotta che ha in sé molta potenzialità rivoluzionaria,
ma può anche, se abbandonata alle sue sole naturali tendenze, divenire uno
strumento di conservazione del privilegio e di adattamento delle masse più
evolute alle presenti istituzioni sociali.
Il movimento operaio, malgrado tutte le sue benemerenze e tutte le sue potenzialità, non può essere per sé stesso un movimento rivoluzionario, nel senso di negazione delle basi giuridiche e morali della società attuale. Esso può, ciascuna nuova organizzazione può, nello spirito degli iniziatori e nella lettera degli statuti, avere le più alte aspirazioni e i più radicali propositi. Ma se vuole esercitare la funzione propria del sindacato operaio, cioè la difesa attuale degli interessi dei suoi membri, essa deve riconoscere di fatto le istituzioni che ha negato in teoria, adattarsi alle circostanze, e tentare di ottenere, volta per volta, il più che può, trattando e transigendo coi padroni e col governo.
In una parola,
il sindacato operaio è, per sua natura, riformista e non già rivoluzionario. Il
rivoluzionarismo vi deve essere immesso, sviluppato e mantenuto per l’opera
costante dei rivoluzionari che agiscono fuori e dentro del suo seno, ma non può
essere l’esplicazione naturale e normale della sua funzione. Al contrario, gli
interessi attuali e immediati degli operai associati, che il sindacato ha missione
di difendere, sono molto spesso in opposizione colle aspirazioni ideali e
avveniristiche e il sindacato può fare opera rivoluzionaria solo se è pervaso
dallo spirito di sacrificio e nella proporzione che l’ideale è messo al di
sopra dell’interesse, cioè solo se nella proporzione che cessa di essere
sindacato economico e diventa gruppo politico e idealistico, il che non è
possibile nelle grandi organizzazioni che per agire han bisogno del
consentimento della massa sempre più o meno egoista, paurosa e retriva.
Né questo è il
peggio. La società capitalistica è talmente costituita che, generalmente
parlando, gli interessi di ciascuna classe, di ciascuna categoria, di ciascun
individuo sono in antagonismo con quelli di tutte le altre classi, di tutte le
altre categorie di tutti gli altri individui. E nella pratica della vita si
verificano i più strani intrecci di armonie e di contrasti di interessi fra classi
e tra individui che dal punto di vista della giustizia sociale dovrebbero
essere sempre amici o sempre nemici. E avviene sovente che, malgrado la
conclamata solidarietà proletaria, gli interessi di una categoria di operai
sono opposti a quelli degli altri operai e armonici con quelli di una categoria
di padroni; come avviene che, malgrado la voluta fratellanza internazionale,
gli interessi attuali degli operai di un dato paese li leghino ai capitalisti
paesani li mettano in lotta contro i lavoratori forestieri: servan d’esempio
gli atteggiamenti delle diverse organizzazioni operaie di fronte alla questione
delle tariffe doganali, e la parte volontaria che le masse operaie prendono
nelle guerre tra gli Stati capitalistici.
Non mi
dilungherò a citare molti esempi di contrasti d’interessi tra le diverse categorie
di produttori e di consumatori, per ragioni di spazio e anche perché mi secca
ripetere quello che ho già detto tante altre volte: antagonismi tra occupati e
disoccupati, tra uomini e donne, tra opera indigeni e operai venuti di fuori,
tra i lavoratori che usufruiscono di un servizio pubblico e i lavoratori che
quel servizio eseguiscono, tra chi sa un mestiere e chi vuole apprenderlo, ecc.
ecc.
Ricorderò qui
specialmente l’interesse che hanno gli operai dei mestieri di lusso alla
prosperità delle classi ricche, e quello di molteplici categorie di lavoratori
delle differenti località a che il “commercio” vada, sia pure a scapito di
altre località e con danno della produzione utile alla massa. E che dire di
quelli che lavorano a cose dannose alla società e ai singoli, quando essi non
hanno altro modo di guadagnarsi da vivere? Andate, in tempo ordinario, quando
non v’è fede in un’imminente rivoluzione, andate a persuadere degli arsenalotti
minacciati dalla mancanza di lavoro a non invocare dal governo la costruzione
di una nuova corazzata. E risolvete, se potete, con mezzi sindacali e facendo
giustizia a tutti, il conflitto tra i facchini dei porti che non hanno altro
mezzo di assicurarsi la vita se non monopolizzando il lavoro a vantaggio di
quelli che già da tempo esercitano il mestiere, e i nuovi arrivati, gli avventizi,
che accampano il loro diritto al lavoro e alla vita!
Tutto questo e
tant’altro che si potrebbe dire mostra che il movimento operaio, per se stesso,
senza il fermento delle idealità rivoluzionarie contrastanti con gli interessi
presenti e immediati degli operai, senza la critica e la spinta dei
rivoluzionari, lungi dal menare alla trasformazione della società a vantaggio
di tutti, tende a fomentare gli egoismi di categoria e a creare una classe di
operai privilegiati sovrapposta alla grande massa dei diseredati. E ciò spiega
il fatto generale che in tutti i paesi le organizzazioni operaie a misura che
si sono ingrandite e irrobustite, sono diventate conservatrici e reazionarie, e
che coloro i quali al movimento operaio han dato i loro sforzi con intenzioni
oneste e avendo in mira una società di benessere e di giustizia per tutti sono
condannati a un lavoro di Sisifo e debbono periodicamente ricominciare da capo.
Non è vero quel
che pretendono i sindacalisti che l’organizzazione operaia di oggi servirà di
quadro alla società futura e faciliterà il passaggio dal regime borghese al regime
ugualitario. È un’idea questa che trovava un favore fra i membri della prima
Internazionale: e, se mal non ricordo, negli scritti di Bakunin si trova detto
che la nuova società si realizzerebbe mediante l’entrata di tutti i lavoratori
nelle Sezioni dell’Internazionale.
Ma a me ciò pare
un errore. I quadri dell’organizzazione operaia attuale corrispondono
alle condizioni odierne della vita economica quale è risultata dall’evoluzione
storica e dalla imposizione capitalistica. E la nuova società non può
realizzarsi, se non rompendo quei quadri e creando organismi nuovi corrispondenti
alle nuove condizioni e ai nuovi fini sociali.
Gli operai sono
aggruppati oggi secondo i mestieri che esercitano, le industrie alle quali
concorrono, secondo i padroni contro cui devono lottare o i commerci ai quali
sono legati. A che cosa serviranno quegli aggruppamenti quando, soppressi i
padroni e sconvolti i rapporti commerciali, buona parte dei mestieri e delle
industrie attuali dovranno sparire, alcuni definitivamente perché inutili e
dannosi, altri temporaneamente perché utili nell’avvenire, non avranno ragion
d’essere e possibilità di vita nel periodo tormentato della crisi sociale? A
che cosa serviranno, tanto per citare un esempio tra mille, le organizzazioni
dei cavatori di marmo di Carrara quando occorrerà che essi cavatori vadano a
coltivare la terra, e ad accrescere i prodotti alimentari, lasciando
all’avvenire la costruzione dei monumenti e dei palazzi marmorei?
Certamente le
organizzazioni operaie, specie nella loro forma cooperativistica (che d’altra
parte in regime capitalistico tende a tagliar le gambe alla resistenza
operaia) possono servire a sviluppare nei lavoratori le capacità tecniche e
amministrative, ma in tempo dì rivoluzione e per la riorganizzazione sociale
debbono sparire e fondersi nei nuovi aggruppamenti popolari che le circostanze
richiederanno. Ed è compito dei rivoluzionari cercare d’impedire che in esse
si sviluppi quello spirito di corpo, che ne farebbe un ostacolo al
soddisfacimento dei nuovi bisogni sociali.
Dunque, secondo
me, il movimento operaio è un mezzo da utilizzare oggi per l’elevazione
e l’educazione delle masse, domani per l’inevitabile urto rivoluzionario, Ma è
un mezzo che ha i suoi inconvenienti e i suoi pericoli. E noi anarchici
dobbiamo adoperarci per neutralizzare gli inconvenienti, parare i pericoli, e
utilizzare più che si può il movimento ai fini nostri.
Ciò non vuol
dire che noi vorremmo, come è stato detto, asservire il movimento operaio al
nostro partito. Certo saremmo contenti che tutti gli operai, che tutti
gli uomini fossero anarchici, il che è il limite estremo a cui tende idealmente
ogni propagandista; ma allora l’anarchia sarebbe un fatto e non ci sarebbe più
luogo per queste discussioni.
Nello stato
attuale delle cose noi vorremmo che il movimento operato, aperto a tutte le propagande
idealistiche e prendendo parte a tutti i fatti della vita sociale, economici,
politici e morali, viva e si sviluppi libero da ogni dominazione di partito,
dal nostro come da quello degli altri.
Per noi non ha
grande importanza che i lavoratori vogliano dì più o di meno: l’importante è
che quel che vogliono, cerchino di conquistarlo da loro, colle loro forze, con
la loro azione diretta contro i capitalisti e il governo.
Un piccolo
miglioramento strappato colla forza propria, vale più per i suoi effetti morali
e, alla lunga, anche per i suoi effetti materiali, che una grande
riforma concessa dal governo o dai capitalisti per fini subdoli o sia anche per
pura e semplice benevolenza.
Aspettando[7]
Aspettando di potere ammanettare,
processarci e... fucilarci, i “Comunisti” dell’Ordine Nuovo di
Torino e del Comunista di Roma fanno
intanto quel poco che possono: si sforzano di calunniarci
Aspiranti al
nobile mestiere di fornitori di carne umana alle galere e ai patiboli, fanno
già da ora i primi esercizi copiando i poliziotti di Russia e d’Italia che
qualificano di malfattori i nemici che vogliono colpire.
Noi protestiamo
contro le persecuzioni a cui sono sottoposti in Russia i compagni nostri e
quanti altri non si piegano al volere del tiranno bolscevico, e il Comunista di Roma spiega subito
coll’evidenza del disegno che noi difendiamo la borghesia russa contro le
rivendicazioni del proletariato.
Noi reclamiamo
in Italia l’uguale libertà per tutti, comunisti, anarchici, fascisti,
clericali, ecc., e l’Ordine Nuovo ci dipinge come se noi
trattenessimo gli operai che si difendono contro gli attacchi proditorii dei
fascisti.
La verità è che
noi lamentiamo il rinnovato imborghesimento della Russia, come lamentiamo la
poca energia della resistenza operaia contro il fascismo. Ma siccome noi non
invochiamo i poliziotti, i “comunisti” non ci capiscono nulla. E vadano una
buona volta a fare i poliziotti
sul serio. È la loro vocazione e forse ci riusciranno.
Comunisti
e fascisti[8]
Non ci scandalizzano le
violenze e pastette elettorali del fascismo. I lavoratori devono guardare in faccia la questione. La concezione
comunista della tattica elettorale e parlamentare logicamente non esclude,
neppure da parte nostra la... pastetta. Se potessimo fare pastette e fugare
elettori avversari dalle urne, sarebbe confortante perché saremmo più vicini a
poter spiegare forze mature per l’offensiva.
Così dice nell’Unità l’ingegnere Bordiga, che aspira a essere Lenin, in copia ridotta,
dell’Italia comunista. E questa è la ragione fondamentale per la quale il fascismo
ha potuto trionfare e continua ancora a imperversare. È mancata – e non
solamente fra quelli che si dicono Comunisti – la rivolta morale contro
l’abuso della forza brutale, contro il disprezzo della libertà e la dignità
umana, che sono la caratteristica del movimento fascista. Troppa gente, anche
tra le vittime, ha pensato: noi faremmo lo stesso se ne avessimo la forza. E
naturalmente molti di quelli che così han pensato si sono sentiti attirati
dalla parte dov’era, o sembrava essere, la forza.
Ma allora, se
trionfassero i comunisti, che differenza vi sarebbe dal fascismo? Gli stessi
prepotenti, gli stessi teppisti, che ora picchiano e bruciano e uccidono in
nome dell’Italia grande accorrerebbero nelle file dei comunisti e
picchierebbero, brucerebbero, ucciderebbero in nome del proletariato; e l’ingegnere Bordiga si troverebbe
nella stessa posizione in cui pare si trovi Mussolini: dopo avere aizzata la
belva per salir su, vorrebbe frenarla per evitare l’immancabile caduta a cui
menano gli eccessi, e non potrebbe.
La rivoluzione
dovrà esser fatta in nome della giustizia, della libertà, della solidarietà umana
e procedere con metodi che s’ispirano alla giustizia, alla libertà e alla
solidarietà. Altrimenti non si farà che cadere da una tirannia in un’altra.
Avevamo già scritto questo commento alle linee di Bordiga, che traemmo
da La
Giustizia di Reggio Emilia, quando ci si
dice che dal contesto dell’articolo di Bordiga quelle parole prendevano un
altro significato. Non abbiamo potuto procurarci il testo dell’articolo, ma
lasciamo passare lo stesso il nostro commento, perché il senso di quelle
parole ci pare troppo chiaro per potere arzigogolarci su. Del resto se anche
Bordiga non voleva dire precisamente quello che ha detto, noi quelle cose, e
anche delle peggiori, ce le siamo intese dire personalmente da molti comunisti.
È bene lo stile della setta.
Il governo
rivoluzionario e la dittatura del proletariato[9]
Carissimo Fabbri,
sulla questione che
preoccupa tanti, quella della dittatura del proletariato, mi pare che siamo
fondamentalmente d’accordo.
A me sembra che
su questa questione l’opinione degli anarchici non potrebbe esser dubbia, e
infatti prima della rivoluzione bolscevista non era dubbia per nessuno. Anarchia
significa non-governo e quindi a maggior ragione non-dittatura, che è governo
assoluto senza controllo e senza limiti costituzionali. Ma quando è scoppiata
la rivoluzione bolscevista parecchi nostri amici hanno confuso ciò che era
rivoluzione contro il governo preesistente, e ciò che era nuovo governo che
veniva a sovrapporsi alla rivoluzione per frenarla e dirigerla ai fini
particolari di un partito – e quasi quasi si sono dichiarati bolscevisti essi
stessi.
Ora, i
bolscevisti sono semplicemente dei marxisti,che sono onestamente e conseguentemente
restati marxisti, a differenza dei loro maestri e modelli, i Guesde, i Plechanov,
i Hyndmann, gli Scheidemann, i Noske, ecc, ecc., che han fatto la fine che tu
sai. Noi rispettiamo la loro sincerità, ammiriamo la loro energia, ma come non
siamo stati mai d’accordo con loro sul terreno teorico, non sapremmo solidarizzarci
con loro quando dalla teoria si passa alla pratica.
Ma forse la
verità è semplicemente questa: che i nostri amici bolscevizzanti
coll’espressione “dittatura del
proletariato” intendono semplicemente il fatto rivoluzionario dei lavoratori
che prendono possesso della terra e degli strumenti di lavoro e cercano di
costituire una società, di organizzare un modo di vita in cui non vi sia posto
per una classe che sfrutti e opprima i produttori. Intesa così, la “dittatura
del proletariato” sarebbe il potere effettivo di tutti i lavoratori intenti ad
abbattere la società capitalistica, e diventerebbe l’anarchia non appena fosse
cessata la resistenza reazionaria e nessuno più tendesse di obbligare con la
forza la massa a ubbidirgli lavorare per lui. E allora il nostro dissenso non
che una questione di parole. Dittatura del proletariato gnificherebbe dittatura
di tutti, vale a dire non sarebbe dittatura, come governo di tutti non è più governo, nel senso autoritario,
storico, pratico della parola.
Ma i partigiani
veri della “dittatura del proletariato” non la intendono così, e ce lo fanno
ben vedere in Russia. Il proletariato naturalmente c’entra come c’entra il
Popolo nei regimi democratici, cioè semplicemente per nascondere l’essenza
reale della cosa. In realtà si tratta della dittatura di un partito, o
piuttosto dei capi di un partito; ed è dittatura vera e propria, coi suoi
decreti, colle sue sanzioni penali, e suoi agenti esecutivi e soprattutto colla
sua forza armate che serve oggi anche a difendere la rivoluzione dai suoi nemici esterni, ma che servirà domani per imporre ai lavoratori la
volontà dei dittatori arrestare la rivoluzione, consolidare i nuovi interessi
che si vanno costituendo e difendere contro la massa una nuova classe privilegiata.
