Errico Malatesta

 

ANTOLOGIA TEMATICA

 


 

ANARCHIA COME ORGANIZZAZIONE

 

 

 

 

 

Organizzatori e antiorganizzatori[1]

 

Sono degli anni che si fa tra gli anarchici un gran discu­tere su questa questione. E, come avviene spesso, quando si piglia passione in una discussione e alla ricerca della verità subentra il puntiglio di aver ragione, o quando le discus­sioni teoriche non sono che un tentativo per giustificare una condotta pratica ispirata da altri motivi si è prodotta una grande confusione d’idee e di parole,

Ricordiamo di passaggio, tanto per sbarazzarcene, le semplici questioni di parole, che a volte han raggiunto le più alte cime del ridicolo come per esempio: “Noi non vo­gliamo l’organizzazione ma l’armonizzazione”; “Siamo contrari all’associazione, ma ammettiamo l’intesa”; “Noi non vogliamo segretario e cassiere, perché sono cose auto­ritarie, ma incarichiamo un compagno di tenere la corri­spondenza, e un altro di custodire il denaro” – e passiamo alla discussione seria.

Vi sono tra coloro che rivendicano, con aggettivi vari o senza aggettivi, il nome di anarchici, due frazioni: i parti­giani e gli avversari dell’organizzazione.

Se non possiamo riuscirci a metterci d’accordo, cerchia­mo almeno di comprenderci. E prima di tutto distinguiamo, poiché la questione è tri­plice: l’organizzazione in generale come principio e condi­zione di vita sociale, oggi e nella società futura l’organizzazione del partito anarchico; e l’organizzazione delle forze popolari e specialmente quella delle masse ope­raie per la resistenza contro il governo e contro il capita­lismo.

La necessità dell’organizzazione nella vita sociale, e qua­si direi la sinonimia tra organizzazione e società, è cosa tanto evidente che si stenta a credere come si sia potuta ne­gare. Per rendersene conto bisogna ricordare quale è la fun­zione specifica, caratteristica del movimento anarchico, e come gli uomini e i partiti sono soggetti a lasciarsi assorbire dalla questione che più direttamente li riguarda, dimen­ticando tutte le questioni connesse, a guardare più la forma che la sostanza, infine a vedere le cose da un lato solo e per­dere così la giusta nozione della realtà.

Il movimento anarchico cominciò come reazione contro lo spirito d’autorità, dominante nella società civile, nonché in tutti i partiti e tutte le organizzazioni operaie, e si è an­dato ingrossando man mano di tutte le rivolte sollevatesi contro le tendenze autoritarie e accentratrici.

Era naturale quindi che molti anarchici fossero come ipnotizzati da questa lotta contro l’autorità e che, creden­do, per l’influenza dell’educazione autoritaria ricevuta, che l’autorità è l’anima dell’organizzazione sociale, per combattere quella combattessero e negassero questa. E veramente l’ipnotizzazione arrivò al punto far sostenere cose veramente incredibili.

Si combatté ogni sorta di cooperazione e dì intesa, rite­nendo che l’associazione era l’antitesi dell’anarchia, si so­stenne che senza accordi, senza obblighi reciproci, facendo ognuno quello che gli passa per il capo senza nemmeno informarsi di quello che fa l’altro, tutto si sarebbe sponta­neamente armonizzato; che anarchia significa che ogni uo­mo deve bastare a se stesso e farsi da sé tutto quello che gli occorre senza scambio e senza lavoro associato; che le fer­rovie potevano funzionare benissimo senza organizzazio­ne, anzi che questo avveniva dì già in Inghilterra(!); che la posta non era necessaria e che chi a Parigi voleva scrivere una lettera a Pietroburgo… se la poteva portare da sé(!), ecc. ecc.

Ma queste sono sciocchezze, si dirà, e non vale la pena di rilevarle. Sì, ma queste sciocchezze sono state dette, stampate, propagate: sono state accolte da gran parte del pubblico co­me l’espressione genuina delle idee anarchiche: e servono sempre come armi di combattimento agli avversari, bor­ghesi e non borghesi, che vogliono aver di noi una facile vit­toria. E poi quelle sciocchezze non mancano del loro valore, in quanto sono la conseguenza logica di certe premesse e possono servire di riprova sperimentale della verità o meno di quelle premesse.

Alcuni individui, di mente limitata ma forniti di potente spirito logico, quando hanno accettato delle premesse ne tirano tutte le conseguenze fino all’ultimo, e, se così vuole la logica, arrivano senza scomporsi alle più grandi assordirà, alla negazione dei fatti più evidenti. Ve ne sono bensì altri più colti e di spirito più largo, che trovan sempre mo­do di arrivare a conclusioni più o meno ragionevoli, anche a costo di strapazzare la logica; e per questi gli errori teori­ci hanno poca o nessuna influenza sulla condotta pratica. Ma insomma fino a che non si rinunzia a certi errori fon­damentali si è sempre minacciati dai sillogizzatori a ol­tranza e si torna sempre da capo.

E l’errore fondamentale degli anarchici avversari dell’organizzazione è il credere che non sia possibile organizzare senza autorità – e il preferire, ammessa quella ipotesi, piuttosto rinunziare a qualsiasi organizzazione che accet­tare la minima autorità.

Ora, che l’organizzazione, vale a dire l’associazione per uno scopo determinato e colle forme e i mezzi necessari a conseguire quel fine, sia una cosa necessaria alla vita so­ciale ci pare evidente. L’uomo isolato non può vivere nem­meno la vita del bruto: esso è impotente salvo nelle regioni tropicali e quando la popolazione è eccessivamente rada, a procurarsi il nutrimento e lo è sempre, senza eccezioni a elevarsi a una vita alcun poco superiore a quella degli ani­mali. Dovendo perciò unirsi cogli altri uomini anzi trovan­dosi unito in conseguenza dell’evoluzione antecedente della specie, esso deve, o subire la volontà degli altri (esse­re schiavo), o imporre la volontà propria agli altri (essere un’autorità), o vivere cogli altri in fraterno accordo in vista del maggior bene di tutti (essere un associato). Nessuno può esimersi da questa necessità; e i più eccessivi antiorganizzatori non solo subiscono l’organizzazione gene­rale della società in cui vivono, ma anche negli atti volon­tari della loro vita, anche nelle loro rivolte contro l’organizzazione sì uniscono, si dividono il compito, si organizzano con quelli con cui vanno d’accordo e utilizzano i mezzi che la società mette a loro disposizione… sempre, s’intende, che si tratti di cose volute e fatte davvero e non di vaghe aspi­razioni platoniche, di sogni sognati.

Anarchia significa società organizzata senza autorità, intendendosi per autorità la facoltà dì imporre la propria volontà e non già il fatto inevitabile e benefico che chi me­glio intende e sa fare una cosa riesce più facilmente a far accettare la sua opinione e serve di guida, in quella data cosa ai meno capaci di lui.

Secondo noi l’autorità non solo non è necessaria all’orga­nizzazione sociale ma, lungi dal giovarle, vive su di essa da parassita, ne inceppa l’evoluzione e volge i suoi vantaggi a profitto speciale di una data classe che sfrutta e opprime le altre. Fino a che in una collettività vi è armonia d’interessi, fino a che nessuno ha voglia o modo di sfruttare gli altri, non v è traccia d’autorità: quando viene la lotta intestina e la collettività si divide in vincitori e vinti, allora sorge l’autorità, la quale naturalmente è devoluta ai più forti e serve a confermare, perpetuare e ingrandire la loro vittoria.

Crediamo così, e perciò siamo anarchici: che se credes­simo cioè non vi possa essere organizzazione senza autorità, noi saremmo autoritari, perché preferiremmo ancora l’au­torità, che inceppa e addolora la vita, alla disorganizzazio­ne che la rende impossibile.

Del resto, quel che saremmo noi importa poco. Se fosse vero che il macchinista e il capotreno deb­bano per forza essere delle autorità, anziché dei compagni che fanno per tutti un determinato lavoro, il pubblico amerebbe sempre piuttosto subire la loro autorità che viag­giare a piedi. Se il mastro di posta non potesse non essere un’autorità, ogni uomo sano di mente sopporterebbe l’au­torità del mastro di posta, piuttosto che portar da sé le pro­prie lettere. E allora… l’anarchia sarebbe il sogno di alcuni, ma non potrebbe realizzarsi mai.

 

 

 

L’organizzazione come condizione della vita sociale[2]

 

L’organizzazione, che poi non è altro che la pratica del­la cooperazione e della solidarietà, è condizione naturale, necessaria della vita sociale: è un fatto ineluttabile che s’im­pone a tutti, tanto nella società umana in generale, quanto in qualsiasi gruppo di persone che hanno uno scopo comu­ne da raggiungere.

Non volendo e non potendo l’uomo vivere isolato, anzi non potendo esso diventare veramente uomo e soddisfare i suoi bisogni materiali e morali se non nella società e colla cooperazione dei suoi simili, avviene fatalmente che quelli che non hanno i mezzi o la coscienza abbastanza sviluppa­ta per organizzarsi liberamente con coloro con cui hanno comunanza d’interessi e di sentimenti, subiscono l’organiz­zazione fatta da altri individui, generalmente costituiti in classe o gruppo dirigente, allo scopo di sfruttare a proprio vantaggio il lavoro degli altri. E l’oppressione millenaria delle masse da parte dì un piccolo numero di privilegiati è stata sempre la conseguenza della incapacità della maggior parte degl’individui di accordarsi, di organizzarsi con gli al­tri lavoratori per la produzione, per il godimento e per l’eventuale difesa contro chi volesse sfruttarli e opprimerli.

Per rimediare a questo stato di cose è sorto l’anarchismo, il cui principio fondamentale è l’organizzazione libera, fat­ta o mantenuta dalla libera volontà degli associati senza nessuna specie di autorità, cioè senza che nessuno abbia il diritto di imporre agli altri la propria volontà. Ed è quindi naturale che gli anarchici cerchino di applicare nella loro vita privata e di partito quello stesso principio, su cui, se­condo loro, dovrebbe essere fondata tutta quanta la società umana.

Da certe polemiche può sembrare che vi siano degli anarchici refrattari a ogni organizzazione; ma in realtà le molte, le troppe discussioni che si fanno tra noi sull’argo­mento, anche se oscurate da questioni di parole, o avvele­nate da questioni personali, in fondo riguardano il modo e non già il principio di organizzazione. Così avviene che dei compagni, che a parole sono i più avversi all’organizzazio­ne, quando vogliono davvero fare qualche cosa, si organiz­zano come, e spesso meglio degli altri. La questione, ripe­to, sta tutta nel modo.