Anche il
generale Bonaparte servì a difendere la rivoluzione francese contro la reazione
europea, ma nel difenderla la strozzò. Lenin, Trockij e compagni sono di sicuro
dei rivoluzionari sinceri, così come essi intendono la rivoluzione,
e non tradiranno; ma essi preparano i quadri governativi che serviranno a
quelli che verranno dopo per profittare della rivoluzione e ucciderla. Essi
saranno le prime vittime del loro metodo, e con loro, io
temo, cadrà la rivoluzione. È la storia che si ripete: mutatis mutandis,
è la dittatura di Robespierre che porta Robespierre alla ghigliottina e
prepara la via a Napoleone.
Queste sono le
mie idee generali sulle cose di Russia. In quanto ai particolari le notizie che
abbiamo sono ancora troppo varie e contraddittorie per potere arrischiare un giudizio. Può anche darsi che molte cose che ci sembrano cattive siano il
frutto della situazione e che nelle circostanze speciali della Russia non fosse
possibile fare diversamente di quello che hanno fatto. È meglio aspettare,
tanto più che quello che noi diremmo non può avere nessuna
influenza sullo svolgimento dei fatti in Russia, e potrebbe in Italia essere
male interpretato e darci l’aria di far eco alle calunnie interessate della
reazione. L’importante è quello che dobbiamo fare noi – siamo sempre lì, io sto
lontano e impossibilitato a fare la parte mia…
La ricetta dei comunisti[10]
Al contrario degli anarchici
vi sotto molti rivoluzionari i quali non hanno fiducia nell’istinto costruttivo
delle masse, credono di avere essi la ricetta infallibile per assicurare la
felicità universale, temono la possibile reazione, temono forse più la
concorrenza di altri partiti e altre scuole di riformatori sociali, e vogliono
perciò impossessarsi del potere e sostituire al governo “democratico” di oggi
un governo dittatoriale.
Dittatura
dunque: ma chi sarebbero i dittatori? Naturalmente, pensano essi, i capi del
loro partito. Dicono ancora, per abitudine contratta o per desiderio cosciente
di evitare le spiegazioni chiare, dittatura del proletariato, ma questa è una
burletta oramai sfatata. Ecco come si spiega Lenin, o chi per lui (vedi Avanti!
del 20 luglio 1920):
“La
dittatura significa l’abbattimento della borghesia per opera di un’avanguardia
rivoluzionaria (questa è la rivoluzione e non già la dittatura) in contrasto
con la concezione che sia anzitutto necessario ottenere una maggioranza nelle
elezioni. Per mezzo della dittatura si ottiene la maggioranza, non già per
mezzo della maggioranza la dittatura.” (E sta bene; ma se è una minoranza che,
impossessatasi del potere, deve poi conquistare la maggioranza è una menzogna
il parlare di dittatura del proletariato. Il proletariato è evidentemente la
maggioranza.)
“La dittatura significa l’impiego della violenza e del terrore.” (Per opera di chi e contro chi? Poiché si suppone la maggioranza ostile e non può trattarsi, nel concetto dittatoriale, di folla scatenata che prende nelle sue mani la Cosa Pubblica, evidentemente la violenza e il terrore dovranno essere praticati contro tutti coloro che non si piegano ai voleri dei dittatori per mezzo di scherani al servizio di essi dittatori.)
“La libertà di stampa e di riunione equivarrebbe ad autorizzare la borghesia ad avvelenare l’opinione pubblica.” (Dunque dopo l’avvento della dittatura del “proletariato” che dovrebbe essere la totalità dei lavoratori, vi sarà ancora una borghesia che invece di lavorare avrà i mezzi di avvelenare “l’opinione pubblica” e un’opinione pubblica da avvelenare estranea a quei proletari che dovrebbero costituire la dittatura? Vi saranno dei censori onnipotenti che giudicheranno di quello che sì può o non si può stampare e dei questori a cui bisognerà domandare il permesso per tenere un comizio. Inutile dire quale sarebbe la libertà lasciata a chi non è ligio ai dominatori del momento.)
“Soltanto dopo la espropriazione degli espropriatori, dopo la vittoria, il proletariato attirerà a sé le masse della popolazione che prima seguiva la borghesia”. (Ma ancora una volta, che cosa è questo proletariato che non è la massa che lavora? Proletariato non significa dunque chi non ha proprietà, ma chi ha certe date idee e appartiene a un dato partito?)
Lasciamo dunque questa falsa
espressione di dittatura del proletariato atta a produrre tanti equivoci e
discutiamo della dittatura quale essa è veramente, cioè il governo assoluto di
uno o più individui i quali, appoggiandosi su un partito o su un
esercito, s’impadroniscono della forza sociale e impongono “colla violenza e
col terrore” la loro volontà. Quale sarà questa volontà dipende dalla specie di
persone che all’atto pratico riusciranno a impossessarsi del potere. Nel caso
nostro si suppone che sarà la volontà dei comunisti e quindi una volontà
ispirata al desiderio del bene di tutti.
È già una cosa
molto dubbia, poiché generalmente gli uomini meglio dotati delle qualità
necessarie per arraffare il potere non sono i più sinceri e i più devoti alla
causa pubblica; e se si predica alle masse la necessità di sottomettersi a un
nuovo governo non si fa che spianare la via agli intriganti e agli ambiziosi.
Ma supponiamo pure che i nuovi governanti, i dittatori che dovrebbero
realizzare gli scopi della rivoluzione siano dei veri comunisti, pieni di zelo,
convinti che dall’opera loro, dall’energia loro dipenda la felicità del genere
umano. Sarebbero degli uomini sul tipo dei Torquemada e dei Robespierre che, a
fine di bene, in nome della salute privata o pubblica, soffocherebbero ogni
voce discorde, distruggerebbero ogni alito di vita libera e spontanea: e poi,
impotenti a risolvere i problemi pratici da loro sottratti alla competenza
degli interessati, dovrebbero per amore e per forza lasciare il posto ai
restauratori del passato.
La grande
giustificazione della dittatura sarebbe l’incapacità delle masse e la necessità
di difendere la rivoluzione dai tentativi reazionari. Se davvero le masse
fossero armento bruto incapace di vivere senza il bastone del pastore, se non
vi fosse già una minoranza sufficientemente numerosa e cosciente capace di
trascinare le masse colla predicazione e coll’esempio, allora comprenderemmo
meglio i riformisti, i quali temono la sollevazione popolare e s’illudono di
potere poco a poco, a forza di piccole riforme, che sono poi piccoli rammendi,
minare lo Stato borghese e preparare le vie al socialismo! Comprenderemmo
meglio gli educazionisti che non valutando abbastanza l’influenza dell’ambiente
sperano di poter cambiare la società cambiando prima tutti gli individui; non
potremmo comprendere affatto i partigiani della dittatura, che vogliono
educare ed elevare le masse “colla violenza e col terrore” e dovrebbero
elevare a primi fattori di educazione i gendarme e i censori.
In realtà
nessuno potrebbe istituire la dittatura rivoluzionaria se prima il popolo non
avesse fatta la rivoluzione, mostrando così a fatti la sua capacità di
farla; e allora la dittatura non farebbe che sovrapporsi alla
rivoluzione, sviarla, soffocarla e ucciderla.
In una
rivoluzione politica in cui si mira solo a buttare giù il governo
lasciando in piedi tutta l’organizzazione sociale esistente, può una dittatura
impossessarsi del potere, mettere i suoi uomini al posto dei funzionari
scacciati e organizzare dall’alto il nuovo regime. Ma in una rivoluzione
sociale, dove sono rovesciate tutte le basi della convivenza sociale, dove la
produzione indispensabile deve essere ripresa subito per conto e vantaggio dei
lavoratori, dove la distribuzione deve essere immediatamente regolata secondo
giustizia, la dittatura non potrebbe far nulla. O il popolo provvederebbe da sé
nei diversi comuni e nelle diverse industrie, o la rivoluzione sarebbe
fallita.
Forse in fondo i partigiani
della dittatura (e già alcuni lo dicono apertamente) non desiderano subito che
una rivoluzione politica, vale a dire che vorrebbero senz’altro impossessarsi
del potere e poi gradualmente trasformare la società per mezzo di leggi e di
decreti. In tal caso essi avrebbero probabilmente la sorpresa di vedere al
potere ben altri che loro stessi; e in tutti i casi dovrebbero prima d’ogni
altra cosa pensare a organizzare la forza armata (i poliziotti) necessaria
a imporre il rispetto delle loro leggi. Intanto la borghesia che sarebbe
restata sostanzialmente la detentrice della ricchezza, superato il momento critico
dell’ira popolare, preparerebbe la reazione, riempirebbe la polizia di propri
agenti, sfrutterebbe il disagio e la disillusione di coloro che si aspettavano
l’immediata realizzazione del paradiso terrestre… e ripiglierebbe il potere o
attirando a sé i dittatori, o sostituendoli con uomini suoi.
Quella paura
della reazione, addotta a giustificazione del regime dittatoriale, dipende appunto
dal fatto che si pretende fare la rivoluzione lasciando sussistere ancora una
classe privilegiata in condizione di poter riprendere il potere. Se invece
s’incomincia con l’espropriazione completa, allora borghesi non ve ne sarà più;
e tutte le forze vive del proletariato, tutte le capacità esistenti saranno
impiegate nell’opera di ricostruzione sociale.
Del resto, in un
paese come l’Italia (per applicare il già detto al paese in cui svolgiamo la
nostra attività), in un paese come l’Italia, dove le masse sono pervase da
istinti libertari e ribelli, dove gli anarchici rappresentano una forza
considerevole, più che per le loro organizzazioni, per l’influenza che possono
esercitare, un tentativo di dittatura non potrebbe essere tatto senza scatenare
la guerra civile tra lavoratori e lavoratori e non potrebbe trionfare se non
per mezzo della più feroce tirannia. Allora, addio comunismo! Non v’è che una
via oossibile di salvezza: la Libertà.
Lutto o
festa?[11]
Lenin è morto. Noi possiamo
avere per lui quella specie di ammirazione forzata che strappano alle folle gli
uomini forti, anche allucinati, anche se malvagi, che riescono a lasciare nel
storia una traccia profonda del loro passaggio: Alessandro Giulio Cesare,
Cromwell, Robespierre, Napoleone. Ma egli, sia pure colle migliori intenzioni,
fu un tiranno, lo strangolatore della rivoluzione russa – e noi che non potemmo
amarlo vivo, non possiamo piangerlo morto. Lenin è morto. Viva la libertà.
Senilità e infantilismo[12]
Un tale che firma “Un
operaio comunista”) sorge a difendere la dittatura bolscevica in Bandiera
Rossa di Fano; e siccome io chiamai barbarica tale dittatura, egli crede
di dire qualche cosa dicendo che (questa sconcia espressione dimostra la
senilità del Malatesta). In ricambio, io voglio dare a quel giovanotto (al
quale del resto auguro d’avere in corpo ancora tanta vitalità quanta ne ho io)
una piccola lezione sull’arte del ragionare. Forse s’accorgerà che non basta
esser giovane per avere il cervello a posto.
Egli dice: “gli
anarchici dicono che la pretesa dittatura del proletariato altro non è che
la dittatura di pochi uomini sulla massa dei lavoratori. E qui è il grave
errore nel quale gli anarchici incaponiscono. Debellata la borghesia e restando
vincitore il proletariato, è il proletariato stesso che provvede alla gestione
della cosa pubblica mediante i propri rappresentanti eletti dai consigli degli
operai dei contadini: è il proletariato stesso che sostituisce la borghesia
nella gestione del potere.”
E se s’intende
che il “proletariato” non sarebbe più proletariato poiché avrebbe preso possesso
della terra, degli strumenti di lavoro e di tutta la ricchezza sociale, e che
“il potere” sarebbe non la imposizione forzata della volontà di alcuni su
quella della massa popolare, ma la facoltà effettiva di ciascuno di concorrere
mediante liberi accordi alla gestione degli interessi generali, noi potremmo
ancora accettare la formula del giovanotto di Bandiera Rossa.
In ogni modo,
che noi consentissimo o no, e ciò dipenderebbe dal modo come quella formula
sarebbe applicata, vi è in essa una concezione della vita sociale che non ha
niente di barbarico. Ma allora, perché poi il sullodato giovanotto salta su a
parlare di un “periodo transitorio di dittatura” il quale dovrebbe provvedere
alla soluzione dei problemi urgenti dell’indomani dell’atto rivoluzionario?
Se la dittatura
cara ai comunisti non è, come pretendono gli anarchici, la dittatura di
pochi uomini sulla massa dei lavoratori ma significa realmente la gestione
della cosa pubblica esercitata da tutti i lavoratori, cioè da tutti gli uomini
(perché tutti dovrebbero lavorare), come mai questa dittatura non
sarebbe che una cosa transitoria?
Non vede il
pargoletto da Fano in quale contraddizione egli si è ingarbugliato per voler
persistere a negare che, provvisoriamente o no, quel che vogliono i
comunisti, e quello che avviene in Russia, non è il passaggio del “potere”
nelle mani dei lavoratori, ma la dittatura dei capi del loro partito?
E giacché mi
sono scomodato per dare a chi forse non la capirà una lezione di logica, voglio
dargli anche una lezione di educazione. Il dire che è “malafede” il concepire
in modo diverso dal suo il passaggio dalla società borghese a quella
libertaria, è cosa che si può perdonare a un bambino irresponsabile ma non è
degna certamente di un uomo serio, sia pure molto giovane.
Se i comunisti
dì Fano sono contenti di certi campioni da asilo infantile, si accomodino pure.
Ma perché mai questi bollenti Achilli del bolscevismo hanno tanta cura di
nascondere i loro nomi? Per degli aspiranti dittatori è davvero troppa
modestia.
ANARCHISMO
E DEMOCRAZIA
Democrazia
e anarchia[13]
I governi dittatoriali che
imperversano in Italia, in Spagna, in Russia e che provocano l’invidia e il
desiderio delle frazioni più reazionarie o più pavide dei diversi paesi, stan facendo
alla già esautorata “democrazia” una specie di nuova verginità. Perciò vediamo
vecchi arnesi di governo, adusati a tutte le male arti della politica,
responsabili di repressioni e di stragi contro il popolo lavoratore, farsi innanzi,
quando non ne manca loro il coraggio, come uomini di progresso e cercare di
accaparrare il prossimo avvenire in nome dell’idea liberale. E, data la
situazione, potrebbero anche riuscirvi.
I dittatoriali hanno buon giuoco
quando criticano la democrazia e mettono in rilievo tutti i suoi vizi e le sue
menzogne. E io ricordo quel tale Herrnann Sandomirski, l’anarchico bolscevizzante
con cui avemmo dei contatti agrodolci all’epoca della conferenza di Genova e
che ora cerca di appaiare Lenin nientemeno che con Bakunin, ricordo, dico, che
il Sandomirski per difendere il regime russo tirava fuori tutto il suo
Kropotkin a dimostrare che la democrazia non è la migliore tra le costituzioni
sociali immaginabili. Poiché si trattava di un russo, il suo modo di ragionare
mi rimetteva in mente, e credo che glielo dissi, un ragionamento simile che
facevano certi suoi compatrioti quando per rispondere all’indignazione del
mondo civile contro lo zar che faceva denudare, fustigare e impiccare delle
donne, sostenevano l’eguaglianza dei diritti e quindi delle responsabilità
negli uomini e nelle donne. Quei provveditori di carceri e di patiboli si ricordavano
dei diritti della donna solo quando potevano servire di pretesto a nuove infamie!
Così i dittatoriali si mostrano avversari dei governi democratici solo quando
hanno scoperto che v’è una forma di governo che lascia ancora più libero campo
agli arbitri e alle prepotenze degli uomini che riescono a impossessarsi del
potere.
Non v’è dubbio,
secondo me, che la peggiore delle democrazie è sempre preferibile, non fosse
che dal punto di vista educativo, alla migliore delle dittature. Certo la democrazia,
il cosiddetto governo di popolo, è una menzogna, ma la menzogna lega sempre un
po’ il mentitore e ne limita l’arbitrio; certo il “popolo sovrano” è un sovrano
da commedia, uno schiavo con corona e scettro di cartapesta, ma il credersi
libero anche senza esserlo val sempre meglio che i sapersi schiavo e accettare
la schiavitù come cosa giusta inevitabile.
La democrazia è
menzogna, è oppressione, è in realtà oligarchia, cioè governo di pochi a
benefizio di una classe privilegiata; ma possiamo combatterla noi in nome della
libertà e dell’uguaglianza, e non già coloro che vi han sostituito o vogliono
sostituirvi qualche cosa di peggio.
Noi non
siamo democratici, fra le altre ragioni perché essa presto o tardi conduce
alla guerra e alla dittatura, come non siamo dittatoriali, fra l’altro, perché
la dittatura fa desiderare la democrazia, ne provoca il ritorno e così tende a
perpetuare quest’oscillare delle società umane dalla franca e brutale tirannia
a una pretesa libertà falsa e bugiarda. Dunque guerra alla dittatura e guerra
alla democrazia.
Maggioranze e minoranze[14]
A. Ca. di Brescia Nuova
(il quale riassume a modo suo il pensiero altrui e poi mette il suo riassunto
tra virgolette come se si trattasse di una citazione letterale) perde
completamente la bussola quando vuoi occuparsi delle idee degli anarchici
relativamente alla questione del diritto delle maggioranze e delle minoranze.
Secondo lui gli
anarchici non volendo la dittatura (egli ci fa dire dittatura proletaria,
mentre noi stiamo continua mente protestando contro questa espressione che
è tanto bugiarda, quanto quella di Governo Popolare usata dai democratici)
debbono o rimandare la rivoluzione a quando tutto il genere umano avrà
concepito l’ideale anarchico, o debbono supporre che dopo ventiquattro ore di
rivolta tutti diventino immediatamente anarchici.
Cerchiamo di fargli capire.
Naturalmente
l’insurrezione che deve abbattere il potere governativo e rendere
possibile l’espropriazione della borghesia e tutto il rivolgimento
rivoluzionario si farà e vincerà... quando avrà forze sufficienti. In molti o
in pochi, maggioranza o minoranza, favoriti o meno dalle circostanze, si
vince, quando si vince. La lotta attiva è sempre tra minoranze: da una parte il
governo che usa per la sua opera di repressione la parte più incosciente del
proletariato e tutti i mezzi che il possesso del potere sociale mette a sua
disposizione; dall’altra i rivoluzionari, i quali, sposando gli interessi e le
passioni delle masse, rinforzandosi man mano colla propaganda e
coll’organizzazione , cercano di utilizzare tutte le circostanze favorevoli
per abbatte re il governo.
Ma dopo? Per i
non anarchici, per gli autoritari, socialisti o non socialisti, la Cosa è
semplice: essi intendono mettersi al posto dei governanti caduti e servirsi,
come fa qualsiasi governo, delle forze sociali, delle forze di tutti per
imporre colla violenza il proprio programma: il che significa in pratica gli
interessi propri e quelli dei propri amici e della propria clientela.
Gli anarchici
invece intendono conquistare la libertà per tutti, la libertà effettiva,
s’intende, la quale suppone i mezzi per esser liberi, i mezzi per poter vivere
senza essere obbligati di mettersi alla dipendenza di uno sfruttatore,
individuale o collettivo.
Noi non
riconosciamo il diritto della maggioranza di far la legge alla minoranza, anche
se la volontà della maggioranza fosse, in questioni un po’ complesse,
realmente accertabile. Il fatto di avere la maggioranza non dimostra niente
affatto che uno ha ragione, che anzi l’umanità è stata sempre sospinta in
avanti dall’iniziativa e dall’opera d’individui e di minoranze, mentre la
maggioranza è di sua natura lenta, conservatrice, ubbidiente a chi è più forte,
a chi si trova in posizioni vantaggiose precedentemente acquisite.
Ma se non
ammettiamo affatto il diritto delle maggioranze a dominare le minoranze, respingiamo
anche più il diritto delle minoranze a dominare le maggioranze. Sarebbe
assurdo sostenere che si ha ragione perché si è minoranza. Se v’è in tutte le
epoche delle minoranze avanzate e progressiste v’è anche delle minoranze
arretrate e reazionarie; se vi sono degli uomini geniali che precedono i tempi,
vi sono anche dei pazzi, degli imbecilli e specialmente degli inerti che si
lasciano trascinare incoscientemente dalla corrente in cui si trovano.
Del resto non è
questione di aver ragione o torto: è questione di libertà, libertà per tutti,
libertà per ciascuno purché non violi l’eguale libertà degli altri. Nessuno
può giudicare in modo sicuro chi ha ragione o torto, chi e più vicino alla
verità e quale via conduce meglio al maggior bene per ciascuno e per tutti. La
libertà è il solo mezzo per arrivare, mediante l’esperienza, al vero ed al meglio:
e non vi è libertà se non vi è la libertà dell’errore.
Per noi dunque
bisogna arrivare alla pacifica e proficua convivenza tra maggioranza e
minoranza mediante il libero accordo, la mutua condiscendenza, il
riconoscimento intelligente delle necessità pratiche della vita collettiva e
dell’utilità delle transazioni che le circostanze rendono necessarie.
Noi non vogliamo
imporre niente a nessuno, ma non intendiamo sopportare imposizioni di alcuno.
Felicissimi di veder fare da altri quello che non potremo far noi, pronti a
collaborare cogli altri in tutte quelle cose quando riconosciamo che da noi non
potremmo far meglio, noi reclamiamo, noi vogliamo, per noi e per tutti la
libertà di propaganda di organizzazione di sperimentazione.
La forza bruta,
la violenza materiale dell’uomo contro l’uomo deve cessare di essere un fattore
della vita sociale. Noi non vogliamo, e non sopporteremmo gendarmi, né
rossi, né gialli, né neri. Siamo intesi?
ANARCHISMO
E FASCISMO
Il fascismo e la legalità[15]
Alcuni compagni provenienti
dalle regioni più travagliate dalla delinquenza fascista si sono meravigliati
e magari indignati perché noi abbiam detto, e diciamo, che preferiamo la
violenza sfrenata alla repressione legale, il disordine all’ordine borghese,
la licenza alla tirannia. In una parola, i fascisti ai carabinieri.
Naturalmente non
intendiamo parlare di fascisti e di carabinieri presi come individui. I carabinieri
e le guardie regie sono il più delle volte dei poveri disgraziati vittime delle
circostanze, più degni di pietà che d’odio e di disprezzo, ed è probabile che
personalmente siano migliori dei peggiori tra i fascisti. Noi parliamo dei carabinieri
e degli altri corpi di polizia ufficiali in quanto sono i custodi ed esecutori
della legge, in quanto rappresentano la forza esecutiva dello Stato, in quanto
fanno i carabinieri sul serio – ché nel fatto attuale è frequente il caso in
cui i carabinieri fanno da fascisti come i fascisti fanno da carabinieri. E ci
pare naturale per degli anarchici l’avversare principalmente tutto ciò che
serve a dare autorità, prestigio, forza allo Stato, e trovare del buono in ciò
che discredita e indebolisce lo Stato, anche se è fatto coll’intenzione di
difenderlo.
Ora, noi
comprendiamo lo stato d’animo di quei compagni che considerano come il bisogno
più urgente del momento la distruzione del fascismo e il ritorno alla “normalità”,
e non vorremmo, noi che viviamo in condizioni di relativa sicurezza, farci
giudici di chi è tutti i giorni minacciato e offeso nella dignità, nella
persona, nella casa, nella famiglia. Se uno è aggredito di notte e si trova in
pericolo di vita senza possibilità di difendersi, è naturalmente tutto contento
all’apparire di due lucerne di carabiniere che mettono in fuga i malfattori.
Ciò è umano e accadrebbe a noi come a tutti gli uomini normali: è l’istinto di
conservazione che reagisce contro il pericolo immediato e non lascia luogo e
tempo a considerazioni d’ordine generale e avveniristiche. Ma dal fatto singolo
dei carabinieri che ci salvano da una aggressione ci parrebbe davvero esagerato
il voler dedurre che nell’opera complessa e generale i carabinieri sono meno
dannosi alla società di quello che siano i delinquenti.
Nessuno vorrà sospettarci di indulgenza per il fascismo, milizia irregolare della borghesia e dello Stato, che in un dato momento ha fatto, fa o farà quello che il governo non potrebbe fare senza rinnegare la legge e svelare troppo apertamente e con troppo pericolo la sua vera natura. Nessuno vorrà mettere in dubbio il nostro vivo desiderio di veder debellato il fascismo e la nostra ferma volontà di concorrere, come possiamo, a debellarlo. Ma noi non vorremmo abbattere il fascismo per sostituirgli qualche cosa di peggio, e peggio del fascismo sarebbe il consolidamento dello Stato.
I fascisti
bastonano, incendiano, uccidono, violano ogni libertà, calpestano nel modo più
oltraggioso la dignità dei lavoratori. Ma, francamente, tutto il male che il
fascismo ha fatto in questi ultimi due anni e che farà in quel tempo che i
lavoratori gli lasceranno di vita, è forse paragonabile al male che lo Stato ha
fatto, tranquillamente, normalmente, per anni innumerevoli e che fa e farà fino
a che avrà esistenza?
Anche lasciando
da parte il fatto essenziale che lo Stato è il difensore del privilegio
e quindi la causa per cui il proletariato permane nelle condizioni di miseria
e di abiezione in cui si trova, e parlando solo della violenza più appariscente,
delle violazioni di libertà, delle offese alla dignità, delle sofferenze
fisiche e morali inflitte, degli omicidi commessi dallo Stato e dal fascismo,
suo figlio illegittimo, quale dei due è il più colpevole? Abbiamo bisogno di
ricordare le galere piene d’innocenti, le bastonature e torture d’ogni genere
inflitte, nelle questure e nelle caserme dei carabinieri, le uccisioni, direi
quasi regolari, che commette la forza pubblica nei comizi e dimostrazioni
popolari? Si contino un po’ le vittime e si vedrà da che parte pende la
bilancia. E questo senza parlare delle guerre, che gli Stati provocano
periodicamente, e dei grandi massacri che seguono ogni tentativo fallito di riscossa
popolare.
Bisogna dunque uccidere il fascismo, ma ucciderlo direttamente, per forza di popolo, senza invocare l’aiuto dello Stato, in modo che lo Stato ne riesca non già rafforzato, ma maggiormente discreditato e indebolito. Del resto, mi pare ridicolo domandare allo Stato la soppressione del fascismo, quando è notorio che il fascismo è stato una creazione della borghesia e del governo, che non avrebbe potuto nascere e vivere un giorno senza la protezione e l’aiuto dei carabinieri e che non sarebbe soppresso, volontariamente, dal governo se non quando questo si sentisse abbastanza forte per farne a meno… salvo a risuscitarlo di nuovo quando ne risorgesse il bisogno.
Voler sopprimere il fascismo
per mezzo del governo sarebbe come combattere un sintomo di una malattia aggravando
le cause che producono la malattia stessa.
La
situazione[16]
Mussolini continua a
troneggiare e il parlamento striscia più che mai ai suoi piedi. I pieni
poteri sono stati accordati colla premura di servi che gareggiano in bassezza.
Mussolini aveva detto: “datemeli o me li piglio”, e nessuno ha avuto la dignità
di rispondere: pigliateveli ma non ci costringete a far la parte in commedia
di padroni, quando noi siam servi e ci compiacciamo di esserlo.
Gli stessi
socialisti non han capito che non possono restare dignitosamente in
un’assemblea che funziona sotto il terrore del manganello o della dissoluzione,
e dove l’opposizione non può essere che una farsa.
La dittatura
trionfa: dittatura di avventurieri senza scrupoli e senza ideali, che è
arrivata al potere e vi resta per la disorientazione delle masse proletarie e
per la trepida avarizia della classe borghese in cerca di un salvatore Ma
tutti sentono che la situazione è tale da non poter durare, e i conservatori
più illuminati, pur facendo i dovuti omaggi ai padroni dell’ora e tradendo a
ogni parola la paura che li domina, domandano la restaurazione dello “Stato
liberale”, cioè il ritorno alle menzogne costituzionali.
I detti
conservatori comprendono certamente tutto l’umorismo che v’è nel domandare un
regime di libertà, sia pure limitata, a gente che ha costume d’imporre la propria
volontà col manganello, l’olio di ricino e peggio a persone fatte prima
prudentemente disarmare; ma essi non si curano della libertà. Quello che
vogliono è un regime, quale i regimi cosiddetti Costituzionali che riesca a
far credere al popolo che esso è libero, e assicuri così ai proprietari e ai
governanti il tranquillo godimento dei loro privilegi.
Il metodo col
quale Mussolini è arrivato al potere non permette l’inganno; ed è questo che
tormenta le anime candide dei conservatori.
Mussolini, se
riesce a Consolidare il suo potere, farà né più né meno quello che farebbe un
qualsiasi altro ministro:servirà gli interessi della classe privilegiata… e si
farà pagare i suoi servizi. Ma non farà credere a nessuno ch’egli è arrivato
al governo per volontà di popolo. La sua tirannide è troppo recente per poterne
nascondere l’origine: forse per questo la sua torbida coscienza gli consiglia
di fare appello a Dio!
Dei progetti e
propositi, attuali o no, sinceri o meno, del nuovo governo non vogliamo
occuparci. È sempre il solito rimasticamento di vecchie imposture: il vecchio
tentativo di riparare una casa che crolla con una mano di pittura.
Per noi il solo
cambiamento importante è questo: eravamo nemici del governo perché il governo
non è che il difensore armato di tutte le ingiustizie sociali, il creatore
d’ingiustizie nuove, il nemico della libertà, l’ostacolo materiale sul cammino
della civiltà. Ed eravamo nemici del fascismo perché è un movimento inteso a
difendere i privilegi borghesi, ad impedire l’ascesa proletaria, a soffocare
ogni aspirazione verso una società più giusta e più libera, e si serviva per
raggiungere i suoi scopi di mezzi brutali, feroci e vili. Adesso governo e
fascismo sono diventati la stessa cosa e sono formati dallo stesso personale:
non vi è dunque più possibilità di esitazione come quando quelle due forze di oppressione
sembravano in contrasto tra di loro.
Situazione
semplificata: tanto meglio. Tanto meglio se questo può servire a riunire tutte
le forze di progresso nella lotta contro la barbarie trionfante.
A coronamento di una lunga
serie di delitti, il fascismo si è infine insediato al governo. E Mussolini, il
duce, tanto per distinguersi, ha cominciato col trattare i deputati al parlamento
come un padrone insolente tratterebbe dei servi stupidi e pigri.
Il parlamento,
quello che doveva essere “il palladio della libertà”, ha dato la sua misura.
Questo ci lascia perfettamente indifferenti. Tra un gradasso che vitupera e
minaccia, perché si sente al sicuro, e un’accolita di vili che pare si delizi
nella sua abiezione, noi non abbiamo da scegliere. Constatiamo soltanto – e non
senza vergogna – quale specie di gente è quella che ci domina e al cui giogo
non riusciamo a sottrarci.
Ma quale è il
significato, quale la portata, quale il risultato probabile di questo nuovo modo
di arrivare al potere in nome e in servizio del re, violando la costituzione
che il re aveva giurato di rispettare e di difendere?
A parte le pose
che vorrebbero parere napoleoniche e non sono invece che pose da operetta,
quando non sono atti da capobrigante, noi crediamo che in fondo non vi sarà
nulla di cambiato, salvo per un certo tempo una maggiore pressione poliziesca
contro i sovversivi e contro i lavoratori. Una nuova edizione di Crispi e di
Pelloux. E sempre la vecchia storia del brigante che diventa gendarme!
La borghesia,
minacciata dalla marea proletaria che montava, incapace a risolvere i problemi
fatti urgenti dalla guerra, impotente a difendersi coi metodi tradizionali della
repressione legale, si vedeva perduta e avrebbe salutato con gioia un qualche
militare che si fosse dichiarato dittatore e avesse affogato nel sangue ogni
tentativo di riscossa. Ma in quei momenti, nell’immediato dopoguerra, la cosa
era troppo pericolosa, e poteva precipitare la rivoluzione anziché abbatterla.
In ogni modo, il generale salvatore non venne fuori, o non ne venne fuori che
la parodia. Invece vennero fuori degli avventurieri che, non avendo trovato nei
partiti sovversivi campo sufficiente alle loro ambizioni e ai loro appetiti,
pensarono di speculare sulla paura della borghesia offrendole, dietro adeguato
compenso il soccorso di forze irregolari che, se sicure dell’impunità potevano
abbandonarsi a tutti gli eccessi contro i lavoratori senza compromettere direttamente
la responsabilità dei presunti beneficiari delle violenze commesse. E la
borghesia accettò, sollecitò, pagò il loro concorso: il governo ufficiale, o
almeno una parte degli agenti del governo, pensò a fornir loro le armi, ad
aiutarli quando in un attacco stavano per avere la peggio, ad assicurar loro
l’impunità e a disarmare preventivamente coloro che dovevano essere attaccati.