Io credo soprattutto necessario, urgente, che gli anar­chici s’intendano, si organizzino il più e il meglio possibile per influire sulla via che seguono le masse nelle loro lotte per i miglioramenti e l’emancipazione.

Oggi la più grande forza di trasformazione sociale è il movimento operaio (movimento sindacale), e dal suo indi­rizzo dipende in gran parte il corso che prenderanno gli av­venimenti e la meta a cui arriverà la prossima rivoluzione. Per mezzo delle organizzazioni, fondate per la difesa dei lo­ro interessi, i lavoratori acquistano la coscienza dell’op­pressione in cui giacciono e dell’antagonismo che li divide dai loro padroni, incominciano ad aspirare ad una vita su­periore, si abituano alla lotta collettiva e alla solidarietà, e possono riuscire e conquistare quei miglioramenti che so­no compatibili con la persistenza del regime capitalistico e statale. Dopo, quando il conflitto diventa insanabile, viene o la rivoluzione, o la reazione. Gli anarchici debbono rico­noscere l’utilità e l’importanza del movimento sindacale, debbono favorirne lo sviluppo, e farne una delle leve della loro azione, facendo tutto quello che possono perché esso, in cooperazione colle altre forze di progresso esistenti, sbocchi in una rivoluzione sociale che porti alla soppres­sione delle classi, alla libertà totale, all’eguaglianza, alla pace e alla solidarietà fra tutti gli esseri umani. Ma sarebbe una grande e letale illusione il credere, come fanno molti, che il movimento operaio possa e debba da se stesso, in conseguenza della sua stessa natura, menare ad una tale ri­voluzione. Al contrario, tutti i movimenti fondati sugl’interessi materiali e immediati (e non si può fondare su altre basi un vasto movimento operaio), se manca il fermento, la spinta, l’opera concertata degli uomini d’idee, che combattono e si sacrificano in vista di un ideale avvenire, tendono fatalmente ad adattarsi alle circostanze, fomentano lo spi­rito di conservazione e la paura di cambiamenti in quelli che riescono ad ottenere condizioni migliori, e finiscono spesso col creare nuove classi privilegiate e servire a far sop­portare e consolidare il sistema che si vorrebbe abbattere.

Di qui la necessità impellente di organizzazioni pretta­mente anarchiche che dentro, come fuori dei sindacati lot­tino per la realizzazione integrale dell’anarchismo e cer­chino di sterilizzare tutti i germi di degenerazione e di rea­zione.

Ma è evidente che per conseguire i loro scopi le organizzazioni anarchiche debbono essere, nella loro co­stituzione e nel loro funzionamento, in armonia coi princi­pi dell’anarchismo, e cioè che non siano in nessun modo in­quinate da spirito autoritario, che sappiano conciliare la li­bera azione degl’individui con la necessità e il piacere della cooperazione, che servano a Sviluppare la coscienza e la ca­pacità d’iniziativa dei loro membri, e siano un mezzo edu­cativo per l’ambiente in cui operano e una preparazione morale e materiale per l’avvenire che desideriamo. (…)

Un’organizzazione anarchica deve essere fondata secondo me sulle se­guenti basi. Piena autonomia, piena indipendenza e quindi piena re­sponsabilità, degl’individui e dei gruppi; accordo libero tra quelli che credono utile unirsi per cooperare a uno scopo comune; dovere morale di mantenere gl’impegni presi e di non far nulla che contraddica al programma accettato. Su queste basi si adottano poi le forme pratiche, gli strumenti adatti per dar vita reale all’organizzazione.Quindi i gruppi, le federazioni di gruppi, le federazioni di federazioni, le riunioni, i congressi i comitati incaricati della corrispondenza o altro. Ma tutto questo deve esser fatto liberamente in modo da non inceppare il pensiero e l’iniziativa dei singoli, e solo per dare maggiore portata agli sforzi che, isolati, sa­rebbero impossibili o di poca efficacia

Così i congressi in un’organizzazione anarchica, pur soffrendo come corpi rappresentativi di tutte le imperfezioni non fanno la legge, non impongono agli altri le proprie deliberazioni. Essi servono a mantenere e aumentare i rapporti personali fra i compagni più attivi, a riassu­mere e fomentare gli studi programmatici sulle vie e sui mezzi d’azione, e far conoscere a tutti le situazioni delle di­verse regioni e l’azione che più urge in ciascuna di esse, a formulare le varie opinioni correnti tra gli anarchici e far­ne una specie di statistica – e le loro decisioni non sono re­gole obbligatorie, ma suggerimenti, consigli, proposte da sottoporre a tutti gli interessati, e non diventano impegnative ed esecutive se non per quelli che le accettano e finché le accettano. Gli organi amministrativi che essi nominano – Commissione di Corrispondenza, ecc. – non hanno nessun potere direttivo, non prendono iniziative se non per conto di chi quelle iniziative sollecita e approva e non hanno nes­suna autorità, per imporre le proprie vedute, che essi pos­sono certamente sostenere e propagare come gruppi di compagni, ma non possono presentare come opinione uffi­ciale dell’organizzazione. Essi pubblicano le risoluzioni dei congressi e le opinioni e le proposte che gruppi e individui comunicano loro; e servono per chi se ne vuol servire, a fa­cilitare le relazioni fra i gruppi e la cooperazione tra quelli che son d’accordo sulle varie iniziative: libero chi crede di corrispondere direttamente con chi vuole, o di servirsi di al­tri comitati nominati da speciali raggruppamenti.

In un’organizzazione anarchica i singoli membri posso­no professare tutte le opinioni e usare tutte le tattiche che non sono in contraddizione coi principi accettati e non nuocciono all’attività degli altri. In tutti i casi una data or­ganizzazione dura fino a che le ragioni d’unione sono su­periori alle ragioni dì dissenso: altrimenti si scioglie e lascia luogo ad altri raggruppamenti più omogenei.

Certo la durata, la permanenza di un’organizzazione condizione di successo nella lunga lotta che dobbiamo combattere e d’altronde è naturale che qualunque istituzio­ne aspira, per istinto, a durare indefinitivamente. Ma la du­rata di un’organizzazione libertaria deve essere la conse­guenza dell’affinità spirituale dei suoi componenti e dell’adattabilità della sua costituzione ai continui cambiamenti delle circostanze: quando non è più capace di com­piere una missione utile meglio che muoia.

 


ANARCHIA ED ANARCHISMO

 

 

 

 

 

A proposito di libertà[3]

 

Noi ci vantiamo di essere soprattutto e innanzitutto pro­pugnatori di libertà: libertà non per noi soli, ma per tutti. Libertà non solo per quello che a noi sembra la verità, ma anche per quello che può essere o parere l’errore.

Sappiamo la prima obiezione che tentano di farci i no­stri avversari, i quali poi vogliono anche essi una specie di libertà, che essendo limitata alle loro persone, al loro parti­to e alle loro idee si traduce in arbitrio e tirannia a danno degli altri. Voi, ci dicono, vi fate della libertà una specie di divinità. Voi reclamate la libertà assoluta, che è cosa impossibile e assurda.

Abbiamo più volte risposto a questa falsa interpretazio­ne delle nostre idee, ma naturalmente senza ottenere che ci sentano quei sordi… che non vogliono sentire.

Non c’è niente d’assoluto nelle nostre concezioni, poi­ché siamo profondamente convinti della relatività di tutte le cose almeno per quanto gli uomini possono concepirle. Noi non reclamiamo una libertà astratta, metafisica che rompendo i vincoli che legano l’uomo alla natura e alla so­cietà, negherebbe e annullerebbe l’umanità. Noi reclamiamo semplicemente quella che si potrebbe chiamare la libertà sociale, cioè l’eguale libertà per tutti, un’eguaglianza di condizioni tale che permetta a tutti di fa­re il proprio volere col solo limite imposto dalle ineluttabi­li necessità naturali e dalla eguale libertà degli altri.

“Ma voi volete dunque anche la libertà per la borghesia, voi nella vostra mania di libertà volete ostacolare il pro­letariato nella sua lotta per l’emancipazione” dicono spes­so e volentieri i comunisti che ricevono il verbo dal gover­no di Mosca.

L’affermazione sarebbe semplicemente stupida se non fosse volutamente maligna, se non tendesse, come eviden­temente tende, a metterci in cattiva luce innanzi al proletariato, che essi comunisti vorrebbero governare domani a lo­ro beneplacito senza l’incomodo di quei rompiscatole degli anarchici.

Tutti troverebbero ridicolo il pensare che, essendo noi partigiani della libertà, vorremmo che ciascuno avesse la li­bertà di uccidere i suoi simili. Solo i comunisti trovano se­rio il dire che noi vorremmo rispettata la libertà dei bor­ghesi dì sfruttare il lavoro altrui, che è poi un modo atte­nuato di uccidere gli altri.

La libertà che vogliamo noi non è il diritto astratto di fa­re il proprio volere, ma il potere di farlo; quindi suppone in ciascuno i mezzi di poter vivere e agire senza sottoporsi al­la volontà altrui. E siccome per vivere è prima condizione il produrre, pre­supposto necessari, della libertà è la libera disposizione per tutti del suolo, delle materie prime e degli strumenti di lavoro.

Ciò che costituisce l’essenza della borghesia è l’accaparramento dei mezzi di produzione e di scambio, che la met­te in grado di sfruttare l’opera dei lavoratori e ordinare tut­to il processo produttivo e distributivo in vista del proprio profitto, tenendo nel minor conto possibile l’interesse dei produttori e dei consumatori.

Fino a quando questo accaparramento sussisterà non vi sarà liberta per la grande massa dei proletari che debbono mendicare presso i borghesi i mezzi per vivere. E qualun­que cambiamento di regime politico riuscirà impotente, anche supposta la buona volontà dei governanti, a garanti­re ai proletari la libertà e la giustizia.

È chiaro dunque che nostro scopo precipuo è quello di espropriare la borghesia e naturalmente di abbattere il go­verno che sta a sua difesa. Ma la borghesia resisterà, difenderà i suoi privilegi con tutto l’accanimento possibile. D’accordo; e perciò noi l’at­taccheremo, la combatteremo con la massima energia e non avremo posa fino a quando non l’avremo ridotta all’impotenza, cioè fino a quando non l’avremo distrutta co­me classe, levandole i mezzi di sfruttare il lavoro altrui e as­sorbito tutti i borghesi nella massa lavoratrice con diritti uguali a quelli di tutti gli altri.

La differenza tra noi e i comunisti di fronte alla bor­ghesia sta in questo. Essi vogliono combatterla e debellarla con mezzi di po­lizia, organizzando un nuovo governo, una dittatura, la quale, oltre il sopprimere ogni libertà di pensiero e d’azio­ne per coloro che non godono la protezione dei dittatori, non riuscirebbe a distruggere la classe borghese se non creando una nuova classe privilegiata che cominciando coll’essere classe burocratica saprebbe presto trasformarsi in nuova classe capitalistica.

Noi vogliamo combattere e abbattere la borghesia con mezzi rivoluzionari, coll’azione diretta della massa proleta­ria che prende possesso dei mezzi di produzione. Chi sa i borghesi quale metodo apprezzerebbero di più.

Un’altra osservazione. Noi siamo avversari decisi, irreduttibili del regime bor­ghese. Ma non bisogna dimenticare che la storia passata ha conosciuto regimi peggiori di quello borghese, e che se non si sta attenti regimi peggiori potrebbero vedersi anche nell’avvenire.

Se al regime borghese dovesse sostituirsi un governo di fanatici che volessero darci qualche cosa che ricorderebbe il comunismo dei gesuiti del Paraguay, noi non divente­remmo per questo amici del regime decaduto, ah no, ma combatteremmo con eguale decisione il regime vecchio e nuovo.

 

 

 

Anarchismo e gradualismo[4]

 

L’anarchismo dicevo, deve essere necessariamente gra­dualista. Si può concepire l’anarchia come la perfezione assoluta, ed è bene che quella concezione resti sempre presente alla nostra mente, quale faro ideale che guida i nostri passi. Ma è evidente che quell’ideale non può raggiungersi d’un salto, passando di botto dall’inferno attuale al paradiso agognato.

I partiti autoritari, quelli cioè che credono morale ed espediente imporre colla forza una data costituzione socia­le, possono sperare (vana speranza del resto) che, quando si saranno impossessati del potere, potranno a forza di leg­gi, decreti… e gendarmi sottoporre tutti e durevolmente al loro volere.

Ma una tale speranza e un tale volere non sono conce­pibili negli anarchici, i quali non vogliono nulla imporre salvo il rispetto della libertà e contano per la realizzazione dei loro ideali sulla persuasione e sui vantaggi sperimentati della libera cooperazione.

Ciò non significa che io creda (come a scopo polemico mi ha fatto dire un giornale riformista poco informato o po­co scrupoloso) che per fare l’anarchia bisogna aspettare che tutti siano anarchici. Io credo al contrario – e perciò sono rivoluzionario – che nelle condizioni attuali solo una pic­cola minoranza favorita da circostanze speciali possa arri­vare a concepire l’anarchia, e che sarebbe una chimera lo sperare nella conversione generale se prima non si cambia l’ambiente, nel quale prosperano l’autorità e il privilegio. E appunto per questo credo che bisogna, appena è possibile, cioè appena si sia conquistata la libertà sufficiente e vi sia in un dato luogo un nucleo di anarchici abbastanza forte per numero e capacità da bastare a se stesso e irradiare in­torno a sé la propria influenza, bisogna, dico, organizzarsi per applicare l’anarchia o quel tanto di anarchia che diven­ta mano a mano possibile.

Poiché non si può convertire la gente tutta in una volta e non si può isolarsi per necessità di vita e per l’interesse del­la propaganda bisogna cercare il modo di realizzare quan­to più di anarchia è possibile in mezzo a gente che non anarchica o lo è in gradi diversi. Il problema dunque non è se bisogna o no procedere gra­dualmente, ma quello di cercare quale è la via che più rapi­damente e più sinceramente conduce all’attuazione dei no­stri ideali.

 

 

 

Né democratici né dittatoriali: anarchici[5]

 

“Democrazia” significa teoricamente governo di popolo: governo di tutti, a vantaggio di tutti, per opera di tutti. Il po­polo deve, in democrazia, poter dire quello che vuole, no­minare gli esecutori delle sue volontà sorvegliarli revocar­li a suo piacimento.

Naturalmente questo suppone che tutti gli individui che compongono il popolo abbiano la possibilità di formarsi un’opinione e di farla valere su tutte le questioni che li inte­ressano. Suppone dunque che ognuno sia politicamente ed economicamente indipendente, e nessuno sia obbligato per vivere a sottoporsi alla volontà altrui.

Se vi sono classi e individui privi dei mezzi di produzione e quindi dipendenti da chi quei mezzi ha monopolizzati, il cosiddetto regime democratico non può essere che una menzogna atta ad ingannare e render docile la massa dei go­vernati con una larva di supposta sovranità, e così salvare e consolidare il dominio della classe privilegiata e dominan­te. E tale è, ed è sempre stata, la democrazia in regime capitalistico qualunque sia la forma ch’essa prende, dal go­verno costituzionale monarchico al preteso governo diretto.

Di democrazia, di governo di popolo non ve ne potrebbe essere che in regime socialistico, quando, essendo socializ­zati i mezzi di produzione e di vita, il diritto di tutti a intervenire nel reggimento della cosa pubblica avesse a ba­se e garanzia l’indipendenza economica dì ciascuno. In questo caso sembrerebbe che il regime democratico fosse quello che meglio risponde a giustizia e meglio armonizza l’indipendenza individuale con le necessità della vita socia­le. E tale apparve, in modo più o meno chiaro, a coloro che in tempi di monarchie assolute combatterono soffrirono e morirono per la libertà.

Sennonché, a guardare le cose come veramente sono, il governo di tutti risulta un’impossibilità in conseguenza del fatto che gli individui che compongono il popolo hanno opinioni e volontà differenti l’uno dall’altro, e non avviene mai, o quasi mai, che su di una questione od un nome qua­lunque tutti siano d’accordo; e perciò il “governo di tutti”, se governo ha da essere, non può che essere, nella migliore delle ipotesi, che il governo della maggioranza. E i demo­cratici, socialisti o no, ne convengono volentieri. Essi ag­giungono, è vero, che si debbono rispettare i diritti delle mi­noranze; ma siccome è la maggioranza che determina qua­li sono questi diritti, le minoranze in conclusione non han­no che il diritto di fare quello che la maggioranza vuole e permette. Unico limite all’arbitrio della maggioranza sa­rebbe la resistenza che le minoranze sanno e possono op­porre; vale a dire che durerebbe sempre la lotta sociale, in cui una parte dei soci, e sia pure la maggioranza, ha il di­ritto di imporre agli altri la propria volontà, asservendo ai propri scopi le forze di tutti.

E qui potrei dilungarmi per dimostrare col ragiona­mento appoggiato ai fatti passati e contemporanei, come non sia nemmeno vero che quando vi è governo, cioè co­mando, possa davvero comandare la maggioranza e come in realtà ogni “democrazia” sia stata, sia e debba essere niente altro che una “oligarchia”, un governo di pochi, una dittatura. Ma preferisco, per lo scopo di quest’articolo, ab­bondare nel senso dei democratici e supporre che davvero vi possa essere un vero e sincero governo di maggioranza,

Governo significa diritto di fare la legge e d’imporla a tutti colla forza: senza gendarmi non v’è governo. Ora, può una società vivere e progredire pacificamente, per il maggior bene di tutti, può essa adattare mano mano il suo modo di essere alle sempre mutevoli circostanze, se la maggioranza ha il diritto e il modo d’imporre colla forza la sua volontà alle minoranze ricalcitranti?

La maggioranza è di sua natura arretrata, conservatrice nemica del nuovo, pigra nel pensare e nel fare e nello stesso tempo è impulsiva, eccessiva, docile a tutte le suggestioni, facile agli entusiasmi e alle paure irragionevoli, Ogni nuova idea parte da uno o pochi individui, è accettata, se è un’idea vitale, da una minoranza più o meno numerosa, e, se mai, arriva a conquistare la maggioranza solo dopo che è stata superata da nuove idee, da nuovi bisogni, ed è già diventata antiquata e forse ostacolo anziché sprone al progresso.

Ma vogliamo noi dunque un governo di minoranza? Certamente che no; che se è ingiusto e dannoso che la maggioranza opprima le minoranze e faccia ostacolo al progresso è anche più ingiusto e più dannoso che una mi­noranza opprima tutta la popolazione od imponga colla forza le proprie idee, che, anche quando fossero buone, su­sciterebbero ripugnanza e opposizione per il fatto stesso di essere imposte.

E poi, non bisogna dimenticare che di minoranze ve n’è di tutte le specie. Vi sono minoranze d’egoisti e di malva­gi, come ve ne sono di fanatici che si credono in possesso della verità assoluta e vorrebbero, in piena buona fede del resto, impone agli altri quello che essi credono la sola via di salvezza e che può anche essere una semplice sciocchez­za. Vi sono minoranze di reazionari, che vorrebbero torna­re indietro e che sono divise intorno alle vie e ai limiti del­la reazione, come ci sono minoranze rivoluzionarie, anch’esse divise sui mezzi e sugli scopi della rivoluzione e sulla direzione che bisogna imprimere al progresso sociale.

Quale minoranza dovrà comandare? È una questione di forza brutale e di capacità d’intrigo; e le probabilità di riuscita non sono a favore dei più since­ri e dei più devoti al bene generale. Per conquistare il pote­re ci vogliono delle qualità che non sono precisamente quel­le che occorrono per far trionfare nel mondo la giustizia e la benevolenza.

Ma io voglio ancora abbondare in concessioni, e sup­porre che arrivi al potere proprio quella minoranza che, fra gli aspiranti al governo, io considero migliore per le sue idee e i suoi propositi. Voglio supporre che al potere an­dassero i socialisti, e direi anche gli anarchici, se non me lo impedisse la contraddizione in termini.

Peggio che andar di notte, come si dice volgarmente. Già, per conquistare il potere, legalmente o illegaLmen­te, bisogna aver lasciato per istrada buona parte del proprio bagaglio ideale ed essersi sbarazzati di tutti gl’impedimen­ti costituiti da scrupoli morali. E quando poi si è arrivati, il grande affare è di restare al potere, quindi necessità di coin­teressare al nuovo stato di cose e attaccare alle persone dei governanti una nuova classe di privilegiati, e di sopprimere con tutti i mezzi possibili ogni specie di opposizione. Ma­gari a fin di bene, ma sempre con risultati lìberticidi.

Un governo stabilito, che si fonda sul consenso passivo della maggioranza, forte per il numero, per la tradizione, per il sentimento, a volte sincero, di essere nel diritto, può lasciare qualche  libertà, almeno fino a che le classi privile­giate non si sentono in pericolo. Un governo nuovo, che ha l’appoggio di una, spesso esigua, minoranza, è costret­to per necessità e per paura a essere tirannico.

Basti pensare a quello che man fatto i socialisti e i comu­nisti quando sono andati al potere, sia se vi sono andati tra­dendo i loro principi e i loro compagni, sia se vi sono an­dati a bandiere spiegate, in nome del socialismo e del co­munismo .