I lavoratori non
seppero opporre la violenza alla violenza perché erano stati educati a credere
nella legalità, e perché, anche quando ogni illusione era diventata impossibile
e gli incendi e gli assassini si moltiplicavano sotto lo sguardo benevolo
delle autorità, gli uomini in cui avevano fiducia predicarono loro la
pazienza, la calma, la bellezza e la saggezza di farsi battere “eroicamente”
senza resistere – e perciò furono vinti e offesi negli averi, nelle persone,
nella dignità, negli affetti più sacri.
Forse, quando
tutte le istituzioni operaie erano state distrutte, le organizzazioni
sbandate, gli uomini più invisi e considerati più pericolosi uccisi o
imprigionati o comunque ridotti all’impotenza, la borghesia e il governo avrebbero
voluto mettere un freno ai nuovi pretoriani che oramai aspiravano a diventare i
padroni di quelli che avevano serviti. Ma era troppo tardi. I fascisti oramai
sono i più forti e intendono farsi pagare a usura i servizi resi. E la
borghesia pagherà, cercando naturalmente di ripagarsi sulle spalle del proletariato.
In conclusione,
aumentata miseria, aumentata oppressione. In quanto a noi, non abbiamo che da
continuare la nostra battaglia, sempre pieni di fede, pieni di entusiasmo. Noi
sappiamo che la nostra via è seminata di triboli, ma la scegliemmo coscientemente
e volontariamente, e non abbiamo ragione per abbandonarla. Così sappiano tutti
coloro i quali han senso di dignità e pietà umana e vogliono consacrarsi alla
lotta per il bene di tutti, che essi debbono essere preparati a tutti i
disinganni, a tutti i dolori, a tutti i sacrifici.
Poiché non
mancano mai di quelli che si lasciano abbagliare dalle apparenze della forza e
hanno sempre una specie di ammirazione segreta per chi vince, vi sono anche
dei sovversivi i quali dicono che “i fascisti ci hanno insegnato come si fa la
rivoluzione”.
No, i fascisti
non ci hanno insegnato proprio nulla. Essi hanno fatto la rivoluzione, se
rivoluzione si vuol chiamare, col permesso dei superiori e in servizio dei superiori.
Tradire i propri amici, rinnegare ogni giorno le idee professate ieri, se così
conviene al proprio vantaggio, mettersi al servizio dei padroni, assicurarsi
l’acquiescenza delle autorità politiche e giudiziarie, far disarmare dai
carabinieri i propri avversari per poi attaccarli in dieci contro uno, prepararsi
militarmente senza bisogno di nascondersi, anzi ricevendo dal governo armi,
mezzi di trasporto e oggetti di casermaggio, e poi esser chiamato dal re e
mettersi sotto la protezione di dio… è tutta roba che noi non potremmo e non vorremmo
fare. Ed è tutta roba che noi avevamo preveduto che avverrebbe il giorno in
cui la borghesia si sentisse seriamente minacciata.
Piuttosto
l’avvento del fascismo deve servire di lezione ai socialisti legalitari, i
quali credevano, e ahimè! credono ancora, che si possa abbattere la borghesia
mediante i voti della metà più uno degli elettori, e non vollero crederci
quando dicemmo loro che se mai raggiungessero la maggioranza in parlamento e
volessero – tanto per fare delle ipotesi assurde – attuare il socialismo dal
parlamento, ne sarebbero cacciati a calci nel sedere!
Perché il fascismo vinse e perché
continua a spadroneggiare in Italia[18]
La forza materiale può
prevalere sulla forza morale, può anche distruggere la più raffinata civiltà se
questa non sa difendersi con mezzi adatti contro i ritorni offensivi della barbarie.
Ogni bestia feroce può sbranare un galantuomo fosse anche un genio,
un Galileo o un Leonardo, se questi è tanto ingenuo da credere che può frenare
la bestia mostrandole un’opera d’arte o annunziandole una scoperta scientifica.
Però la brutalità difficilmente trionfa, e in tutti i
casi, i suoi successi non sono stati mai generali e duraturi, se non riesce ad
ottenere un certo consenso morale, se gli uomini civili la riconoscono per
quella che è, e, se anche impotenti a debellarla, ne rifuggono come da cosa
immonda e ripugnante.
Il fascismo che
compendia in sé tutta la reazione e richiama in vita tutta l’addormentata
ferocia atavica ha vinto perché ha avuto l’appoggio finanziario della borghesia
grassa e l’aiuto materiale dei vari governi che se ne vollero servire contro la
incalzante minaccia proletaria; ha vinto perché ha trovato contro di se una
massa stanca, disillusa e fatta imbelle da una cinquantenaria propaganda
parlamentaristica; ma soprattutto ha vinto perché le sue violenze e i suoi
delitti hanno bensì provocato l’odio e lo spirito di vendetta degli offesi ma
non hanno suscitato quella generale riprovazione, quella indignazione
quell’orrore morale che ci sembrava dovesse nascere spontaneamente in ogni
animo gentile. Purtroppo non vi potrà essere riscossa materiale se prima non
v’è rivolta morale.
Diciamolo
francamente per quanto sia doloroso il constatarlo. Fascisti ve ne sono anche
fuori del partito fascista, ve ne sono in tutte le classi e in tutti i
partiti: vi sono cioè dappertutto delle persone che pur non essendo
fascisti, pur essendo antifascisti, hanno però l’anima fascista, lo stesso
desiderio di sopraffazione che distingue i fascisti.
Ci accade, per
esempio, d’incontrare degli uomini che si dicono e si credono rivoluzionari e
magari anarchici i quali per risolvere una qualsiasi questione affermano con
fiero cipiglio che agiranno fascisticamente, senza sapere, o sapendo troppo,
che ciò significa attaccare, senza preoccupazione di giustizia, quando si è
sicuri di non correr pericolo, o perché si è di molto il più forte, o perché si
è armato contro un inerme, o perché si è in più contro uno solo, o perché si
ha la protezione della forza pubblica, o perché si sa che il violentato ripugna
alla denunzia – significa insomma agire da camorrista e da poliziotto.
Purtroppo è vero: si può agire, spesso si agisce fascisticamente senza
aver bisogno d’iscriversi tra i fascisti e non sono certamente coloro che così
agiscono, o si propongono di agire fascisticamente quelli che potranno
provocare la rivolta morale, il senso di schifo che ucciderà il fascismo. E non
vediamo gli uomini della Confederazione, i D’Aragona, i Baldesi, i Colombino,
ecc., leccare i piedi dei governanti fascisti, e poi continuare a essere
considerati, anche dagli avversari politici, quali galantuomini e quali gentiluomini?
Queste
considerazioni, che del resto abbiamo fatte tante volte, ci sono rivenute alla
mente leggendo un articolo di L’Etruria Nuova di Grosseto, che ci siamo
meravigliati di vedere compiacentemente riprodotto da La Voce Repubblicana del
22 agosto. E un articolo del “suo valoroso direttore”, il bravo Giuseppe
Benci, il decano dei repubblicani della Forte Maremma (tanto per servirci
delle parole della Voce) il quale a noi è sembrato un documento
di bassezza morale, che spiega perché i fascisti han potuto fare in Maremma
quello che hanno fatto.
Sono note le gesta brigantesche dei fascisti nella
sventurata Maremma. Là, più che altrove, essi hanno sfogato le loro passioni
malvagie. Dall’assassinio brutale, alle bastonature a sangue, dagli incendi e
dalle devastazioni fino alle tirannie minute, alle piccole vessazioni che
umiliano, agli insulti che offendono il senso di dignità umana, tutto essi
hanno commesso senza conoscere limite, senza rispettare nessuno di quei
sentimenti che, nonché essere condizione di ogni vivere civile, sono la base
stessa dell’umanità in quanto è distinta dalla più infima bestialità. E quel
fiero repubblicano di Maremma parla loro in tono dimesso e li tratta da “gente
di fede” e mendica per i repubblicani la loro sopportazione, e
quasi la loro amicizia adducendo i meriti patriottici dei repubblicani stessi. Egli “ammette che il governo (il
governo fascista) ha il diritto di garantirsi il libero svolgimento
della sua azione”e lascia intendere che quando i repubblicani andranno
al potere faranno su per giù la stessa cosa. E protesta che nessuno, potrà
ammettere che da noi (a Grosseto) il partito repubblicano abbia con
qualsiasi atto tentato di ostacolare l’esperienza della parte dominante” e si
vanta di non avere per nulla intralciata l’azione del governo ritraendosi
perfino dalle lotte elettorali per attendere che l’esperimento si compia. Cioè
attendere che si compia l’esperimento di dominazione su tutta Italia da parte
di quella gente che ha straziato la sua Maremma.
Se lo stato
d’animo di quel signor Benci corrispondesse allo stato d’animo dei repubblicani
e la sorte del governo fascista dovesse dipendere da loro, avrebbe ragione
Mussolini quando dice che resterà al potere trent’anni. Vi potrebbe restare
anche trecento.
RIFORME E
RIVOLUZIONE
Anarchismo
e riforme[19]
La rivista comunista Prometeo
che si pubblica a Napoli, in una breve recensione, firmata a. b.,
del nostro primo numero e in ispecie dell’articolo di Merlino ivi apparso
dice, con l’incomprensione costituzionale di tutti coloro che credono di
comprendere tutto e di non sbagliarsi mai, che “esiste indubbiamente la
categoria d’anarchici riformisti sebbene la denominazione appaia strana”.
Prometeo crede di fare una scoperta.
A parte l’odiosità della parola che è stata abusata e discreditata dai
politicanti, l’anarchismo è stato sempre e non potrà mai essere altro che riformista.
Noi preferiamo dire riformatore per evitare ogni possibile confusione
con coloro che sono ufficialmente classificati come “riformisti” e vogliono con
piccoli e spesso illusori miglioramenti rendere più sopportabile e quindi
consolidare il regime attuale, oppure s’illudono in buona fede di potere
eliminare i lamentati mali sociali riconoscendo e rispettando, in pratica se
non in teoria, le fondamentali istituzioni politiche ed economiche che di quei
mali sono la causa e il sostegno, Ma insomma è sempre di riforme che si tratta,
e la differenza essenziale sta nel genere di riforma che si vuole e nel modo
come si crede di poter raggiungere la nuova forma cui si aspira.
Rivoluzione
significa, nel senso storico della parola, riforma radicale delle istituzioni,
conquistata rapidamente per mezzo dell’insurrezione violenta del popolo contro
il potere e i privilegi costituiti; e noi siamo rivoluzionari e insurrezionisti
perché vogliamo non già migliorare le istituzioni attuali ma distruggerle
completamente, abolendo ogni dominio dell’uomo sull’uomo e ogni parassitismo
sul lavoro umano; perché vogliamo far questo il più presto possibile e perché
siamo convinti che le istituzioni nate dalla violenza si sostengono colla
violenza e non cederanno che a una violenza sufficiente. Ma la rivoluzione non
si può fare quando si vuole. Dovremo noi restare inerti aspettando che i tempi
maturino da loro? E anche dopo una insurrezione vittoriosa, potremo noi di
punto in bianco realizzare tutti i nostri desideri e passare come per
miracolo dall’inferno governativo e capitalistico al paradiso del comunismo
libertario, che è la completa libertà dell’individuo nella voluta solidarietà
d’interessi con gli altri uomini?
Queste sono
illusioni che possono allignare in mezzo agli autoritari i quali considerano la
massa come materia bruta alla quale chi possiede il potere può dare, a forza di
decreti e con l’aiuto dei fucili e delle manette, l’impronta che vuole. Ma non
hanno presa in mezzo agli anarchici. Noi abbiamo bisogno del consenso della
gente, e quindi dobbiamo persuadere colla propaganda e coll’esempio, dobbiamo
educare e cercare di modificare l’ambiente in modo che l’educazione possa
raggiungere un numero sempre più grande di persone.
Tutto è graduale
nella storia come nella natura. Come la diga cede d’un tratto (cioè rapidissimamente
ma sempre condizionata dal tempo) o perché l’acqua si è andata accumulando
fino a superare con la sua pressione la resistenza oppostagli, oppure per il
disgregarsi progressivo delle molecole che ne compongono il materiale, così le
rivoluzioni scoppiano per il crescere delle forze che aspirano alla
trasformazione sociale fino al punto sufficiente per abbattere il governo
esistente e per l’indebolimento crescente, per ragioni interne, delle
forze di conservazione.
Siamo
riformatori oggi in quanto cerchiamo di creare le condizioni più favorevoli e
il personale più cosciente e più numeroso che si può per menare a bene una
insurrezione di popolo; saremo riformatori domani, a insurrezione trionfante e
a libertà conquistata, in quanto cercheremo, con tutti i mezzi che la libertà
consente, cioè con la propaganda, con l’esempio, con la resistenza anche
violenta contro chiunque volesse coartare la nostra libertà, cercheremo, dico,
di conquistare alle nostre idee un numero sempre più grande di adesioni.
Ma non riconosceremo mai – e in questo il nostro e riformismo” si distingue da
certo “rivoluzionarismo” che va ad affogarsi nelle urne elettorali di Mussolini
o di altri – non riconosceremo mai le istituzioni, prenderemo o conquisteremo
le riforme possibili con lo spirito con cui si va strappando al nemico il
terreno occupato per procedere sempre più avanti, e resteremo sempre nemici di
qualsiasi governo, sia quello monarchico di oggi, sia quello repubblicano o
bolscevico di domani.
Il gradualismo anarchico[20]
Noi vogliamo fare la
rivoluzione al più presto possibile, profittando di tutte le occasioni che si
possono presentare. Meno un piccolo numero di “educazionisti” i quali credono
nella possibilità di elevare le masse alle idealità anarchiche prima che siano
cambiate le condizioni materiali e morali in cui esse vivono e quindi rimettono
la rivoluzione a quando tutti saranno capaci di vivere anarchicamente, gli
anarchici sono tutti d’accordo in questo desiderio di rovesciare al più presto
possibile i regimi vigenti: anzi spesso sono essi soli quelli che mostrano una
reale volontà di farlo.
Del resto,
rivoluzioni ne sono avvenute, ne avvengono e ne avverranno indipendentemente
dalla volontà e dall’azione degli anarchici; e poiché gli anarchici non sono
che una piccolissima minoranza della popolazione e l’anarchia non è cosa che si
possa fare per forza, per imposizione violenta di alcuni, è chiaro che le
rivoluzioni passate e quelle prossime future non Sono state e non potranno
essere rivoluzioni anarchiche
In Italia
due anni or sono la rivoluzione stava per scoppiare e noi facemmo tutto quello
che potemmo per farla scoppiare, e trattammo da traditori del
proletariato i socialisti e i confederali che, in occasione dei moti contro il
caro-vita, degli scioperi del Piemonte, della sommossa di Ancona,
dell’occupazione delle fabbriche, arrestarono lo slancio delle masse e
salvarono il traballante regime monarchico.
Che cosa avremmo
fatto se la rivoluzione fosse scoppiata davvero? Che cosa faremo nella
rivoluzione che scoppierà domani? Che cosa han fatto, che cosa avrebbero potuto
e dovuto fare i nostri compagni nelle recenti rivoluzioni avvenute in Russia,
in Baviera, in Ungheria e altrove?
Noi non possiamo
far l’anarchia, o almeno l’anarchia estesa a tutta una popolazione e a tutti i
rapporti sociali perché finora nessuna popolazione è anarchica, e non possiamo
accettare un altro regime senza rinunziare alle nostre aspirazioni e perdere
ogni ragion di essere in quanto anarchici. E allora che cosa possiamo e
dobbiamo fare?
Questo era il
problema messo in discussione a Bienne, e questo è il problema che maggiormente
interessa nel momento attuale, così gravido di possibilità, quando ci potremmo
trovare improvvisamente di fronte a situazioni tali che c’impongano di agire
subito e senza esitazione o di sparire dal campo della lotta dopo di aver
facilitata la vittoria agli altri.
Non si trattava
di dipingere una rivoluzione quale noi la vorremmo, una vera rivoluzione anarchica
quale sarebbe possibile se tutti, o almeno la grande maggioranza degli uomini
abitanti un dato territorio fossero anarchici. Si trattava invece di cercare
quello che di meglio si potrebbe fare in favore della causa anarchica in un
rivolgimento sociale quale può avvenire nella realtà presente.