Ecco perché non siamo né per un governo di maggio­ranza, nè per un governo di minoranza; né per la democra­zia, né per la dittatura.

Noi siamo per l’abolizione del gendarme. Noi siamo per la libertà per tutti, e per il libero accordo, che non può man­care quando nessuno ha i mezzi per forzare gli altri, e tutti sono interessati al buon andamento della società. Noi sia­mo per l’anarchia.

 


ANARCHIA E MOVIMENTO OPERAIO

 

 

 

 

 

Sindacalismo e anarchismo[6]

 

Invitato, quasi forzato da gentili insistenze, a parlare nel­la seduta di chiusura del recente congresso dell’Unione Sindacale Italiana, dissi cose che scandalizzarono i “sinda­calisti puri”, dispiacquero ad alcuni compagni forse perché ritenute inopportune e, quel che è peggio, riscorsero gli ap­plausi più o meno interessati di altri, estranei all’Unione Sindacale, che sono molto lontani dalle mie idee e dai miei propositi. Eppure io non feci che ripetere opinioni da me mille vol­te espresse e che mi sembrano far parte integrante del pro­gramma anarchico. Gioverà ritornarci su ancora una volta.

Non bisogna confondere il “sindacalismo”, che vuol es­sere una dottrina e un metodo per risolvere la questione so­ciale, con la promozione, l’esistenza e le attività dei sinda­cati operai.

I sindacati operai (leghe di resistenza e altre manifesta­zioni del movimento operaio) sono indubbiamente utili: so­no anzi una fase necessaria dell’ascensione del proletaria­to. Essi tendono a dar coscienza ai lavoratori della loro ve­ra posizione di sfruttati e di schiavi, sviluppano in essi il de­siderio di cambiare stato, li abituano alla solidarietà e alla lotta e, colla pratica della lotta, fanno comprender loro che i padroni sono i nemici e che il governo è il difensore dei padroni. I miglioramenti che per mezzo della lotta operaia si possono ottenere sono certamente piccola cosa, lasciano sussistere il principio dello sfruttamento e dell’oppressio­ne di una classe da parte di un’altra e sono sempre in peri­colo di essere resi illusori o soppressi addirittura, dal gioco delle forze economiche prevalenti; ma anche incerti e illu­sori, quei miglioramenti servono pure a impedire che la massa si adatti e si abbrutisca in una miseria sempre egua­le, che leva persino la concezione e il desiderio di una vita migliore. E la rivoluzione quale la vogliamo noi, fatta dalla massa e sviluppatesi per opera della massa, senza imposi­zioni di dittature aperte o larvate, mal si potrebbe produr­re e consolidare senza l’esistenza precedente di un largo movimento di masse.

Del resto, checché se ne possa pensare, il movimento sin­dacale è un fatto che s’impone e non ha bisogno del nostro riconoscimento per esistere. Esso è il frutto naturale, nelle attuali condizioni sociali, dell’incipiente ribellione degli op­pressi; e sarebbe assurdo, oltre che dannoso, il pretendere che i lavoratori rinunziassero ai tentativi di ottenere miglio­ramenti immediati, siano anche piccoli, in attesa dell’emancipazione totale che dovrà essere il portato della com­pleta trasformazione sociale fatta per mezzo della rivolu­zione. Perciò noi, in quanto anarchici preoccupati soprattutto della realizzazione del nostro ideale, lungi dal disinteres­sarci del movimento operaio, dobbiamo prendervi parte at­tiva e cercare ch’esso, pur adattandosi alle necessità con­tingenti della piccola lotta quotidiana, si svolga nel modo meno contrastante possibile con le nostre aspirazioni e di­venti sempre più un mezzo efficace di elevamento morale e di rivoluzione.

Ma tutto questo non è “il sindacalismo”, che vuol essere una dottrina e una pratica a sé, e pretende che l’organizza­zione operaia, fatta a scopo di resistenza e di lotta attuale per i miglioramenti attualmente conseguibili, porti natural­mente, col suo crescere e allargarsi, alla completa trasfor­mazione delle istituzioni sociali, e sia condizione e garan­zia di una società egualitaria e libertaria.

È un fatto spiegabilissimo la tendenza di ogni uomo di dare massima importanza al lavoro che fa, al genere di at­tività ch’egli esercita – e se vi sono di quelli che, occupan­dosi di anti-alcolismo, di neomaltusianismo, di riforma ali­mentare, di lingua internazionale, ecc. ecc., han finito col vedere nella loro minuscola, frammentaria propaganda il toccasana di tutti i mali sociali, non v’è davvero da meravi­gliarsi se coloro che han dato tutto il loro entusiasmo, tut­ta la loro attività a un così importante e vasto movimento come il movimento operaio, finiscano spesso col fare di es­so una panacea, un rimedio universale e sufficiente. E infatti vi furono, specialmente in Francia, degli anar­chici che, entrati nel movimento operaio con i migliori pro­positi, per portare la parola e i metodi nostri in mezzo alle masse, furono poi assorbiti e trasformati, innalzarono il grido “il sindacalismo basta a se stesso”… e bentosto ces­sarono dall’essere anarchici. Senza parlare di coloro che tradirono coscientemente, cessarono anche di essere sin­dacalisti e colla scusa dell’Unione sacra si misero al servizio del governo e dei padroni.

Ma se l’ubriacatura sindacalista è spiegabile e perdona­bile, ciò non è che una ragione di più per stare in guardia e non prendere per un mezzo unico e sicuro di rivoluzione, una forma di lotta che ha in sé molta potenzialità rivolu­zionaria, ma può anche, se abbandonata alle sue sole natu­rali tendenze, divenire uno strumento di conservazione del privilegio e di adattamento delle masse più evolute alle pre­senti istituzioni sociali.

Il movimento operaio, malgrado tutte le sue beneme­renze e tutte le sue potenzialità, non può essere per sé stes­so un movimento rivoluzionario, nel senso di negazione delle basi giuridiche e morali della società attuale. Esso può, ciascuna nuova organizzazione può, nello spi­rito degli iniziatori e nella lettera degli statuti, avere le più alte aspirazioni e i più radicali propositi. Ma se vuole eser­citare la funzione propria del sindacato operaio, cioè la di­fesa attuale degli interessi dei suoi membri, essa deve riconoscere di fatto le istituzioni che ha negato in teoria, adattarsi alle circostanze, e tentare di ottenere, volta per volta, il più che può, trattando e transigendo coi padroni e col governo.

In una parola, il sindacato operaio è, per sua natura, riformista e non già rivoluzionario. Il rivoluzionarismo vi deve essere immesso, sviluppato e mantenuto per l’opera costante dei rivoluzionari che agiscono fuori e dentro del suo seno, ma non può essere l’esplicazione naturale e nor­male della sua funzione. Al contrario, gli interessi attuali e immediati degli operai associati, che il sindacato ha mis­sione di difendere, sono molto spesso in opposizione colle aspirazioni ideali e avveniristiche e il sindacato può fare opera rivoluzionaria solo se è pervaso dallo spirito di sacri­ficio e nella proporzione che l’ideale è messo al di sopra del­l’interesse, cioè solo se nella proporzione che cessa di es­sere sindacato economico e diventa gruppo politico e idea­listico, il che non è possibile nelle grandi organizzazioni che per agire han bisogno del consentimento della massa sempre più o meno egoista, paurosa e retriva.

Né questo è il peggio. La società capitalistica è talmente costituita che, gene­ralmente parlando, gli interessi di ciascuna classe, di ciascuna categoria, di ciascun individuo sono in antagonismo con quelli di tutte le altre classi, di tutte le altre categorie di tutti gli altri individui. E nella pratica della vita si verificano i più strani intrecci di armonie e di contrasti di interessi fra classi e tra individui che dal punto di vista della giustizia sociale dovrebbero essere sempre amici o sempre nemici. E avviene sovente che, malgrado la conclamata solidarietà proletaria, gli interessi di una categoria di operai sono opposti a quelli degli altri operai e armonici con quelli di una categoria di padroni; come avviene che, malgrado la voluta fratellanza internazionale, gli interessi attuali degli operai di un dato paese li leghino ai capitalisti paesani li mettano in lotta contro i lavoratori forestieri: servan d’esempio gli atteggiamenti delle diverse organizzazioni operaie di fronte alla questione delle tariffe doganali, e la parte volontaria che le masse operaie prendono nelle guerre tra gli Stati capitalistici.

Non mi dilungherò a citare molti esempi di contrasti d’interessi tra le diverse categorie di produttori e di consumatori, per ragioni di spazio e anche perché mi secca ripetere quello che ho già detto tante altre volte: antagonismi tra occupati e disoccupati, tra uomini e donne, tra opera indigeni e operai venuti di fuori, tra i lavoratori che usufruiscono di un servizio pubblico e i lavoratori che quel servizio eseguiscono, tra chi sa un mestiere e chi vuole apprenderlo, ecc. ecc.

Ricorderò qui specialmente l’interesse che hanno gli operai dei mestieri di lusso alla prosperità delle classi ricche, e quello di molteplici categorie di lavoratori delle differenti località a che il “commercio” vada, sia pure a scapito di altre località e con danno della produzione utile alla massa. E che dire di quelli che lavorano a cose dannose alla società e ai singoli, quando essi non hanno altro modo di guadagnarsi da vivere? Andate, in tempo ordinario, quando non v’è fede in un’imminente rivoluzione, andate a persuadere degli arsenalotti minacciati dalla mancanza di lavoro a non invocare dal governo la costruzione di una nuova corazzata. E risolvete, se potete, con mezzi sindacali e facendo giustizia a tutti, il conflitto tra i facchini dei porti che non hanno altro mezzo di assicurarsi la vita se non monopolizzando il lavoro a vantaggio di quelli che già da tempo esercitano il mestiere, e i nuovi arrivati, gli av­ventizi, che accampano il loro diritto al lavoro e alla vita!

Tutto questo e tant’altro che si potrebbe dire mostra che il movimento operaio, per se stesso, senza il fermento del­le idealità rivoluzionarie contrastanti con gli interessi pre­senti e immediati degli operai, senza la critica e la spinta dei rivoluzionari, lungi dal menare alla trasformazione del­la società a vantaggio di tutti, tende a fomentare gli egoismi di categoria e a creare una classe di operai privilegiati sovrapposta alla grande massa dei diseredati. E ciò spiega il fatto generale che in tutti i paesi le orga­nizzazioni operaie a misura che si sono ingrandite e irrobustite, sono diventate conservatrici e reazionarie, e che co­loro i quali al movimento operaio han dato i loro sforzi con intenzioni oneste e avendo in mira una società di benessere e di giustizia per tutti sono condannati a un lavoro di Sisifo e debbono periodicamente ricominciare da capo.

Non è vero quel che pretendono i sindacalisti che l’orga­nizzazione operaia di oggi servirà di quadro alla società fu­tura e faciliterà il passaggio dal regime borghese al regime ugualitario. È un’idea questa che trovava un favore fra i membri del­la prima Internazionale: e, se mal non ricordo, negli scritti di Bakunin si trova detto che la nuova società si realizzerebbe mediante l’entrata di tutti i lavoratori nelle Sezioni dell’Internazionale.

Ma a me ciò pare un errore. I quadri dell’organizzazione operaia attuale corrispondono alle condizioni odierne della vita economica quale è risultata dall’evoluzione storica e dalla imposizione capita­listica. E la nuova società non può realizzarsi, se non rom­pendo quei quadri e creando organismi nuovi corrispondenti alle nuove condizioni e ai nuovi fini sociali.

Gli operai sono aggruppati oggi secondo i mestieri che esercitano, le industrie alle quali concorrono, secondo i pa­droni contro cui devono lottare o i commerci ai quali sono legati. A che cosa serviranno quegli aggruppamenti quan­do, soppressi i padroni e sconvolti i rapporti commerciali, buona parte dei mestieri e delle industrie attuali dovranno sparire, alcuni definitivamente perché inutili e dannosi, al­tri temporaneamente perché utili nell’avvenire, non avran­no ragion d’essere e possibilità di vita nel periodo tormentato della crisi sociale? A che cosa serviranno, tanto per ci­tare un esempio tra mille, le organizzazioni dei cavatori di marmo di Carrara quando occorrerà che essi cavatori vadano a coltivare la terra, e ad accrescere i prodotti alimen­tari, lasciando all’avvenire la costruzione dei monumenti e dei palazzi marmorei?

Certamente le organizzazioni operaie, specie nella loro forma cooperativistica (che d’altra parte in regime capitali­stico tende a tagliar le gambe alla resistenza operaia) pos­sono servire a sviluppare nei lavoratori le capacità tecniche e amministrative, ma in tempo dì rivoluzione e per la rior­ganizzazione sociale debbono sparire e fondersi nei nuovi aggruppamenti popolari che le circostanze richiederanno. Ed è compito dei rivoluzionari cercare d’impedire che in es­se si sviluppi quello spirito di corpo, che ne farebbe un osta­colo al soddisfacimento dei nuovi bisogni sociali.

Dunque, secondo me, il movimento operaio è un mezzo da utilizzare oggi per l’elevazione e l’educazione delle mas­se, domani per l’inevitabile urto rivoluzionario, Ma è un mezzo che ha i suoi inconvenienti e i suoi pericoli. E noi anarchici dobbiamo adoperarci per neutralizzare gli in­convenienti, parare i pericoli, e utilizzare più che si può il movimento ai fini nostri.

Ciò non vuol dire che noi vorremmo, come è stato detto, asservire il movimento operaio al nostro partito. Certo sa­remmo contenti che tutti gli operai, che tutti gli uomini fos­sero anarchici, il che è il limite estremo a cui tende ideal­mente ogni propagandista; ma allora l’anarchia sarebbe un fatto e non ci sarebbe più luogo per queste discussioni.

Nello stato attuale delle cose noi vorremmo che il movi­mento operato, aperto a tutte le propagande idealistiche e prendendo parte a tutti i fatti della vita sociale, economici, politici e morali, viva e si sviluppi libero da ogni domina­zione di partito, dal nostro come da quello degli altri.

Per noi non ha grande importanza che i lavoratori vo­gliano dì più o di meno: l’importante è che quel che voglio­no, cerchino di conquistarlo da loro, colle loro forze, con la loro azione diretta contro i capitalisti e il governo.

Un piccolo miglioramento strappato colla forza propria, vale più per i suoi effetti morali e, alla lunga, anche per i suoi effetti materiali, che una grande riforma concessa dal governo o dai capitalisti per fini subdoli o sia anche per pu­ra e semplice benevolenza.

 


ANARCHICI E MARXISTI

 

 

 

 

 

Aspettando[7]

 

Aspettando di potere ammanettare, processarci e... fuci­larci, i “Comunisti” dell’Ordine Nuovo di Torino e del Co­munista di Roma fanno intanto quel poco che possono: si sforzano di calunniarci

Aspiranti al nobile mestiere di fornitori di carne umana alle galere e ai patiboli, fanno già da ora i primi esercizi co­piando i poliziotti di Russia e d’Italia che qualificano di malfattori i nemici che vogliono colpire.

Noi protestiamo contro le persecuzioni a cui sono sotto­posti in Russia i compagni nostri e quanti altri non si pie­gano al volere del tiranno bolscevico, e il Comunista di Ro­ma spiega subito coll’evidenza del disegno che noi difen­diamo la borghesia russa contro le rivendicazioni del pro­letariato.

Noi reclamiamo in Italia l’uguale libertà per tutti, comu­nisti, anarchici, fascisti, clericali, ecc., e l’Ordine Nuovo ci dipinge come se noi trattenessimo gli operai che si difen­dono contro gli attacchi proditorii dei fascisti.

La verità è che noi lamentiamo il rinnovato imborghesimento della Russia, come lamentiamo la poca energia del­la resistenza operaia contro il fascismo. Ma siccome noi non invochiamo i poliziotti, i “comunisti” non ci capiscono nulla. E vadano una buona volta a fare i poliziotti sul serio. È la loro vocazione e forse ci riusciranno.

 

 

 

Comunisti e fascisti[8]

 

Non ci scandalizzano le violenze e pastette elettorali del fasci­smo. I lavoratori devono guardare in faccia la questione. La concezione comunista della tattica elettorale e parlamentare lo­gicamente non esclude, neppure da parte nostra la... pastetta. Se potessimo fare pastette e fugare elettori avversari dalle urne, sarebbe confortante perché saremmo più vicini a poter spiega­re forze mature per l’offensiva.

Così dice nell’Unità l’ingegnere Bordiga, che aspira a es­sere Lenin, in copia ridotta, dell’Italia comunista. E questa è la ragione fondamentale per la quale il fasci­smo ha potuto trionfare e continua ancora a imperversare. È mancata – e non solamente fra quelli che si dicono Co­munisti – la rivolta morale contro l’abuso della forza brutale, contro il disprezzo della libertà e la dignità umana, che sono la caratteristica del movimento fascista. Troppa gente, anche tra le vittime, ha pensato: noi fa­remmo lo stesso se ne avessimo la forza. E naturalmente molti di quelli che così han pensato si sono sentiti attirati dalla parte dov’era, o sembrava essere, la forza.

Ma allora, se trionfassero i comunisti, che differenza vi sarebbe dal fascismo? Gli stessi prepotenti, gli stessi teppisti, che ora picchia­no e bruciano e uccidono in nome dell’Italia grande accor­rerebbero nelle file dei comunisti e picchierebbero, bruce­rebbero, ucciderebbero in nome del proletariato; e l’inge­gnere Bordiga si troverebbe nella stessa posizione in cui pa­re si trovi Mussolini: dopo avere aizzata la belva per salir su, vorrebbe frenarla per evitare l’immancabile caduta a cui menano gli eccessi, e non potrebbe.

La rivoluzione dovrà esser fatta in nome della giustizia, della libertà, della solidarietà umana e procedere con me­todi che s’ispirano alla giustizia, alla libertà e alla solida­rietà. Altrimenti non si farà che cadere da una tirannia in un’altra.

 

Avevamo già scritto questo commento alle linee di Bor­diga, che traemmo da La Giustizia di Reggio Emilia, quando ci si dice che dal contesto dell’articolo di Bordiga quelle pa­role prendevano un altro significato. Non abbiamo potuto procurarci il testo dell’articolo, ma lasciamo passare lo stesso il nostro commento, perché il sen­so di quelle parole ci pare troppo chiaro per potere arzi­gogolarci su. Del resto se anche Bordiga non voleva dire precisamente quello che ha detto, noi quelle cose, e anche delle peggiori, ce le siamo intese dire personalmente da molti comunisti. È be­ne lo stile della setta.

 

 

 

Il governo rivoluzionario e la dittatura del proletariato[9]

 

Carissimo Fabbri,

sulla questione che preoccupa tanti, quella della ditta­tura del proletariato, mi pare che siamo fondamentalmente d’accordo.

A me sembra che su questa questione l’opinione degli anarchici non potrebbe esser dubbia, e infatti prima della rivoluzione bolscevista non era dubbia per nessuno. Anar­chia significa non-governo e quindi a maggior ragione non-dittatura, che è governo assoluto senza controllo e senza li­miti costituzionali. Ma quando è scoppiata la rivoluzione bolscevista parec­chi nostri amici hanno confuso ciò che era rivoluzione con­tro il governo preesistente, e ciò che era nuovo governo che veniva a sovrapporsi alla rivoluzione per frenarla e diriger­la ai fini particolari di un partito – e quasi quasi si sono di­chiarati bolscevisti essi stessi.

Ora, i bolscevisti sono semplicemente dei marxisti,che sono onestamente e conseguentemente restati marxisti, a differenza dei loro maestri e modelli, i Guesde, i Plechanov, i Hyndmann, gli Scheidemann, i Noske, ecc, ecc., che han fatto la fine che tu sai. Noi rispettiamo la loro sincerità, am­miriamo la loro energia, ma come non siamo stati mai d’ac­cordo con loro sul terreno teorico, non sapremmo solida­rizzarci con loro quando dalla teoria si passa alla pratica.

Ma forse la verità è semplicemente questa: che i nostri amici bolscevizzanti coll’espressione dittatura del proleta­riato” intendono semplicemente il fatto rivoluzionario dei lavoratori che prendono possesso della terra e degli stru­menti di lavoro e cercano di costituire una società, di orga­nizzare un modo di vita in cui non vi sia posto per una classe che sfrutti e opprima i produttori. Intesa così, la “dittatura del proletariato” sarebbe il po­tere effettivo di tutti i lavoratori intenti ad abbattere la so­cietà capitalistica, e diventerebbe l’anarchia non appena fosse cessata la resistenza reazionaria e nessuno più tendesse di obbligare con la forza la massa a ubbidirgli lavorare per lui. E allora il nostro dissenso non che una questione di parole. Dittatura del proletariato gnificherebbe dittatura di tutti, vale a dire non sarebbe dittatura, come governo di tutti non è più governo, nel senso autoritario, storico, pratico della parola.