I partiti
autoritari hanno un programma determinato e vogliono imporlo colla forza; perciò
aspirano a impossessarsi del potere, non importa se con mezzi legali o
illegali, e quindi trasformare la società a modo loro, mediante una nuova
legislazione. E da questo dipende il fatto che essi, rivoluzionari a parole e
spesso anche nelle intenzioni, esitano poi a fare la rivoluzione quando le
occasioni si presentano; essi non sono sicuri della acquiescenza, sia pure passiva,
della maggioranza, non hanno forza militare sufficiente per far eseguire i
loro ordini su tutto il territorio, mancano di uomini devoti competenti in tutte
le infinite branche dell’attività sociale... e sono quindi indotti a rinviare
sempre l’azione a più tardi, fino a quando la sommossa popolare non li spinga
quasi riluttanti al governo, dove poi vorrebbero restare indefinitivamente, e
perciò cercano di frenare, sviare, arrestare la rivoluzione che li ha
innalzati.
Noi al contrario
abbiamo bensì un ideale per il quale combattiamo, che vorremmo veder
realizzato, ma non crediamo che un ideale di libertà, di giustizia, di amore
possa realizzarsi per mezzo della violenza governativa.
Noi non vogliamo
andare al potere e non vogliamo che nessuno vi vada. Se non possiamo impedire,
per mancanza di forza, che governi esistano e si costituiscano, noi ci sforziamo
e ci sforzeremo perché questi governi restino o diventino più deboli che sia
possibile, e perciò siamo sempre pronti ad agire quando si tratta di abbattere
o di indebolire un governo, senza troppo (dico troppo e non punto) preoccuparci
di quello che verrà dopo. Per noi la violenza non serve e non può servire che a
respingere la violenza e quando invece è adoperata per raggiungere dei fini
positivi, o fallisce completamente, o riesce a stabilire l’oppressione e lo
sfruttamento degli uni sugli altri.
La costituzione
di una società di liberi, e il suo progressi vo miglioramento non
può essere che il risultato della libera evoluzione; e il nostro compito di
anarchici è appunto quello di difendere, di assicurare la libertà
dell’evoluzione.
Abbattere, o
concorrere ad abbattere il potere politico, qualunque esso sia, con tutta la sequela
di forze repressive che lo sostengono; impedire, o cercare d’impedire che si
costituiscano nuovi governi e nuove forze repressive, e in tutti i casi non
riconoscere mai alcun governo e restare sempre in lotta contro di esso e
reclamare, e pretendere potendo anche colla forza, il diritto di organizzarci
e vivere come ci pare e sperimentare le forme sociali che ci sembrano
migliori, sempre, s’intende, che non ledano l’eguale libertà degli altri: ecco
la nostra missione.
Fuori di questa
lotta contro l’imposizione governative che genera e rende possibile lo sfruttamento
capitalistico; quando avessimo spinto e aiutato la massa del popolo a impossessarsi
della ricchezza esistente e specialmente dei mezzi di produzione, quando
fossimo arrivati al punto che nessuno possa imporre agli altri con la violenza
la propria volontà e nessuno possa colla forza sottrarre agli altri il prodotto
del loro lavoro, noi non potremmo più che agire mediante la propaganda e
l’esempio.
Distruggere le
istituzioni, i meccanismi, le organizzazioni sociali esistenti? Certamente, se
si tratta d’istituzioni repressive, ma esse in fondo non sono che piccola cosa
nella complessità della vita sociale. Polizia, esercito, carcere, magistratura
cose potenti per il male, non esercitano che una funzione parassitaria. Sono
altre le istituzioni e organizzazioni che, bene o male, riescono ad assicurare
la vita all’umanità; e queste istituzioni non si possono utilmente distruggere
se non sostituendole con qualche cosa di meglio.
Lo scambio delle
materie prime e dei prodotti, la distribuzione delle sostanze alimentari le
ferrovie, le poste e tutti i servizi pubblici esercitati dallo Stato o dai
privati, sono stati organizzati in modo da servire interessi monopolistici e
capitalistici, ma rispondono a interessi reali della popolazione. Non possiamo
disorganizzarli (e del resto non ce lo permetterebbe la popolazione
interessata) se non riorganizzandoli in modo migliore. E questo non si può fare
in un giorno; né, allo stato delle cose, noi abbiamo le capacità necessarie a
farlo. Felicissimi dunque se, aspettando che possano farlo gli anarchici, lo facciano
altri, magari con criteri diversi dai nostri.
La vita sociale
non ammette interruzioni, e la gente vuol vivere il giorno della rivoluzione,
il giorno dopo, e sempre. Guai a noi, guai all’avvenire delle nostre idee, se
noi dovessimo assumere la responsabilità di una distruzione insensata che
compromettesse la continuità della vita!
Discutendo di
queste materie fu sollevata a Bienne la questione del danaro, questione grave
quanto altre mai. D’abitudine nel campo nostro si risolve semplicisticamente
la questione dicendo che il danaro si deve abolire. E sta bene, se si tratta di
una società anarchica, o di una ipotetica rivoluzione da fare di qui a cento
anni, sempre nell’ipotesi che le masse possano diventare anarchiche e comuniste
prima che una rivoluzione abbia cambiate radicalmente le condizioni in cui
vivono. Ma oggi la questione è ben altrimenti complicata.
Il danaro è
mezzo potente di sfruttamento e di oppressione; ma è anche il solo mezzo
(fuori della più tirannica dittatura, o del più idillico accordo) escogitato
finora dal. l’intelligenza umana per regolare automaticamente la produzione e
la distribuzione. Per ora, forse più che preoccuparsi dell’abolizione del
denaro, bisognerebbe cercare un modo perché il denaro rappresenti davvero lo
sforzo utile fatto da chi lo possiede. Ma veniamo alla pratica immediata, che è
la questione che veramente si discuteva a Bienne.
Figuriamoci che
domani avvenga una insurrezione vittoriosa. Anarchia o non anarchia, bisogna
che la popolazione continui a mangiare e a soddisfare tutti i bisogni primordiali.
Bisogna che le grandi città siano approvvigionate più o meno come d’abitudine.
Se i contadini e
i carrettieri, ecc., si rifiutano di fornire i generi che sono nelle loro mani
e i loro servizi gratuitamente, senza riceverne il danaro che essi sono
abituati a considerare ricchezza reale, che cosa si fa? Obbligarli colla forza?
Allora non solo addio anarchia, ma addio ogni qualsiasi rivolgimento per il
meglio. La Russia insegni. Dunque?
Ma, rispondono
generalmente i compagni, i contadini comprenderanno i vantaggi del comunismo
o almeno della permuta diretta tra merce e merce. Sta benissimo; ma non certo
in un giorno, e la gente non può restare senza mangiare nemmeno un giorno.
Io non ho inteso
proporre delle soluzioni. Intendo piuttosto richiamare l’attenzione dei
compagni sopra problemi gravissimi di fronte ai quali ci troveremo nella realtà
di domani.
Il terrore
rivoluzionario. In vista di un avvenire che potrebbe anche essere prossimo[21]
Il mio articoletto del
numero scorso “Contro le intemperanze di linguaggio” ha provocato qualche
critica che, sorpassando l’episodio origine della polemica, solleva un problema
generale di tattica rivoluzionaria, che occorre sempre discutere e
ridiscutere, perché dalla sua soluzione può dipendere la sorte della
rivoluzione che verrà.
Io non parlerò
del modo come può essere combattuta e abbattuta la tirannia che oggi opprime il
popolo italiano. Qui noi ci proponiamo di fare semplicemente opera di
chiarificazione delle idee e di preparazione morale in vista di un avvenire,
prossimo o lontano, perché non c’è possibile far altro. E del resto, quando
credessimo giunto il momento di una più fattiva azione… ne parleremmo anche
meno.
Mi occuperò
dunque solo, e ipoteticamente dell’indomani di una insurrezione trionfante e
dei metodi di violenza che alcuni vorrebbero adoperare per “fare giustizia”, e
altri credono necessari per difendere la Rivoluzione contro le insidie dei
nemici
Mettiamo da
parte “la giustizia”, concetto troppo relativo che è servito sempre di
pretesto a tutte le oppressioni, a tutte le ingiustizie e che spesso non
significa altro che vendetta. L’odio e il desiderio di vendetta sono
sentimenti irrefrenabili che l’oppressione naturalmente risveglia e alimenta;
ma se essi possono rappresentare una forza utile a scuotere il giogo, sono poi
una forza negativa quando si tratta di sostituire all’oppressione non
un’oppressione novella, ma la libertà e la fratellanza fra gli uomini. E perciò
noi dobbiamo sforzarci di suscitare quei sentimenti superiori che attingono
l’energia nel fervido amore del bene, pur guardandoci dallo spezzare l’impeto,
fatto di fattori buoni e cattivi, necessario a vincere. Lasciamo che la massa agisca
come la passione la spinge, se per meglio indirizzarli occorresse metterle un
freno che si tradurrebbe in una nuova tirannia – ma ricordiamoci sempre che
noi anarchici non possiamo essere né dei vendicatori, né dei “giustizieri”.
Noi vogliamo essere dei liberatori e dobbiamo agire come tali per mezzo della
predicazione e dell’esempio.
Occupiamoci
della questione più importante, che è poi la sola cosa seria messa innanzi, in
quest’argomento, dai miei critici: la difesa della rivoluzione.
Vi sono ancora
molti che sono affascinati dall’idea del “terrore”. A essi sembra che ghigliottina,
fucilazioni, massacri, deportazioni, galera (“forca e galera” mi diceva recentemente
un comunista dei più noti) siano armi potenti e indispensabili della rivoluzione,
e trovano che se tante rivoluzioni sono state sconfitte o non han dato il
risultato che se ne aspettava è stato a causa della bontà, della “debolezza”
dei rivoluzionari, che non hanno perseguitato, represso, ammazzato abbastanza.
È un pregiudizio
corrente in certi ambienti rivoluzionari, che ha origine dalla retorica e
dalle falsificazioni storiche degli apologisti della Grande Rivoluzione
francese e che è stato rinvigorito in questi ultimi anni dalla propaganda dei
bolscevichi. Ma la verità è proprio l’opposto; il terrore è sempre stato
strumento di tirannia. In Francia servì alla bieca tirannia di Robespierre e
spianò la via a Napoleone e alla susseguente reazione. In Russia ha
perseguitato e ucciso anarchici e socialisti, ha massacrato operai e contadini
ribelli, e ha stroncato insomma lo slancio di una rivoluzione che poteva
davvero aprire alla civiltà un’era novella.
Coloro che
credono nella efficacia rivoluzionaria, liberatrice della repressione e della ferocia,
hanno la stessa mentalità arretrata dei giuristi, i quali credono che si possa evitare il
delitto e moralizzare il mondo per mezzo di pene severe.
Il terrore, come
la guerra, risveglia i sentimenti atavici belluini ancora mal coperti da una
vernice di civiltà, e porta ai primi posti gli elementi peggiori che sono
nella popolazione. E piuttosto che servire a difendere la rivoluzione serve a
discreditarla, a renderla odiosa alle masse e, dopo un periodo di lotte feroci,
mette capo necessariamente a quello che oggi chiamerebbero “normalizzazione”,
cioè alla legalizzazione e perpetuazione della tirannia. Vinca una parte o
l’altra, si arriva sempre alla costituzione di un governo forte, il quale
assicura agli uni la pace a spese della libertà e agli altri il dominio senza
troppi pericoli.
So bene che gli
anarchici terroristi (quei pochi che vi sono) respingono ogni terrore organizzato,
fatto per ordine di un governo da agenti prezzolati, e vorrebbero che fosse la
massa che direttamente mettesse a morte i suoi nemici. Ma questo non farebbe
che peggiorare la situazione. Il terrore può piacere ai fanatici, ma conviene
soprattutto ai veri malvagi avidi di denaro e di sangue. E non bisogna
idealizzare la massa e figurarsela tutta composta d’uomini semplici, che
possono bensì commettere degli eccessi, ma sono sempre animati da buone
intenzioni. Gli sbirri e i fascisti servono i borghesi, ma escono dal seno
della massa!
Il fascismo ha
accolto molti delinquenti e così ha, fino a un certo punto, purificato preventivamente
l’ambiente in cui si svolgerà la rivoluzione; ma non bisogna credere che tutti
i Dumini e tutti i Cesarino Rossi siano fascisti. Vi sono di quelli che per
una ragione qualsiasi non han voluto o non han potuto diventare fascisti; ma
sono disposti a fare in nome della “rivoluzione” quello che i fascisti fanno in
nome della “patria”. E d’altronde, come gli scherani di tutti i regimi sono
stati sempre pronti a mettersi al servizio dei nuovi regimi e diventarne i più
zelanti strumenti, così i fascisti d’oggi si affretteranno domani a
dichiararsi anarchici, o comunisti o quel che si voglia, pur di continuare a
fare i prepotenti e sfogare i loro istinti malvagi. E se non potranno nei
loro paesi perché conosciuti e compromessi, andranno a fare i rivoluzionari
altrove e cercheranno di emergere mostrandosi più violenti, più “energici”
degli altri e trattando da moderati, da codini, da “pompieri”, da
contro-rivoluzionari quelli che la rivoluzione concepiscono come una grande
opera di bontà e dì amore.
Certamente la
rivoluzione va difesa e sviluppata con logica inesorabile; ma non si deve e
non si può difenderla con mezzi che contraddicono ai suoi fini. Il grande mezzo
di difesa della rivoluzione resta sempre quello di togliere ai borghesi i mezzi
economici del dominio, di armare tutti (fino a quando non si possa indurre tutti
a gettare le armi come giocattoli inutili e pericolosi) e di interessare alla
vittoria tutta la grande massa della popolazione. Se per vincere si dovesse
elevare la forca nelle piazze, io preferirei perdere.
SCIENZA E
LIBERTà
Commento
all’articolo di Nino Napolitano: “Scienza e Anarchia”[22]
La definizione che Kropotkin
dà dell’Anarchia e che il Napolitano riporta come cosa che non ha nemmeno bisogno
di essere discussa, quantunque accettata con poco spirito critico da molti
anarchici a causa del grande e meritato prestigio dell’autore e del suo
accordo con le idee scientifiche e filosofiche che prevalevano quando
l’anarchismo cominciò a propagarsi, sembra a me erronea e nociva: erronea,
perché confonde cose di natura diversa, nociva perché costringe gli anarchici
che l’accettano a dibattersi in quelle contraddizioni che infirmano i
ragionamenti di tutti, o quasi tutti, i pensatori delle scuole positiviste e
naturalistiche quando si occupano di questioni morali.
Il Kropotkin nel
suo tentativo di fissare “il posto dell’Anarchia nella scienza moderna” trova
che “l’Anarchia è una concezione dell’universo basata sull’interpretazione
meccanica dei fenomeni che abbraccia tutta la natura, non esclusa la vita della
società”.
Questa è
filosofia, accettabile o meno, ma certamente non e ne scienza, né Anarchia. La
scienza è la raccolta e la sistemazione di ciò che si sa, si crede sapere: dice
il fatto e cerca di scoprire la legge del fatto, cioè le condizioni nelle quali
il fatto necessariamente avviene e si ripete. Essa soddisfa certi bisogni
intellettuali ed è nello stesso tempo strumento validissimo di potenza. Mentre
indica nelle leggi naturali il limite all’arbitrio umano, accresce la libertà
effettiva dell’uomo dandogli modo di volgere quelle leggi a proprio vantaggio.
Essa è uguale per tutti e serve indifferentemente per il bene o per il male,
per la liberazione come per l’oppressione.
La filosofia può
essere una spiegazione ipotetica di quello che si sa, o un tentativo
d’indovinare quello che non si sa. Essa pone i problemi che sfuggono, almeno
finora, alla competenza della scienza e immagina delle soluzioni che per non
essere, allo stato attuale delle cognizioni, suscettibili di prove, variano e
si contraddicono da filosofo a filosofo. Essa, quando non diventi un gioco di
parole e un fenomeno d’illusionismo, può essere di sprone e di guida alla
scienza, ma non è la scienza.
L’Anarchia
invece è un’aspirazione umana, che non è fondata sopra nessuna vera o supposta
necessità naturale, e che potrà realizzarsi e non realizzarsi secondo la
volontà umana. Essa profitta dei mezzi che la scienza fornisce all’uomo nella
lotta contro la natura e contro le volontà contrastanti; può profittare dei
progressi del pensiero filosofico, quando essi servano a insegnare agli uomini
a ragionare meglio e a meglio distinguere il reale dal fantastico; ma non può
esser confusa, senza cadere nell’assurdo, né con la scienza, né con un
qualsiasi sistema filosofico.
Vediamo se realmente
“la concezione meccanica dell’universo” spiega i fatti conosciuti. Vedremo poi
se essa possa almeno conciliarsi, coesistere logicamente collanarchismo o infatti
con qualsiasi aspirazione a uno stato di cose diverso da quello che esiste.
Principio
fondamentale della meccanica è la conservazione dell’energia: niente si crea e
niente si distrugge. Un corpo non può cedere del calore a un altro senza raffreddarsi
di altrettanto; una forma di energia non può trasformarsi in un’altra
(movimento in calore, calore in elettricità o viceversa, ecc.) senza che
quello che si acquista in un modo si perda in un altro. Insomma in tutta la
natura fisica si verifica quello stesso volgarissimo fatto che se uno ha dieci
soldi e ne spende cinque, gliene restano solamente cinque e niente di più o di
meno.
Invece, se uno
ha un’idea la può comunicare a un milione di persone senza perderci nulla, e
l’idea più si propaga e più acquista forza ed efficienza. Un maestro insegna
agli altri quello che sa, e non diventa perciò meno sapiente, anzi
nell’insegnare apprende meglio e arricchisce la sua mente. Se un grano di
piombo lanciato da mano omicida tronca la vita di un uomo di genio, la scienza
potrà spiegare quel che diventano tutti gli elementi materiali, tutte le energie
fisiche che esistevano nell’ucciso quando era in vita e dimostrare che dopo
che il cadavere si è disfatto nulla resta di lui nell’antica forma, ma che
nello stesso tempo nulla si è perduto materialmente perché ogni atomo di quel
corpo si ritrova con tutte le sue energie in altre combinazioni. Ma le idee
che quel genio ha lanciato nel mondo, le invenzioni ch’egli ha fatte restano e
si propagano e possono essere una forza enorme; mentre d’altra parte quelle
idee che ancora maturavano in lui e che si sarebbero sviluppate s’egli non
tosse stato ucciso, sono perdute e non si ritrovano più. Può la meccanica
spiegare questa potenza, questa qualità specifica dei prodotti mentali?
Non mi si
domandi, per carità, di spiegare io in altro modo il fatto che la meccanica
non riesce a spiegare. Io non sono filosofo; ma non c’è bisogno di essere filosofi
per vedere certi problemi che più o meno tormentano tutte le menti pensanti. E
il non sapere risolvere un problema non obbliga uno ad accettare delle
soluzioni che non lo soddisfano, tanto più che le soluzioni offerte dai
filosofi sono tante e si contraddicono l’una con l’altra. E ora vediamo se il
“meccanicismo” è conciliabile con l’anarchismo.
Nella concezione
meccanica (come d’altronde nella concezione teistica) tutto è necessario,
tutto è fatale, niente può essere differente da quello che è. Infatti se nulla
si crea e nulla si distrugge, se la materia e l’energia (qualunque cosa esse
possano essere) sono quantità fisse sottoposte a leggi meccaniche, tutti i fenomeni
sono collegati in modo inalterabile
Kropotkin dice:
“Poiché l’uomo è una parte della natura, poiché la sua vita personale e
sociale è pure un fenomeno della natura – allo stesso modo della crescenza di
un fiore, o dell’evoluzione della vita nelle società delle formiche e delle
api – non vi è nessuna ragione perché passando dal fiore all’uomo e da un
villaggio di castori a una città umana, noi dobbiamo abbandonare il metodo che
ci aveva servito così bene fino allora per cercarne un altro nell’arsenale
della metafisica.” E già il grande matematico Laplace, alla fine del secolo
decimottavo aveva detto: “Essendo date le forze da cui è animata la natura e la
situazione rispettiva degli esseri che la compongono, un’intelligenza abbastanza
vasta conoscerebbe il passato e l’avvenire tanto bene quanto il presente”.
Questa è la pura
concezione meccanica; tutto ciò che è stato doveva essere, tutto ciò che è deve
essere, tutto ciò che sarà dovrà essere necessariamente, fatalmente in tutti i
minimi particolari di posizione e di movimento di intensità e di velocità.
In tale
concezione, che significato possono avere le parole “volontà, libertà, responsabilità”?
E a che servirehbe l’educazione, la propaganda, la ribellione? Non si può modificare
il corso predestinato degli avvenimenti umani come non si può modificare il
corso degli astri o “la crescenza di un fiore”. E allora? Che c’entra
l’Anarchia?
Ebbero voga tra
gli anarchici le dichiarazioni che un compagno francese (Etiévant) pronunziò in
sua difesa innanzi a un tribunale di Parigi. Egli avrebbe potuto limitarsi a
far la critica della società, a dimostrare che se delitto aveva commesso egli
vi era stato indotto, forzato dalle circostanze, e che la massima
responsabilità spettava ad altri che a lui. Ma il nostro povero compagno, che
più tardi cadde vittima della brutalità poliziesca, era intinto di filosofia e
volle dimostrare, da buon determinista, che non lo si poteva dichiarare
responsabile e punirlo, perché egli non era un libero agente, visto che tutto
in natura è necessario e predeterminato. Un giudice di cattivo cuore, ma di
spirito sveglio avrebbe potuto rispondergli: Avete ragione, io non posso
giustamente punirvi e nemmeno biasimarvi per le ragioni che così bene avete
esposte; ma per le stesse ragioni non è responsabile il prete che vi ha ingannato,
il padrone che vi ha affamato, lo sbirro che vi ha torturato – e non sono
responsabile io che vi mando in galera o alla ghigliottina. Tutto quello che
avviene deve avvenire.
Ancora una volta,
che c’entra l’Anarchia in tutto questo? I sistemi filosofici sono innumerevoli
e, come tutto ciò che non ha una base positiva, seguono anche la moda. Sul finire
del secolo passato era di moda il materialismo, oggi è di moda l’idealismo,
domani chi sa che cosa c’inventeranno i signori filosofi.
Bisognerebbe
dunque che quelli che, come fece il Kropotkin, affrontano per l’Anarchia
persecuzioni e martirii, quelli che sono anarchici perché amano e soffrono e si
ribellano all’ingiustizia e all’oppressione, aspettassero che scienziati e
filosofi abbiano spiegato davvero quest’immenso mistero che è l’universo?
Si può essere
anarchici qualunque sia il sistema filosofico che si preferisce. Vi sono
anarchici materialisti come ve ne sono di spiritualisti, ve ne sono di monisti
e di pluralisti, ve ne sono di agnostici e vi sono di quelli, come me, che
senza nulla pregiudicare sui possibili sviluppi futuri dell’intelletto umano,
preferiscono dichiararsi semplicemente ignoranti.
Certamente non
si capisce come si può conciliare certe teorie con la pratica della vita. La
teoria meccanicista, al pari di quella teistica e panteistica, porterebbe
logicamente all’indifferenza e all’inazione, all’accettazione supina di tutto
ciò che è, nel campo morale come in quello materiale.
Ma per fortuna
le concezioni filosofiche hanno poca o nessuna influenza sulla condotta. E i
materialisti e “meccanicisti” in barba alla logica, si sacrificano spesso per
un ideale. Come del resto fanno i religiosi che credono nelle gioie eterne del
paradiso, ma pensano a star bene in questo mondo, e quando stanno malati hanno
paura di morire e chiamano il medico. Così come la povera mamma che perde un
figliuolo: crede di esser sicura che il suo bimbo diventato un angelo e
l’aspetta in Paradiso… ma intanto piange e si dispera.
Fra le
nebbie della filosofia[23]
Ho tardato a rispondere al
mio gentile e dotto contraddittore di Coscientia.
A lui non importerà nulla, e i lettori mi perdoneranno facilmente il
ritardo, visto che in questi momenti turbinosi la questione non è davvero di
palpitante attualità. Nullameno non mi pare inutile il tentare di mettere
le cose in chiaro
Il g. g. di Coscientia mi aveva qualificato di
“mentalità dommattica”. Io risposi ed egli replica dicendo che la mia risposta
lo conferma nell’opinione che io ho una “mentalità scientistica”. Crede egli
dunque che le due opposte qualifiche significano la stessa cosa?
Io protesto
contro la qualifica di dommatico, perché, fermo e deciso in quello che voglio, sono sempre dubbioso in quello che so e penso che, per quanti
sforzi si siano fatti per comprendere e spiegare l’Universo, non si sia finora
raggiunto, nonché la certezza, nemmeno una probabilità dì certezza – e non so se l’intelligenza umana potrà mai arrivarci. Invece, la qualifica
di mentalità scientista non mi dispiace affatto e sarei lusingato di meritarla;
poiché la mentalità scientista è quella che ricerca la verità con metodo positivo,
razionale e sperimentale, non s’illude mai di aver trovato la verità assoluta
e si contenta di avvicinarvisi faticosamente, scoprendo delle verità parziali,
che considera sempre come provvisorie e rivedibili. Lo scienziato, quale
secondo me dovrebbe essere, è quello che esamina i fatti e ne trae le logiche
conseguenze quali che esse siano, in opposizione a coloro che si foggiano un
sistema e poi ne cercano la conferma nei fatti e per trovarla inconsciamente
scelgono i fatti che loro convengono trascurando gli altri e magari sforzano e
travisano la realtà per serrarla nei ceppi delle loro concezioni. Egli adopera
delle ipotesi da lavoro, vale a dire fa delle supposizioni che gli servono di
guida e di sprone nelle sue ricerche, ma non resta vittima dei suoi fantasmi,
pigliando, a forza di servirsene, per verità dimostrate le sue supposizioni e
generalizzando ed elevando a legge, con arbitraria induzione, ogni fatto
particolare che convenga alla sua tesi.
Lo scientificismo che io respingo e che,
provocato e alimentato dall’entusiasmo che seguì le scoperte veramente
meravigliose fatte in quel torno di tempo nel campo della fisica e della storia
naturale, dominò le menti nella seconda metà del secolo passato, è il credere
che la scienza sia tutto e possa tutto; è l’accettare come verità definitive,
come dommi, ogni scoperta parziale; è il confondere la Scienza con la Morale,
la Forza nel senso meccanico della parola, che è una entità definibile e
misurabile, con le forze morali, la Natura con il Pensiero, la Legge naturale
con la Volontà. Esso conduce logicamente al fatalismo, cioè alla negazione
della volontà e della libertà.
Il g. g. dice
che bisognerebbe discutere il mio articolo frase per frase, il che sarebbe troppo
lungo, e perciò si limita a mettermi dei quesiti, perché io mi convinca come la
sua impostazione dei problemi sia lontana della mia. Ne ero già convinto; ma
ecco: io dicevo di non credere nell’origine divina della Sacra Scrittura, ed
egli risponde: Ma che intende Malatesta
per Sacra Scrittura? La carta e le parole stampate? No, io non arrivo a
supporre che g. g. creda che il Padre Eterno abbia, sul Monte Sinai o altrove,
scritto sopra un papiro i libri
santi; ma crede egli, sì o no, che la Bibbia sia d’ispirazione divina e non già
una raccolta di leggende e di poesie, qualche cosa come il folclore del popolo
ebreo?
Ma g. g.
continua: Che cosa intende M. per origine divina? Se per divino ammette ciò
che è assoluto, non empirico, M. riconoscerà che per lo meno la coscienza è di
origine divina in quanto permette a lui, Malatesta, di asserire con sicurezza
assoluta alcune cose (la cosiddetta realtà obbiettiva, la prova come norma di
verità, ecc.). Ebbene chi ha rivelato la divinità della coscienza se non il
Vangelo? E cos’è la verità del Vangelo, se non un’esperienza di coscienza?
Rispondo prima
di tutto che io non ho mai detto di avere “sicurezza assoluta” di cosa alcuna
(ho anzi detto precisamente il contrario), e poi che non capisco che cosa è
questa origine divina della coscienza. A Dio, inteso come essere cosciente e
volente, creatore e regolatore del Mondo io non ci credo, e l’Assoluto non so
che cosa sia. Ci crede g. g. a un Dio personale, e comprende egli che cosa sia
l’Assoluto? Se sì, beato lui, ma io gli sarei molto obbligato se volesse
darmi una risposta, precisa e intelligibile – intelligibile, intendo, per una
mente così poco filosofica come la mia. E così se volesse spiegarmi come mai è
il Vangelo che ha rivelato la divinità della coscienza; e che significa il
dire che il Vangelo è una esperienza di coscienza! Questo è un linguaggio
veramente troppo ermetico, troppo misterioso per me: capirei meglio se g. g. mi
dicesse se egli crede che Cristo era un dio e che il Vangelo è parola divina,
anziché un racconto (storico o leggendario importa poco) in cui si trovano
delle massime morali già predicate da religioni anteriori. La frase “la verità
del Vangelo è un’esperienza di coscienza”, pur nella sua oscurità, mi fa pensare
che g. g. è cristiano non già perché è convinto della verità del Cristianesimo,
ma perché vi vuole credere: questione di gusto allora, e
come è risaputo sui gusti non si discute.
Poi g. g. dice
che io riduco la volontà di credere all’autosuggestione. Siamo esatti. Io
dissi che la fede (non la volontà di credere, ma il credere) è un fenomeno
d’autosuggestione. La volontà di credere mi pare piuttosto un autolesionismo
mentale, una volontà di diminuire sé stesso, la propria personalità, la propria
dignità intellettuale. Allora g. g. per confutarmi tira in campo Paolo,
Agostino e Manzoni che contrappone ai devoti di S. Gennaro a cui io avevo
accennato, e mi accusa di credere, con Lombroso, che il genio è follia. Ho il
sospetto che dei tre almeno uno, Agostino, si sentirebbe onorato di essere
paragonato ai devoti di S. Gennaro che non s’imbarazzano di ragionare e hanno
la fede ingenua, cieca, vale a dire la vera fede. Ma che importa? Io non mi
lascio guidare da Paolo, Agostino o Manzoni più che
da Lombroso, e non amo, anche perché sono poco erudito, che invece di buone
ragioni mi si tirino fuori dei grandi nomi. Preferirei che g. g. mi spiegasse
come da quello che ho detto mi sì possa attribuire una qualsiasi approvazione
delle fantasticherie sedicenti scientifiche del Lombroso.
I genii sono
rari, ma se ne trovano fra tutte le confessioni e malgrado tutte le confessioni,
e il fatto che essi possono autosuggestionarsi e magari essere sciocchi in una
ramo dell’attività mentale, non infirma la loro genialità in un altro ramo.
Newton fu un genio, e non precisamente perché commentava la Bibbia; fu un genio
Leonardo da Vinci e non già perché era cattolico, se pure lo era. Tutti i
grandi credenti che g. g. può citare, e in qualunque religione credessero, o
credevano per suggestione ricevuta nell’infanzia, così per abitudine, senza
ragionarci su, oppure perché volevano credere e si autosuggestionavano fino
al punto di credere davvero.
Siccome io avevo
opposto la volontà di sapere alla
volontà di credere, g. g. domanda:
Ma che differenza passa tra sapere e
credere? tra ragione e fede? Chi crede nella ragione non fa atto di fede nella
ragione? Già, per chi crede nell’infallibilità della ragione, ma non per
chi si contenta della ragione perché è la sola arma, imperfetta quanto si
voglia, che abbiamo per controllare la nostra fantasia e sistemare le nostre
sensazioni.
Ammetto
volentieri che, a causa della nostra ignoranza e della nostra incapacità – non
so se temporanea o perpetua – di comprendere
quello che si chiama causa prima, cosa in sé, ecc., ecc., noi siamo costretti
per necessità intellettuali e per necessità pratiche ad ammettere molte cose
che non comprendiamo e a ragionare e agire come se vi credessimo; e perciò, se
questo può fare piacere a g. g., oltre a dire volontà dì sapere dirò anche volontà
di credere il meno possibile, cioè volontà di apprendere e di comprendere sempre di più.
In ultimo g. g.
vuoi farmi credere nella creazione dal nulla e nella trinità, e siccome ha il
sospetto che il Quarto Evangelo non basta a persuadermi, mi rimanda a Hegel.
Grazie tanto! Hegel aveva tanta fantasia da poterne creare cento di mondi e
dividere la divinità in tremila anzi che in tre persone – e poi era tanto
oscuro che quello che non creava lui glielo possono far creare gli interpreti.
Del resto io stesso, che non sono un Hegel (me ne guardi Iddio!) se mi mettessi
a fantasticare ne potrei crear tante di cose. Ma sarebbero poi sempre vane
fantasticherie.