Ma i partigiani veri della “dittatura del proletariato” non la intendono così, e ce lo fanno ben vedere in Russia. Il proletariato naturalmente c’entra come c’entra il Popolo nei regimi democratici, cioè semplicemente per nascondere l’essenza reale della cosa. In realtà si tratta della dittatura di un partito, o piuttosto dei capi di un partito; ed è dittatura vera e propria, coi suoi decreti, colle sue sanzioni penali, e suoi agenti esecutivi e soprattutto colla sua forza armate che serve oggi anche a difendere la rivoluzione dai suoi nemici esterni, ma che servirà domani per imporre ai lavoratori la volontà dei dittatori arrestare la rivoluzione, consolidare i nuovi interessi che si vanno costituendo e difendere contro la massa una nuova classe privilegiata.

Anche il generale Bonaparte servì a difendere la rivoluzione francese contro la reazione europea, ma nel difenderla la strozzò. Lenin, Trockij e compagni sono di sicuro dei rivoluzionari sinceri, così come essi intendono la rivoluzione, e non tradiranno; ma essi preparano i quadri governativi che serviranno a quelli che verranno dopo per pro­fittare della rivoluzione e ucciderla. Essi saranno le prime vittime del loro metodo, e con loro, io temo, cadrà la rivo­luzione. È la storia che si ripete: mutatis mutandis, è la dit­tatura di Robespierre che porta Robespierre alla ghigliottina e prepara la via a Napoleone.

Queste sono le mie idee generali sulle cose di Russia. In quanto ai particolari le notizie che abbiamo sono ancora troppo varie e contraddittorie per potere arrischiare un giu­dizio. Può anche darsi che molte cose che ci sembrano cat­tive siano il frutto della situazione e che nelle circostanze speciali della Russia non fosse possibile fare diversamente di quello che hanno fatto. È meglio aspettare, tanto più che quello che noi diremmo non può avere nessuna influenza sullo svolgimento dei fatti in Russia, e potrebbe in Italia es­sere male interpretato e darci l’aria di far eco alle calunnie interessate della reazione. L’importante è quello che dobbiamo fare noi – siamo sempre lì, io sto lontano e impossibilitato a fare la parte mia…

 

 

 

La ricetta dei comunisti[10]

 

Al contrario degli anarchici vi sotto molti rivoluzionari i quali non hanno fiducia nell’istinto costruttivo delle masse, credono di avere essi la ricetta infallibile per assicurare la felicità universale, temono la possibile reazione, temono forse più la concorrenza di altri partiti e altre scuole di riformatori sociali, e vogliono perciò impossessarsi del po­tere e sostituire al governo “democratico” di oggi un go­verno dittatoriale.

Dittatura dunque: ma chi sarebbero i dittatori? Naturalmente, pensano essi, i capi del loro partito. Dicono ancora, per abitudine contratta o per desiderio cosciente di evitare le spiegazioni chiare, dittatura del proletariato, ma questa è una burletta oramai sfatata. Ecco come si spiega Lenin, o chi per lui (vedi Avanti! del 20 luglio 1920):

 

“La dittatura significa l’abbattimento della borghesia per opera di un’avanguardia rivoluzionaria (questa è la rivoluzione e non già la dittatura) in contrasto con la concezione che sia anzitutto necessario ottenere una maggioranza nelle elezioni. Per mezzo della dittatura si ottiene la maggioranza, non già per mezzo della maggioranza la dittatura.” (E sta be­ne; ma se è una minoranza che, impossessatasi del potere, deve poi conquistare la maggioranza è una menzogna il parlare di dittatura del proletariato. Il proletariato è evi­dentemente la maggioranza.)

 

“La dittatura significa l’impiego della violenza e del terro­re.” (Per opera di chi e contro chi? Poiché si suppone la maggioranza ostile e non può trattarsi, nel concetto ditta­toriale, di folla scatenata che prende nelle sue mani la Cosa Pubblica, evidentemente la violenza e il terrore dovranno essere praticati contro tutti coloro che non si piegano ai vo­leri dei dittatori per mezzo di scherani al servizio di essi dit­tatori.)

 

“La libertà di stampa e di riunione equivarrebbe ad autorizzare la borghesia ad avvelenare l’opinione pubblica.” (Dunque dopo l’avvento della dittatura del “proletariato” che dovrebbe essere la totalità dei lavoratori, vi sarà ancora una borghesia che invece di lavorare avrà i mezzi di avvelenare “l’opinione pubblica” e un’opinione pubblica da avvelena­re estranea a quei proletari che dovrebbero costituire la dit­tatura? Vi saranno dei censori onnipotenti che giudiche­ranno di quello che sì può o non si può stampare e dei que­stori a cui bisognerà domandare il permesso per tenere un comizio. Inutile dire quale sarebbe la libertà lasciata a chi non è ligio ai dominatori del momento.)

 

“Soltanto dopo la espropriazione degli espropriatori, dopo la vittoria, il proletariato attirerà a sé le masse della popola­zione che prima seguiva la borghesia”. (Ma ancora una volta, che cosa è questo proletariato che non è la massa che lavo­ra? Proletariato non significa dunque chi non ha proprietà, ma chi ha certe date idee e appartiene a un dato partito?)

 

Lasciamo dunque questa falsa espressione di dittatura del proletariato atta a produrre tanti equivoci e discutiamo della dittatura quale essa è veramente, cioè il governo asso­luto di uno o più individui i quali, appoggiandosi su un par­tito o su un esercito, s’impadroniscono della forza sociale e impongono “colla violenza e col terrore” la loro volontà. Quale sarà questa volontà dipende dalla specie di perso­ne che all’atto pratico riusciranno a impossessarsi del po­tere. Nel caso nostro si suppone che sarà la volontà dei co­munisti e quindi una volontà ispirata al desiderio del bene di tutti.

È già una cosa molto dubbia, poiché generalmente gli uomini meglio dotati delle qualità necessarie per arraffare il potere non sono i più sinceri e i più devoti alla causa pub­blica; e se si predica alle masse la necessità di sottometter­si a un nuovo governo non si fa che spianare la via agli in­triganti e agli ambiziosi. Ma supponiamo pure che i nuovi governanti, i dittatori che dovrebbero realizzare gli scopi della rivoluzione siano dei veri comunisti, pieni di zelo, convinti che dall’opera lo­ro, dall’energia loro dipenda la felicità del genere umano. Sarebbero degli uomini sul tipo dei Torquemada e dei Ro­bespierre che, a fine di bene, in nome della salute privata o pubblica, soffocherebbero ogni voce discorde, distrugge­rebbero ogni alito di vita libera e spontanea: e poi, impo­tenti a risolvere i problemi pratici da loro sottratti alla com­petenza degli interessati, dovrebbero per amore e per forza lasciare il posto ai restauratori del passato.

La grande giustificazione della dittatura sarebbe l’inca­pacità delle masse e la necessità di difendere la rivoluzione dai tentativi reazionari. Se davvero le masse fossero armento bruto incapace di vivere senza il bastone del pastore, se non vi fosse già una minoranza sufficientemente numerosa e cosciente capace di trascinare le masse colla predicazione e coll’esempio, al­lora comprenderemmo meglio i riformisti, i quali temono la sollevazione popolare e s’illudono di potere poco a poco, a forza di piccole riforme, che sono poi piccoli rammendi, minare lo Stato borghese e preparare le vie al socialismo! Comprenderemmo meglio gli educazionisti che non valu­tando abbastanza l’influenza dell’ambiente sperano di po­ter cambiare la società cambiando prima tutti gli individui; non potremmo comprendere affatto i partigiani della ditta­tura, che vogliono educare ed elevare le masse “colla vio­lenza e col terrore” e dovrebbero elevare a primi fattori di educazione i gendarme e i censori.

In realtà nessuno potrebbe istituire la dittatura rivoluzionaria se prima il popolo non avesse fatta la rivolu­zione, mostrando così a fatti la sua capacità di farla; e allo­ra la dittatura non farebbe che sovrapporsi alla rivoluzione, sviarla, soffocarla e ucciderla.

In una rivoluzione politica in cui si mira solo a buttare giù il governo lasciando in piedi tutta l’organizzazione sociale esistente, può una dittatura impossessarsi del potere, met­tere i suoi uomini al posto dei funzionari scacciati e orga­nizzare dall’alto il nuovo regime. Ma in una rivoluzione sociale, dove sono rovesciate tut­te le basi della convivenza sociale, dove la produzione indispensabile deve essere ripresa subito per conto e van­taggio dei lavoratori, dove la distribuzione deve essere im­mediatamente regolata secondo giustizia, la dittatura non potrebbe far nulla. O il popolo provvederebbe da sé nei di­versi comuni e nelle diverse industrie, o la rivoluzione sa­rebbe fallita.

Forse in fondo i partigiani della dittatura (e già alcuni lo dicono apertamente) non desiderano subito che una rivoluzione politica, vale a dire che vorrebbero senz’altro impossessarsi del potere e poi gradualmente trasformare la società per mezzo di leggi e di decreti. In tal caso essi avreb­bero probabilmente la sorpresa di vedere al potere ben al­tri che loro stessi; e in tutti i casi dovrebbero prima d’ogni altra cosa pensare a organizzare la forza armata (i poliziotti) necessaria a imporre il rispetto delle loro leggi. Intanto la borghesia che sarebbe restata sostanzialmente la deten­trice della ricchezza, superato il momento critico dell’ira popolare, preparerebbe la reazione, riempirebbe la polizia di propri agenti, sfrutterebbe il disagio e la disillusione di coloro che si aspettavano l’immediata realizzazione del pa­radiso terrestre… e ripiglierebbe il potere o attirando a sé i dittatori, o sostituendoli con uomini suoi.

Quella paura della reazione, addotta a giustificazione del regime dittatoriale, dipende appunto dal fatto che si preten­de fare la rivoluzione lasciando sussistere ancora una clas­se privilegiata in condizione di poter riprendere il potere. Se invece s’incomincia con l’espropriazione completa, allora borghesi non ve ne sarà più; e tutte le forze vive del proletariato, tutte le capacità esistenti saranno impiegate nell’opera di ricostruzione sociale.

Del resto, in un paese come l’Italia (per applicare il già detto al paese in cui svolgiamo la nostra attività), in un pae­se come l’Italia, dove le masse sono pervase da istinti libertari e ribelli, dove gli anarchici rappresentano una forza considerevole, più che per le loro organizzazioni, per l’in­fluenza che possono esercitare, un tentativo di dittatura non potrebbe essere tatto senza scatenare la guerra civile tra lavoratori e lavoratori e non potrebbe trionfare se non per mezzo della più feroce tirannia. Allora, addio comunismo! Non v’è che una via oossibile di salvezza: la Libertà.

 

 

 

Lutto o festa?[11]

 

Lenin è morto. Noi possiamo avere per lui quella specie di ammirazione forzata che strappano alle folle gli uomini forti, anche allucinati, anche se malvagi, che riescono a lasciare nel storia una traccia profonda del loro passaggio: Alessandro Giulio Cesare, Cromwell, Robespierre, Napoleone. Ma egli, sia pure colle migliori intenzioni, fu un tiranno, lo strangolatore della rivoluzione russa – e noi che non potemmo amarlo vivo, non possiamo piangerlo morto. Lenin è morto. Viva la libertà.

 

 

 

Senilità e infantilismo[12]

 

Un tale che firma “Un operaio comunista”) sorge a difen­dere la dittatura bolscevica in Bandiera Rossa di Fano; e sic­come io chiamai barbarica tale dittatura, egli crede di dire qualche cosa dicendo che (questa sconcia espressione dimostra la senilità del Malatesta). In ricambio, io voglio dare a quel giovanotto (al quale del resto auguro d’avere in corpo ancora tanta vitalità quanta ne ho io) una piccola lezione sull’arte del ragionare. Forse s’accorgerà che non basta esser giovane per avere il cervello a posto.

Egli dice: “gli anarchici dicono che la pretesa dittatura del proletariato altro non è che la dittatura di pochi uomini sulla massa dei lavoratori. E qui è il grave errore nel quale gli anarchici incaponiscono. Debellata la borghesia e restando vincitore il proletariato, è il proletariato stesso che provvede alla gestione della cosa pubblica mediante i propri rappre­sentanti eletti dai consigli degli operai dei contadini: è il pro­letariato stesso che sostituisce la borghesia nella gestione del potere.”

E se s’intende che il “proletariato” non sarebbe più pro­letariato poiché avrebbe preso possesso della terra, degli strumenti di lavoro e di tutta la ricchezza sociale, e che “il potere” sarebbe non la imposizione forzata della volontà di alcuni su quella della massa popolare, ma la facoltà effetti­va di ciascuno di concorrere mediante liberi accordi alla ge­stione degli interessi generali, noi potremmo ancora accet­tare la formula del giovanotto di Bandiera Rossa.

In ogni modo, che noi consentissimo o no, e ciò dipen­derebbe dal modo come quella formula sarebbe applicata, vi è in essa una concezione della vita sociale che non ha niente di barbarico. Ma allora, perché poi il sullodato giovanotto salta su a parlare di un “periodo transitorio di dittatura” il quale do­vrebbe provvedere alla soluzione dei problemi urgenti dell’indomani dell’atto rivoluzionario?

Se la dittatura cara ai comunisti non è, come pretendo­no gli anarchici, la dittatura di pochi uomini sulla massa dei lavoratori ma significa realmente la gestione della co­sa pubblica esercitata da tutti i lavoratori, cioè da tutti gli uomini (perché tutti dovrebbero lavorare), come mai que­sta dittatura non sarebbe che una cosa transitoria?

Non vede il pargoletto da Fano in quale contraddizione egli si è ingarbugliato per voler persistere a negare che, provvisoriamente o no, quel che vogliono i comunisti, e quello che avviene in Russia, non è il passaggio del “pote­re” nelle mani dei lavoratori, ma la dittatura dei capi del lo­ro partito?

E giacché mi sono scomodato per dare a chi forse non la capirà una lezione di logica, voglio dargli anche una lezio­ne di educazione. Il dire che è “malafede” il concepire in modo diverso dal suo il passaggio dalla società borghese a quella libertaria, è cosa che si può perdonare a un bambino irresponsabile ma non è degna certamente di un uomo serio, sia pure molto giovane.

Se i comunisti dì Fano sono contenti di certi campioni da asilo infantile, si accomodino pure. Ma perché mai que­sti bollenti Achilli del bolscevismo hanno tanta cura di nascondere i loro nomi? Per degli aspiranti dittatori è dav­vero troppa modestia.

 


ANARCHISMO E DEMOCRAZIA

 

 

 

 

 

 

Democrazia e anarchia[13]

 

I governi dittatoriali che imperversano in Italia, in Spa­gna, in Russia e che provocano l’invidia e il desiderio delle frazioni più reazionarie o più pavide dei diversi paesi, stan facendo alla già esautorata “democrazia” una specie di nuova verginità. Perciò vediamo vecchi arnesi di governo, adusati a tutte le male arti della politica, responsabili di re­pressioni e di stragi contro il popolo lavoratore, farsi in­nanzi, quando non ne manca loro il coraggio, come uomi­ni di progresso e cercare di accaparrare il prossimo avveni­re in nome dell’idea liberale. E, data la situazione, potreb­bero anche riuscirvi.

I dittatoriali hanno buon giuoco quando criticano la de­mocrazia e mettono in rilievo tutti i suoi vizi e le sue men­zogne. E io ricordo quel tale Herrnann Sandomirski, l’anar­chico bolscevizzante con cui avemmo dei contatti agrodol­ci all’epoca della conferenza di Genova e che ora cerca di appaiare Lenin nientemeno che con Bakunin, ricordo, di­co, che il Sandomirski per difendere il regime russo tirava fuori tutto il suo Kropotkin a dimostrare che la democrazia non è la migliore tra le costituzioni sociali immaginabili. Poiché si trattava di un russo, il suo modo di ragionare mi rimetteva in mente, e credo che glielo dissi, un ragiona­mento simile che facevano certi suoi compatrioti quando per rispondere all’indignazione del mondo civile contro lo zar che faceva denudare, fustigare e impiccare delle donne, sostenevano l’eguaglianza dei diritti e quindi delle respon­sabilità negli uomini e nelle donne. Quei provveditori di carceri e di patiboli si ricordavano dei diritti della donna so­lo quando potevano servire di pretesto a nuove infamie! Co­sì i dittatoriali si mostrano avversari dei governi democra­tici solo quando hanno scoperto che v’è una forma di go­verno che lascia ancora più libero campo agli arbitri e alle prepotenze degli uomini che riescono a impossessarsi del potere.

Non v’è dubbio, secondo me, che la peggiore delle demo­crazie è sempre preferibile, non fosse che dal punto di vista educativo, alla migliore delle dittature. Certo la democrazia, il cosiddetto governo di popolo, è una menzogna, ma la menzogna lega sempre un po’ il mentitore e ne limita l’arbitrio; certo il “popolo sovrano” è un sovrano da commedia, uno schiavo con corona e scettro di cartapesta, ma il credersi libero anche senza esserlo val sempre meglio che i sapersi schiavo e accettare la schiavitù come cosa giusta inevitabile.

La democrazia è menzogna, è oppressione, è in realtà oligarchia, cioè governo di pochi a benefizio di una classe privilegiata; ma possiamo combatterla noi in nome della libertà e dell’uguaglianza, e non già coloro che vi han sostituito o vogliono sostituirvi qualche cosa di peggio.

Noi non siamo democratici, fra le altre ragioni perché es­sa presto o tardi conduce alla guerra e alla dittatura, come non siamo dittatoriali, fra l’altro, perché la dittatura fa desi­derare la democrazia, ne provoca il ritorno e così tende a perpetuare quest’oscillare delle società umane dalla franca e brutale tirannia a una pretesa libertà falsa e bugiarda. Dunque guerra alla dittatura e guerra alla democrazia.

 

 

 

Maggioranze e minoranze[14]

 

A. Ca. di Brescia Nuova (il quale riassume a modo suo il pensiero altrui e poi mette il suo riassunto tra virgolette co­me se si trattasse di una citazione letterale) perde completamente la bussola quando vuoi occuparsi delle idee degli anarchici relativamente alla questione del diritto delle mag­gioranze e delle minoranze.

Secondo lui gli anarchici non volendo la dittatura (egli ci fa dire dittatura proletaria, mentre noi stiamo continua mente protestando contro questa espressione che è tanto bugiarda, quanto quella di Governo Popolare usata dai de­mocratici) debbono o rimandare la rivoluzione a quando tutto il genere umano avrà concepito l’ideale anarchico, o debbono supporre che dopo ventiquattro ore di rivolta tut­ti diventino immediatamente anarchici.

Cerchiamo di fargli capire.

Naturalmente l’insurrezione che deve abbattere il pote­re governativo e rendere possibile l’espropriazione della borghesia e tutto il rivolgimento rivoluzionario si farà e vincerà... quando avrà forze sufficienti. In molti o in pochi, maggioranza o minoranza, favoriti o meno dalle circo­stanze, si vince, quando si vince. La lotta attiva è sempre tra minoranze: da una parte il governo che usa per la sua opera di repressione la parte più incosciente del proleta­riato e tutti i mezzi che il possesso del potere sociale met­te a sua disposizione; dall’altra i rivoluzionari, i quali, spo­sando gli interessi e le passioni delle masse, rinforzandosi man mano colla propaganda e coll’organizzazione , cerca­no di utilizzare tutte le circostanze favorevoli per abbatte re il governo.

Ma dopo? Per i non anarchici, per gli autoritari, socialisti o non so­cialisti, la Cosa è semplice: essi intendono mettersi al posto dei governanti caduti e servirsi, come fa qualsiasi governo, delle forze sociali, delle forze di tutti per imporre colla vio­lenza il proprio programma: il che significa in pratica gli interessi propri e quelli dei propri amici e della propria clientela.

Gli anarchici invece intendono conquistare la libertà per tutti, la libertà effettiva, s’intende, la quale suppone i mez­zi per esser liberi, i mezzi per poter vivere senza essere obbligati di mettersi alla dipendenza di uno sfruttatore, individuale o collettivo.

Noi non riconosciamo il diritto della maggioranza di far la legge alla minoranza, anche se la volontà della maggio­ranza fosse, in questioni un po’ complesse, realmente ac­certabile. Il fatto di avere la maggioranza non dimostra niente affatto che uno ha ragione, che anzi l’umanità è sta­ta sempre sospinta in avanti dall’iniziativa e dall’opera d’individui e di minoranze, mentre la maggioranza è di sua natura lenta, conservatrice, ubbidiente a chi è più forte, a chi si trova in posizioni vantaggiose precedentemente ac­quisite.

Ma se non ammettiamo affatto il diritto delle maggio­ranze a dominare le minoranze, respingiamo anche più il diritto delle minoranze a dominare le maggioranze. Sareb­be assurdo sostenere che si ha ragione perché si è mino­ranza. Se v’è in tutte le epoche delle minoranze avanzate e progressiste v’è anche delle minoranze arretrate e reazio­narie; se vi sono degli uomini geniali che precedono i tem­pi, vi sono anche dei pazzi, degli imbecilli e specialmente degli inerti che si lasciano trascinare incoscientemente dal­la corrente in cui si trovano.