Conclusione. Tra
me e g.g. e c’è una differenza tale di mentalità che non possiamo riuscire ad
accordarci e forse nemmeno a comprenderci. Io sono cosciente della mia
ignoranza e la confesso a me stesso e agli altri; g. g., come la più parte dei
filosofi ha una ripugnanza istintiva a dire non so. Io amo la luce e trovo che
non ve n’è mai abbastanza; g. g. si compiace fra le nebbie. E io non dico che
coloro i quali tra le nebbie si compiacciono non possono fare opera utile
all’avanzamento dello spirito umano. Anche brancolando nel buio si possono
fare delle scoperte. Sono perciò da ammirare quegli audaci che si slanciano
nelle alte sfere della metafisica; ma bisogna che essi si rendan conto che
stanno nel buio e non s’illudano di veder chiaro là dove non vi è filo di luce.
Ché altrimenti invece di essere dei pionieri del pensiero saranno degli
sterili sognatori e non produrranno che dei devoti di S. Gennaro… o di Hegel.
Nel nostro numero del 15
agosto parlando di Riforma religiosa,
in una nota all’articolo in cui il compagno Benigno Blasco si occupava
della propaganda protestante della rivista Coscientia,
io dicevo:
Noi (alla
religione) non ci crediamo; e non possiamo perciò fondare la nostra morale
sopra ciò che riteniamo una menzogna, sia quella cattolica, sia quella protestante.
Se Coscientia potesse darci la fede!
Ma come potrebbe fare? Noi vorremmo delle prove, e dubitiamo che ci si possa
provare la verità dei domini cristiani.
Coscientia trova che io ho messo “crudamente la questione in termini precisi” e a
sua volta risponde:
Coscientia, se non può darla fede, può dare questa risposta: Esistono
due mentalità: 1° la dommatica che
crede di aver trovato la verità definitiva, riposa in essa, non ha travaglio o
inquietudine di nuove ricerche e giudica quanto è al di fuori di essa come superstizione, prodotto inferiore,
ecc. Esempi ne sono la mentalità cattolica e quella giusnaturalistica che
è una proiezione caricaturata di questa. Al domma dell’infallibilità del Papa
corrisponde esattamente quello dell’infallibilità della Scienza. Molti
anarchici hanno questa mentalità ed essa appare in modo chiarissimo nella
richiesta di prova dei dommi cristiani che
ci fa Malatesta (ecco il domma della prova); 2° la mentalità critica: questa
esclusivamente moderna, vive dubitando; la fede non è mai definitiva o posseduta
sì che non sì cerchi un maggiore possesso e il valore di essa sta nella
volontà di essa, nel faticoso acquisto, così come il liberalismo non è in un programma politico ma in sé,
così come la filosofia è nel filosofare. Questa è
la scoperta religiosa di Calvino, filosofica di Hegel, politica di Stuart
Mill, tutta insomma di un’altra cultura, la quale ha anch’essa miscredenti, ma
di un altro genere e meno miscredenti di quanto si creda. Croce, per esempio,
non chiederà mai le prove della divinità di Cristo. Posto questo, appare
chiara la difficoltà per una mentalità dommatica di comprendere la mentalità
critica che fu la via a esser quel che siamo. Bisognerebbe dubitare delle
proprie idee, e questo non è intenzione di M. di cui conosciamo il tenace attaccamento
ai suoi principi, nelle ore tristi e serene. Insomma qui è questione di volontà
e di disposizione; quella che Pascal chiamava volontà di credere prima di essere questione di fede.
Questa è la risposta, forse
un po’ lunga ma non inutile a mettere in chiaro i termini di certi dissidi. Coscientia mi giudica male. Checché
possano pensarne altri anarchici, io respingo tanto il giusnaturalismo del settecento, quanto lo scientifìcismo dell’ottocento; e sopra-tutto non sono un dommatico.
Io non credo nell’infallibilità della Scienza, né nella sua capacità di tutto
spiegare, né alla sua missione di regolare la condotta degli uomini, come non
credo nell’infallibilità del Papa, nella Morale rivelata e nell’origine divina
della Sacra Scrittura.
Io credo solo
nelle cose che possono essere provate; ma so benissimo che le prove sono cosa
relativa e possono, e sono infatti, continuamente superate e annullate da altri
fatti provati; e quindi credo che il dubbio debba essere la posizione mentale
di chiunque aspira ad avvicinarsi sempre più alla verità, o almeno a quel
tanto di verità che è possibile raggiungere.
Coscientia dice che bisogna avere la volontà di credere, confessando così che la fede è un fenomeno di
autosuggestione senza alcuna corrispondenza nella realtà obbiettiva. E perciò
non vuol sentir parlare di prove e trova che sia segno di mentalità dommatica
il domandarne, mentre poi sarebbe segno di mentalità critica il credere,
naturalmente senza prove, che vi sia un Dio che ha creato il mondo dal nulla,
che questo Dio si è scisso in tre persone e ne ha mandata una, il figlio Gesù,
a redimere l’umanità, ecc.
A me questa pare
una mentalità da devoti di S. Gennaro! Io alla volontà di credere, che non può essere che la volontà di annullare
la propria ragione, oppongo la volontà di sapere, che lascia aperto innanzi a
noi il campo sterminato della ricerca e della scoperta. Io, come ho già detto,
ammetto solo ciò che può essere provato in modo da soddisfare la mia ragione
– e lo ammetto solo provvisoriamente,
relativamente, in attesa sempre di nuovi veri, più
veri di quelli finora acquisiti. Niente fede dunque, nel senso religioso della
parola.
Accade anche a
me di dire che ci vuole la fede, di dire che nella lotta per il bene ci vogliono
gli uomini di fede sicura, che stiano fermi nelle bufere come torre che non crolla giammai la cima per
soffiar di venti. E c’è perfino un giornale anarchico che, ispirandosi
evidentemente a questo bisogno, s’intitola Fede!
Ma qui si tratta di un altro significato della parola. Qui fede significa volontà ferma e forte speranza e non ha
nulla di comune con la cieca credenza, in cose che appaiono o incomprensibili o
assurde.
Ma come concilio
io questa incredulità nella religione e questo dubbio, direi sistematico, nei
risultati definitivi della scienza, con una norma morale e con la ferma volontà
e la forte speranza di realizzare il mio ideale di libertà, di giustizia, di
fratellanza umane?
Gli è che io non
metto la scienza dove la scienza non c’entra. Compito della scienza è di
scoprire e di dire il fatto e le condizioni nelle quali il fatto necessariamente
si produce e si ripete: di dire cioè quello che è e che necessariamente deve
essere, e non già quello che gli uomini desiderano e vogliono. Essa s’arresta
dove finisce la fatalità e comincia la libertà. Serve all’uomo perché lo
previene dal perdersi in chimere impossibili, e nello stesso tempo gli fornisce
i mezzi per allargare il tempo spettante alla libera volontà: capacità di
volere che distingue gli uomini, e forse in gradi diversi tutti gli animali,
dalle cose inerti e dalle forze incoscienti. E in questa facoltà di volere che
bisogna cercare le fonti della morale, le regole della condotta.
Necessità e libertà[25]
Le osservazioni che qua e là
ho scritte in questi ultimi tempi sui rapporti tra Scienza e Anarchia, e
soprattutto il fatto di aver trattato da assurda la definizione che Kropotkin
dava dell’Anarchia – “l’Anarchia è una concezione dell’universo basata
sull’interpretazione meccanica dei fenomeni che abbraccia tutta la natura, non
esclusa la vita della società” – hanno scandalizzato alcuni compagni, i quali
non comprendendo, certamente per colpa mia, quel che io intendevo, mi han fatto
dire che l’anarchismo non sapeva che farsi della scienza e della filosofia, e
si sono sbizzarriti a dimostrare le grandi benemerenze della scienza e a dire
che l’anarchismo è una concezione generale della vita, cioè una filosofia,
senza poi toccare per nulla il punto che veramente io aveva posto in
discussione. Cercherò di spiegarmi più chiaramente.
Lasciamo andare
la filosofia, di cui si danno mille definizioni diverse e che spesso è davvero,
come dice ironicamente un filosofo, che non brilla egli stesso per soverchia
chiarezza, l’arte di rendere oscuro ciò che è chiaro. Io sono un profano e,
così, empiricamente, per mio uso personale, divido ciò che dicono “i filosofi”
in due parti: quello che capisco e quello che non capisco. Nella parte che
capisco trovo verità, errori, dubbi, ipotesi, problemi, tutte cose altamente
interessanti, ma che infine rientrano tutte nel campo dell’indagine
scientifica, se fra le scienze s’includono la logica e la psicologia. Nella
parte che non capisco mi par di vedere fantasticherie, tautologie, logomachie…
ma poiché non capisco, sarà più prudente astenermi dal giudicare.
Restiamo sul
terreno solido della scienza. Scopo della ricerca scientifica è di studiare la
natura, di scoprire il fatto e le “leggi” che la governano, cioè le condizioni
nelle quali il fatto necessariamente avviene e necessariamente si
riproduce. Una scienza è costituita quando può prevedere ciò che avverrà, non
importa se sappia o no dirne il perché; se la previsione non si avvera, vuol
dire che vi era errore e non c’è che da procedere a più ampia e più profonda
indagine. Il caso, l’arbitrio, il capriccio, sono concetti estranei alla
scienza, la quale ricerca perciò che è fatale, ciò che non può essere
diversamente, ciò che è necessario.
Questa necessità
che collega tra loro nel tempo e nello spazio tutti i fatti naturali e che è
compito della scienza ricercare e scoprire, abbraccia essa tutto ciò che
avviene nell’universo compresi i fatti psichici e sociali?
I meccanicisti
dicono di sì, e pensano che tutto è sottoposto alla stessa legge, meccanica,
tutto è predeterminato dagli antecedenti fisico-chimici: così il corso degli astri,
come lo sbocciare di un fiore, come il palpito di un’amante, come lo
svolgersi della storia umana. E il sistema, ne convengo volentieri, appare
bello e grandioso, meno assurdo, meno incomprensibile dei sistemi metafisici e,
se potesse esser dimostrato vero, soddisferebbe completamente lo spirito. Ma
allora, malgrado tutti gli sforzi pseudo-logici dei deterministi per
conciliare il sistema con la vita e con il sentimento morale, non vi resta
posto, né piccolo né grande, né condizionato né incondizionato, per la volontà
e per la libertà. La vita nostra e quella delle società umane sarebbe tutta
predestinata e prevedibile, ab eterno e per l’eternità, in tutti i
minimi particolari al pari di ogni fatto meccanico, e la nostra volontà
sarebbe semplice illusione come quella della pietra di cui parla Spinoza, che,
cadendo avesse coscienza della sua caduta e credesse che cade perché vuol cadere.
Ammesso questo,
che meccanicisti e deterministi non possono non ammettere senza contraddirsi,
diventa assurdo il voler regolare la propria vita, il volere educarsi ed educare,
il volere riformare in un senso o nell’altro l’organizzazione sociale. Tutto
questo affaccendarsi degli uomini per preparare un miglior avvenire non sarebbe
che l’inutile frutto di un’illusione, e non potrebbe durare dopo che si è
scoperto che è un’illusione. È vero che anche l’illusione, anche l’assurdo
sarebbero prodotti fatali delle funzioni meccaniche del cervello e come tali
rientrerebbero nel sistema, ma, ancora una volta, quale posto resta alla
volontà, alla libertà, all’efficacia dell’opera umana sulla vita e sui destini
dell’uomo?
Perché gli
uomini abbiano la fiducia, o almeno la speranza, di poter fare opera utile,
bisogna ammettere una forza creativa, una causa prima, o delle cause prime,
indipendenti dal mondo fisico e dalle leggi meccaniche, e questa forza è
quella che chiamiamo volontà.
Certamente,
ammettere questa forza significa negare l’applicazione generale del principio
di causalità e di ragion sufficiente, e la nostra logica si trova imbarazzata. Ma
non è sempre così, quando vogliamo rimontare all’origine delle cose? Noi non
sappiamo che cosa è la volontà; ma sappiamo forse che cosa è la materia, che
cosa è l’energia? Noi conosciamo i fatti, ma non la ragione dei fatti e,
comunque ci sforziamo, arriviamo sempre a un effetto senza causa, a una causa
prima – e se per spiegarci i fatti abbiamo bisogno di cause prime sempre
presenti e sempre attive, ne accetteremo l’esistenza come una ipotesi
necessaria, o almeno comoda.
Considerate così
le cose, compito della scienza è quello di scoprire ciò che è fatale (leggi
naturali) e stabilire i limiti dove finisce la necessità e comincia la
libertà; e la grande sua utilità consiste nel liberare l’uomo dall’illusione di
poter fare tutto quello che vuole e allargare sempre più la sua libertà
effettiva. Quando non si conosceva la fatalità che sottopone tutti i corpi alle
leggi di gravitazione, l’uomo poteva credere di poter volare a suo piacere, ma
restava a terra; quando la scienza ha scoperto le condizioni necessarie per sostenersi
e muoversi nell’aria, l’uomo ha acquistato la libertà di volare realmente.
In conclusione,
tutto ciò che sostengo è che l’esistenza di una volontà capace di produrre
effetti nuovi, indipendenti dalle leggi meccaniche della natura, è un presupposto
necessario per chi sostiene la possibilità di riformare la società. È
sulla necessità o meno di questo presupposto che possono discutere, se
vogliono, P. Garahino e altri miei contraddittori. Gli inni alla bellezza
della scienza non colgono nel segno.
Nota
all’articolo di Hz.: “Scienza e Anarchia”[26]
Ringrazio dei complimenti e
rispondo. Ciò che dice nella conferenza Kropotkin (del 6 marzo 1896) a cui si
riferisce il nostro compagno norvegese Hz.,
non spiega e non giustifica l’idea, per me arbitraria e assurda, che
l’Anarchia sia “una concezione dell’universo basata sull’interpretazione
meccanica dei fenomeni”.
Si tratta di
oscure e contestabili analogie tra la vita sodale e certi fatti (o supposti
fatti) del mondo fisico e biologico, che Kropotkin deve aver messi là perché
allora era di moda il ficcare in ogni cosa “la Scienza”, senza annettervi egli
stesso grande importanza, visto che comincia col dire: “Prendo alcuni esempi
elementari nel campo delle scienze naturali non
per dedurne le nostre idee sociali – siamo ben lontani da ciò – ma semplicemente
per far meglio risultare certi rapporti più facili a capirsi nei fenomeni
constatati dalle scienze esatte che cercandone gli esempi nei fatti così
complessi delle società umane”. E infatti, pagato il tributo alla moda
dell’ora, egli, di botto, senza apparente legame logico), passa a difendere
l’anarchia con argomenti derivati dal desiderio di giustizia, di libertà, di
benessere per tutti, che nulla hanno da fare con le scienze naturali.
Del resto, se si
volesse esaminare con rigore quello che Kropotkin dice nella citata conferenza,
bisognerebbe arrivare alla conclusione che egli stesso era in fondo tutt’altro
che un meccanicista. “Nulla” – dice – “di prestabilito in ciò che noi chiamiamo
armonia della natura. Il caso degli urti e degli scontri è stato sufficiente
per stabilirla”. Dunque il Caso?! Ma
come si può concepire che qualche cosa avvenga per caso senza supporre un
agente libero, una forza che, senza causa anteriore, sopravvenga ad alterare
l’equilibrio statico e dinamico di già esistente? E poi, che cosa è quest’armonia
della natura,
questo ordine naturale,
a cui tanto spesso fanno appello gli anarchici che s’ispirano alle idee di
Kropotkin? Che cosa han di comune quell’armonia e quell’ordine con l’armonia
sociale, che è lo scopo vero dell’anarchismo?
La Natura edifica e distrugge, fa nascere, fa soffrire e fa morire, crea la vita e fa in modo che essa non può mantenersi se non distruggendo altre vite. Naturale è l’amore e la gioia come è naturale l’odio e il dolore; naturale è l’abbondanza come è naturale la sterilità e la miseria; naturale lo schiacciamento del debole da parte del forte; naturale l’uragano, il terremoto, il cancro, la tubercolosi… Quest’ordine naturale somiglia ben più all’ordine borghese che a quello che vogliamo noi! Tutto ciò che esiste e avviene indipendentemente dalla volontà e dall’opera degli uomini è naturale e risponde forse a una necessità meccanica; ma non è certamente armonico, almeno nel senso che noi diamo alla parola armonia, quando l’invochiamo per la salvezza e la felicità degli uomini.
Hz. trova a ridire sul principio, generalmente accettato
nel campo delle scienze fisiche, della conservazione dell’energia, e osserva
che “una candela accesa ne può accendere
altre mille senza perciò consumarsi più presto e che una macchina non si consuma
più presto se fa un lavoro utile che se si muove per nulla.”
Io, pur non
comprendendo troppo, non mi scandalizzerei certamente se uno negasse il detto
principio della conservazione dell’energia, vale a dire che nulla si crea e
nulla si distrugge. Questo principio, come ogni altro su cui si fonda la
scienza non è in sostanza che un’ipotesi, utilissima per collegare i fatti
conosciuti e spingere a cercarne degli altri, ma non può lasciarvi pienamente
soddisfatti perché non ci svela che cosa è l’energia.
Se qualcuno mostrasse
l’insufficienza di quell’ipotesi e provocasse così ricerche e spiegazioni in
una nuova direzione non ci sarebbe che da rallegrarsene. Ma bisognerebbe appoggiare
la critica a qualche fatto e a qualche ragione; e invece le obiezioni del
nostro compagno mi paiono sfornite di ogni validità.
La fiamma della
candela accesa comunicando il fuoco ad altre si raffredda un poco a ogni contatto
con un lucignolo freddo e finirebbe collo spegnersi se i contatti si seguissero
troppo rapidamente e senza aspettare che l’energia chimica della candela trasformandosi
in calore avesse compensato il raffreddamento prodotto dai contatti coi lucignoli
freddi. In conclusione la candela durerebbe di più, con luce meno intensa e
regolare, ma né essa né le altre che essa ha accese produrrebbero più o meno
energia calorica, luminosa, ecc., di quella che sotto altre forme era contenuta
nei loro componenti e nell’ossigeno con cui si sono combinati.
“Una macchina
non si consuma più presto facendo un lavoro utile che muovendosi a vuoto”! Che significa questo lavoro utile? Questo dell’utilità è un concetto umano che non ha posto in meccanica
razionale. Utile, o inutile o dannoso per gli uomini che sia il movimento di
una macchina, essa non produce né distrugge energia, ma semplicemente la
trasforma e la trasporta.
In ogni modo, se
mai gli esempi citati da Hz. provassero
davvero qualche cosa contro il principio della conservazione dell’energia, si
arriverebbe a questa strana conclusione che egli, volendo con Kropotkin
estendere la legge meccanica anche al mondo morale e sociale, riesce a
sottrarre ad essa anche il mondo materiale in cui essa appare incontestabile.
A me sembra che
chi accetta la definizione kropotkiniana dell’anarchia si dibatte in un insanabile
illogicismo. È stato detto che ognuno è padrone delle sue premesse, cioè che
ognuno può mettere a base dei suoi ragionamenti il principio che gli sembra
vero, ricavandolo, secondo la sua mentalità, dall’esperienza o dalla fantasia o
un po’ dall’una e un po’ dall’altra. Ma una volta affermato il principio, le
conseguenze derivano necessariamente, governate dalla logica che è la legge
del pensiero ed è la stessa per tutti.
Quando si è
affermato che “tutto quello che avviene deve avvenire” comprendendo in quel tutto anche ciò che l’uomo pensa e
vuole e fa, quando si ritiene che pensiero e volontà non sono che il prodotto
di forze meccaniche, di urti, fatali o casuali, fra atomi materiali,
non si può poi dire che l’opera umana possa in un modo qualsiasi agire sugli
avvenimenti, nemmeno affrettandone o rallentandone il corso. Quando si ammette
che l’uomo non può fare diversamente da quello che fa, nessun acrobatismo
logico può dare un significato reale alle parole libertà e responsabilità.
In conclusione,
se si pigliasse sul serio la definizione di Kropotkin, tutti quelli che hanno
dell’universo una concezione diversa da quella meccanica, o che non ne hanno
alcuna, come temo sia il caso dal sottoscritto, si troverebbero messi fuori
dell’anarchismo: cosa che non era certo nell’intenzione di Kropotkin e non può
essere in quella dei nostri compagni meccanicisti,
materialisti e deterministi. E soprattutto non conviene a noi.
Perciò,
lasciando da parte l’incerta filosofia, io preferisco attenermi alle definizioni
volgari, le quali ci dicono che l’Anarchia è un modo di convivenza
sociale, in cui gli uomini vivono da fratelli senza che nessuno possa opprimere
e sfruttare gli altri e tutti abbiano a propria disposizione i mezzi che la
civiltà dell’epoca può fornire per raggiungere il massimo sviluppo morale e
materiale; e l’Anarchismo è il metodo per realizzare
l’anarchia per mezzo della libertà, senza governo, cioè senza organi autoritari
che con la forza, sia pure a fin di bene, impongano agli altri il proprio
volere.
VIOLENZA E
NON VIOLENZA
Anarchia e violenza[27]
Anarchia vuoi dire
non-violenza, non-dominio dell’uomo sull’uomo, non-imposizione per forza della
volontà di uno o di più su quella di altri. È solo mediante l’armonizzazione
degli interessi, mediante la cooperazione volontaria, con l’amore, il
rispetto, la reciproca tolleranza, è solo colla persuasione, l’esempio, il
contagio e il vantaggio mutuo della benevolenza che può e deve trionfare l’anarchia,
cioè una società di fratelli liberamente solidali, che assicuri a tutti la
massima libertà, il massimo sviluppo, il massimo benessere possibili.
Vi sono
certamente altri uomini, altri partiti, altre scuole tanto sinceramente devoti
al bene generale quanto possono esserlo i migliori tra noi. Ma ciò che
distingue gli anarchici da tutti gli altri è appunto l’orrore della violenza,
il desiderio e il proposito di eliminare la violenza, cioè la forza materiale,
dalle competenze tra gli uomini. Si potrebbe dire perciò che l’idea specifica
che distingue gli anarchici è l’abolizione del gendarme, l’esclusione dai
fattori sociali della regola imposta mediante la forza, brutale, legale o illegale
che sia.
Ma allora, si
potrà domandare, perché nella lotta attuale, contro le istituzioni politico-sociali,
che giudicano oppressive, gli anarchici hanno predicato e praticato, e predicano
e praticano, quando possono, l’uso dei mezzi violenti che pur sono in evidente
contraddizione coi fini loro? E questo al punto che, in certi momenti, molti
avversari in buona fede han creduto, e tutti quelli in mala fede han finto di
credere, che il carattere specifico dell’anarchismo fosse proprio la violenza?
La domanda può
sembrare imbarazzante, ma vi si può rispondere in poche parole. Gli è che
perché due vivano in pace bisogna che tutti e due vogliano la pace; ché se uno
dei due si ostina a volere colla forza obbligare l’altro a lavorare per lui e
a servirlo, l’altro se vuol conservare dignità di uomo e non essere ridotto
alla più abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace e il buon
accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi adeguati.
L’origine prima
dei mali che han travagliato e travagliano l’umanità, a parte s’intende quelli
che dipendono dalle forze avverse della natura, è il fatto che gli uomini non
han compreso che l’accordo e la cooperazione fraterna sarebbe stato il mezzo
migliore per assicurare a tutti il massimo bene possibile, e i più forti e i
più furbi han voluto sottomettere e sfruttare gli altri, e quando sono
riusciti, a conquistare una posizione vantaggiosa han voluto assicurarsene e
perpetuarne il possesso creando in loro difesa ogni specie di organi permanenti
di coercizione.
Da ciò è venuto
che tutta la storia è piena di lotte cruenti: prepotenze, ingiustizie, oppressioni
feroci da una parte, ribellioni dall’altra. Non v’è da fare distinzioni di
partiti: chiunque ha voluto emanciparsi, o tentare di emanciparsi, ha dovuto
opporre la forza alla forza, le armi alle armi. Però ciascuno, mentre ha
trovato necessario e giusto adoperare la forza per difendere la propria
libertà, i propri interessi, la propria classe, il proprio paese, ha poi, in nome
di una morale sua speciale, condannata la violenza quando questa si rivolgeva
contro di lui per la libertà, per gli interessi, per la classe, per il paese
degli altri. Così quegli stessi che, per esempio qui in Italia, glorificano a
giusta ragione le guerre per l’indipendenza ed erigono marmi e bronzi in onore
di Agesilao Milano, di Felice Orsini, di Guglielmo Oberdan e quelli che hanno
sciolto inni appassionati a Sofia Perovskaja e altri martiri di paesi lontani,
han poi trattati da delinquenti gli anarchici quando questi sono sorti a
reclamare la libertà integrale e la giustizia uguale per tutti gli esseri
umani e hanno francamente dichiarato che, oggi come ieri, fino a quando
l’oppressione e il privilegio saran difesi dalla forza bruta delle baionette,
l’insurrezione popolare, la rivolta dell’individuo e della massa, resta il
mezzo necessario per conseguire l’emancipazione.
Ricordo che in
occasione di un clamoroso attentato anarchico, uno che figurava allora nelle
prime file del partito socialista e tornava fresco fresco dalla guerra
turco-greca, gridava forte, con l’approvazione dei suoi compagni, che la vita
umana è sacra sempre e che non bisogna attentarvi nemmeno per la causa della
libertà. Pare che facesse eccezione per la vita dei turchi e la causa dell’indipendenza
greca. Illogicità, o ipocrisia?
Eppure la
violenza anarchica è la sola che sia giustificabile, la sola che non sia
criminale. Parlo naturalmente della violenza che ha davvero i caratteri
anarchici, e non di questo o quel fatto
di violenza cieca e irragionevole che è stato attribuito agli anarchici, o che
magari è stato commesso da veri anarchici spinti al furore da infami
persecuzioni, o accecati, per eccesso di sensibilità non temperato dalla
ragione, dallo spettacolo delle ingiustizie sociali, dal dolore per il dolore
altrui.
La vera violenza
anarchica è quella che cessa dove cessa la necessità della difesa e della
liberazione. Essa è temperata dalla coscienza che gl’individui presi
isolatamente sono poco o punto responsabili della posizione che ha fatto loro
l’eredità e l’ambiente; essa non è ispirata dall’odio ma dall’amore; ed è santa
perché mira alla liberazione di tutti e non alla sostituzione del proprio
dominio a quello degli altri.
Vi è stato in
Italia un partito che, con fini d’alta civiltà, si è adoperato a spegnere nelle
masse ogni fiducia nella violenza… ed è riuscito a renderle incapaci a ogni
resistenza quando è venuto il fascismo. Mi è parso che lo stesso Turati ha più
o meno chiaramente riconosciuto e lamentato il fatto nel suo discorso di Parigi
per la commemorazione di Jaurès.
Gli anarchici
non hanno ipocrisia. La forza bisogna respingerla colla forza: oggi contro le
oppressioni di oggi; domani contro le oppressioni che potrebbero tentare di sostituirsi
a quelle di oggi.
Noi vogliamo la
libertà per tutti, per noi e per i nostri amici come per i nostri avversari e
nemici. Libertà di pensare e di propagare il proprio pensiero, libertà di
lavorare e di organizzare la propria vita nel modo che piace; non libertà,
s’intende – e si prega i comunisti di non equivocare – non libertà di
sopprimere la libertà e di sfruttare il lavoro degli altri.
Cristiano?[28]
Nel numero del 10 aprile di Iconoclasta
(che io non ho ricevuto e leggo solo grazie alla cortesia di un amico) il
compagno Virgilio Gozzoli, ripigliando una vecchia polemica intorno all’odio e
al terrore rivoluzionario mi tratta da “comunista cristiano”. E io non so se
debbo considerare l’inaspettata qualifica come un elogio immeritato, o come una
gratuita ingiuria.
A parte la
credenza religiosa, che non penso mi si voglia attribuire, e considerando il cristianesimo
quale ispiratore di sentimenti etici e regola di condotta pratica, molti e vari
sono i modi d’intendere la qualità dì cristiano. Io conosco nella storia
passata e nella vita contemporanea tanti animi nobili e dolci che si dicono
cristiani, come so di fieri ribelli che sotto il labaro del Cristo
combatterono per la libertà e la giustizia. Ma so pure che si dissero cristiani
Simone di Monforte, Ignazio di Lojola, Torquemada Lutero, Calvino; come
cristiani si dicono la più gran parte dei moderni oppressori e mi domando se,
riferendomi a costoro e a tutte le persecuzioni e le stragi perpetrate in nome
di Cristo, non potrei a mia volta e con maggior ragione dar del cristiano ai
truci predicatori di odio, vendetta e terrore. Ma perché richiamarsi a Cristo e
alla storia dei suoi settatori, quando sarebbe così semplice, e ben più
sicuro, il giudicare le idee e i propositi di un uomo da quello che egli stesso
dice e fa? Almeno quando si tratta di uno che dice chiaramente quello che pensa
e ha sempre agito in conformità di quello che dice!
Io penso, e l’ho
ripetuto mille volte, che il non resistere al male “attivamente” cioè in tutti
i modi possibili e adeguati, in teoria è assurdo, perché in contraddizione
collo scopo d’evitare e distruggere il male, e in pratica è immorale perché
rinnega la solidarietà umana e il dovere che ne consegue di difendere i deboli e
gli oppressi. Io penso che un regime nato dalla violenza e che con la
violenza si sostiene non può essere abbattuto che da una violenza corrispondente
e proporzionata, e che perciò è sciocchezza o inganno il fidare nella legalità
che gli oppressori stessi foggiano a loro difesa. Ma penso che per noi che miriamo
alla pace fra gli uomini, alla giustizia e alla libertà di tutti, la violenza è
una dura necessità che deve cessare, a liberazione conseguita, là dove cessa la
necessità della difesa e della sicurezza, sotto pena di diventare un delitto
contro l’umanità e di menare a nuove oppressione e a nuove ingiustizie.
Comprendo gli scoppi irrefrenabili della vendetta popolare e la loro funzione
storica; ma non dobbiamo, noi, incoraggiare i sentimenti cattivi che
l’oppressione suscita nell’animo degli oppressi. Pur lasciando che il torrente
straripi e spazzi via il triste passato, noi dobbiamo sforzarci di conservare
alla lotta il carattere di lotta per l’intera redenzione umana, ispirandoci
sempre all’amore per gli uomini, per tutti gli uomini, e respingendo dall’animo
nostro e per quanto è possibile da quello degli altri, i torbidi propositi che
la tirannia ispira e il desiderio di vendetta alimenta.
[1] In Risveglio, Ginevra, 1° ottobre 1927.
[2] In Risveglio, Ginevra, 1° ottobre 1927.
[3] In Umanità Nova, anno
II, n° 190, Roma, 24 novembre 1921.
[4] In Pensiero e Volontà, anno II, n° 12, Roma, l° ottobre 1925.
[5] In Pensiero e Volontà, anno III, n° 7, Roma, 6 maggio 1926.
[6] In Umanità Nova, anno III, n° 82, Roma, 6 aprile 1922.
[7] In Umanità Nova, anno II, n° 187, Roma, 20 Novembre1921.
[8] In Pensiero e Volontà, anno
I, n° 9,
Roma, 1° maggio 1924.
[9] Da una lettera a Luigi Fabbri, Londra 1919, poi in Volontà, Ancona, 16 agosto 1919.
[10] In Umanità Nova, anno I, n° 136, Roma, 15 agosto 1920.
[11] In Pensiero e Volontà, anno I, n° 3, Roma, 1° febbraio 1924.
[12] In Umanità Nova, anno
II, n° 197, Roma, 4 dicembre 1921.
[13] In Pensiero e Volontà, anno I, n° 6, Roma. 15 marzo 1924.
[14] In Umanità Nova, anno
I, n° 168, Milano, 11 settembre 1920.
[15] In Umanità Nova, anno
III, n° 62, Roma, 14 marzo 1922.
[16] In Umanità Nova, anno III, n° 196, Roma, 2 dicembre
1922.
[17] In Umanità Nova, anno
III, n° 195, Roma, 25 novembre 1922.
[18] In Libero Accordo, n° 78,
Roma, 28 agosto 1923.
[19] In Pensiero e Volontà, anno I, n° 5, Roma 10 marzo 1924.
[20] In Umanità Nova, anno III, n° 191, Roma, 7 ottobre 1922.
[21]In Pensiero e Vo1ontà, anno I, n° 19, Roma 10 ottobre 1924.
[22] In Pensiero e Volontà, anno II, n° 8, Roma 10
luglio 1925.
[23] In Pensiero e Volontà, anno I, n° 21, Roma, 10 novembre 1924.
[24] In Pensiero e Volontà, anno I, n° 18, Roma, 15 settembre 1924.
[25] In Pensiero e
Volontà, anno III, n° 2, Roma, 1° febbraio 1926.
[26] In Pensiero e Volontà, anno II, n° 10, Roma, l° settembre
1925.
[27] In Pensiero e Volontà, anno II, n° 17,
Roma, 1 settembre 1924.
[28] In Pensiero e Volontà, anno III, n° 6, Roma, 16 aprile 1925.