Del resto non è questione di aver ragione o torto: è que­stione di libertà, libertà per tutti, libertà per ciascuno pur­ché non violi l’eguale libertà degli altri. Nessuno può giudicare in modo sicuro chi ha ragione o torto, chi e più vicino alla verità e quale via conduce meglio al maggior bene per ciascuno e per tutti. La libertà è il solo mezzo per arrivare, mediante l’esperienza, al vero ed al me­glio: e non vi è libertà se non vi è la libertà dell’errore.

Per noi dunque bisogna arrivare alla pacifica e proficua convivenza tra maggioranza e minoranza mediante il libe­ro accordo, la mutua condiscendenza, il riconoscimento intelligente delle necessità pratiche della vita collettiva e dell’utilità delle transazioni che le circostanze rendono ne­cessarie.

Noi non vogliamo imporre niente a nessuno, ma non intendiamo sopportare imposizioni di alcuno. Felicissimi di veder fare da altri quello che non potremo far noi, pronti a collaborare cogli altri in tutte quelle cose quando riconosciamo che da noi non potremmo far meglio, noi reclamiamo, noi vogliamo, per noi e per tutti la libertà di propaganda di organizzazione di sperimentazione.

La forza bruta, la violenza materiale dell’uomo contro l’uomo deve cessare di essere un fattore della vita sociale. Noi non vogliamo, e non sopporteremmo gendarmi, né rossi, né gialli, né neri. Siamo intesi?

 


ANARCHISMO E FASCISMO

 

 

 

 

 

Il fascismo e la legalità[15]

 

Alcuni compagni provenienti dalle regioni più travaglia­te dalla delinquenza fascista si sono meravigliati e maga­ri indignati perché noi abbiam detto, e diciamo, che prefe­riamo la violenza sfrenata alla repressione legale, il disor­dine all’ordine borghese, la licenza alla tirannia. In una parola, i fascisti ai carabinieri.

Naturalmente non intendiamo parlare di fascisti e di carabinieri presi come individui. I carabinieri e le guardie regie sono il più delle volte dei poveri disgraziati vittime delle circostanze, più degni di pietà che d’odio e di di­sprezzo, ed è probabile che personalmente siano migliori dei peggiori tra i fascisti. Noi parliamo dei carabinieri e de­gli altri corpi di polizia ufficiali in quanto sono i custodi ed esecutori della legge, in quanto rappresentano la forza esecutiva dello Stato, in quanto fanno i carabinieri sul se­rio – ché nel fatto attuale è frequente il caso in cui i carabi­nieri fanno da fascisti come i fascisti fanno da carabinieri. E ci pare naturale per degli anarchici l’avversare principal­mente tutto ciò che serve a dare autorità, prestigio, forza al­lo Stato, e trovare del buono in ciò che discredita e indebo­lisce lo Stato, anche se è fatto coll’intenzione di difenderlo.

Ora, noi comprendiamo lo stato d’animo di quei compa­gni che considerano come il bisogno più urgente del mo­mento la distruzione del fascismo e il ritorno alla “norma­lità”, e non vorremmo, noi che viviamo in condizioni di re­lativa sicurezza, farci giudici di chi è tutti i giorni minac­ciato e offeso nella dignità, nella persona, nella casa, nella famiglia. Se uno è aggredito di notte e si trova in pericolo di vita senza possibilità di difendersi, è naturalmente tutto con­tento all’apparire di due lucerne di carabiniere che mettono in fuga i malfattori. Ciò è umano e accadrebbe a noi come a tutti gli uomini normali: è l’istinto di conservazione che reagisce contro il pericolo immediato e non lascia luogo e tempo a considerazioni d’ordine generale e avveniristiche. Ma dal fatto singolo dei carabinieri che ci salvano da una aggressione ci parrebbe davvero esagerato il voler dedurre che nell’opera complessa e generale i carabinieri sono me­no dannosi alla società di quello che siano i delinquenti.

Nessuno vorrà sospettarci di indulgenza per il fascismo, milizia irregolare della borghesia e dello Stato, che in un dato momento ha fatto, fa o farà quello che il governo non potrebbe fare senza rinnegare la legge e svelare troppo apertamente e con troppo pericolo la sua vera natura. Nes­suno vorrà mettere in dubbio il nostro vivo desiderio di ve­der debellato il fascismo e la nostra ferma volontà di con­correre, come possiamo, a debellarlo. Ma noi non vorremmo abbattere il fascismo per sosti­tuirgli qualche cosa di peggio, e peggio del fascismo sareb­be il consolidamento dello Stato.

I fascisti bastonano, incendiano, uccidono, violano ogni libertà, calpestano nel modo più oltraggioso la dignità dei lavoratori. Ma, francamente, tutto il male che il fascismo ha fatto in questi ultimi due anni e che farà in quel tempo che i lavoratori gli lasceranno di vita, è forse paragonabile al male che lo Stato ha fatto, tranquillamente, normalmente, per anni innumerevoli e che fa e farà fino a che avrà esi­stenza?

Anche lasciando da parte il fatto essenziale che lo Stato è il difensore del privilegio e quindi la causa per cui il pro­letariato permane nelle condizioni di miseria e di abiezio­ne in cui si trova, e parlando solo della violenza più appari­scente, delle violazioni di libertà, delle offese alla dignità, delle sofferenze fisiche e morali inflitte, degli omicidi com­messi dallo Stato e dal fascismo, suo figlio illegittimo, qua­le dei due è il più colpevole? Abbiamo bisogno di ricordare le galere piene d’innocen­ti, le bastonature e torture d’ogni genere inflitte, nelle que­sture e nelle caserme dei carabinieri, le uccisioni, direi qua­si regolari, che commette la forza pubblica nei comizi e dimostrazioni popolari? Si contino un po’ le vittime e si ve­drà da che parte pende la bilancia. E questo senza parlare delle guerre, che gli Stati provocano periodicamente, e dei grandi massacri che seguono ogni tentativo fallito di ri­scossa popolare.

Bisogna dunque uccidere il fascismo, ma ucciderlo direttamente, per forza di popolo, senza invocare l’aiuto dello Stato, in modo che lo Stato ne riesca non già raffor­zato, ma maggiormente discreditato e indebolito. Del resto, mi pare ridicolo domandare allo Stato la sop­pressione del fascismo, quando è notorio che il fascismo è stato una creazione della borghesia e del governo, che non avrebbe potuto nascere e vivere un giorno senza la prote­zione e l’aiuto dei carabinieri e che non sarebbe soppresso, volontariamente, dal governo se non quando questo si sen­tisse abbastanza forte per farne a meno… salvo a risuscitarlo di nuovo quando ne risorgesse il bisogno.

Voler sopprimere il fascismo per mezzo del governo sa­rebbe come combattere un sintomo di una malattia aggra­vando le cause che producono la malattia stessa.

 

 

 

La situazione[16]

 

Mussolini continua a troneggiare e il parlamento striscia più che mai ai suoi piedi. I pieni poteri sono stati accordati colla premura di servi che gareggiano in bassezza. Mussolini aveva detto: “datemeli o me li piglio”, e nessuno ha avuto la dignità di rispon­dere: pigliateveli ma non ci costringete a far la parte in commedia di padroni, quando noi siam servi e ci compiacciamo di esserlo.

Gli stessi socialisti non han capito che non possono re­stare dignitosamente in un’assemblea che funziona sotto il terrore del manganello o della dissoluzione, e dove l’opposizione non può essere che una farsa.

La dittatura trionfa: dittatura di avventurieri senza scru­poli e senza ideali, che è arrivata al potere e vi resta per la disorientazione delle masse proletarie e per la trepida ava­rizia della classe borghese in cerca di un salvatore Ma tutti sentono che la situazione è tale da non poter du­rare, e i conservatori più illuminati, pur facendo i dovuti omaggi ai padroni dell’ora e tradendo a ogni parola la pau­ra che li domina, domandano la restaurazione dello “Stato liberale”, cioè il ritorno alle menzogne costituzionali.

I detti conservatori comprendono certamente tutto l’u­morismo che v’è nel domandare un regime di libertà, sia pure limitata, a gente che ha costume d’imporre la propria volontà col manganello, l’olio di ricino e peggio a persone fatte prima prudentemente disarmare; ma essi non si cura­no della libertà. Quello che vogliono è un regime, quale i re­gimi cosiddetti Costituzionali che riesca a far credere al po­polo che esso è libero, e assicuri così ai proprietari e ai go­vernanti il tranquillo godimento dei loro privilegi.

Il metodo col quale Mussolini è arrivato al potere non permette l’inganno; ed è questo che tormenta le anime can­dide dei conservatori.

Mussolini, se riesce a Consolidare il suo potere, farà né più né meno quello che farebbe un qualsiasi altro ministro:servirà gli interessi della classe privilegiata… e si farà paga­re i suoi servizi. Ma non farà credere a nessuno ch’egli è ar­rivato al governo per volontà di popolo. La sua tirannide è troppo recente per poterne nascondere l’origine: forse per questo la sua torbida coscienza gli consiglia di fare appello a Dio!

Dei progetti e propositi, attuali o no, sinceri o meno, del nuovo governo non vogliamo occuparci. È sempre il solito rimasticamento di vecchie imposture: il vecchio tentativo di riparare una casa che crolla con una mano di pittura.

Per noi il solo cambiamento importante è questo: eravamo nemici del governo perché il governo non è che il difensore armato di tutte le ingiustizie sociali, il creatore d’ingiustizie nuove, il nemico della libertà, l’ostacolo mate­riale sul cammino della civiltà. Ed eravamo nemici del fa­scismo perché è un movimento inteso a difendere i privile­gi borghesi, ad impedire l’ascesa proletaria, a soffocare ogni aspirazione verso una società più giusta e più libera, e si serviva per raggiungere i suoi scopi di mezzi brutali, feroci e vili. Adesso governo e fascismo sono diventati la stessa cosa e sono formati dallo stesso personale: non vi è dunque più possibilità di esitazione come quando quelle due forze di oppressione sembravano in contrasto tra di loro.

Situazione semplificata: tanto meglio. Tanto meglio se questo può servire a riunire tutte le forze di progresso nel­la lotta contro la barbarie trionfante.

 

 

 

Mussolini al potere[17]

 

A coronamento di una lunga serie di delitti, il fascismo si è infine insediato al governo. E Mussolini, il duce, tanto per distinguersi, ha comin­ciato col trattare i deputati al parlamento come un padro­ne insolente tratterebbe dei servi stupidi e pigri.

Il parlamento, quello che doveva essere “il palladio del­la libertà”, ha dato la sua misura. Questo ci lascia perfettamente indifferenti. Tra un gra­dasso che vitupera e minaccia, perché si sente al sicuro, e un’accolita di vili che pare si delizi nella sua abiezione, noi non abbiamo da scegliere. Constatiamo soltanto – e non senza vergogna – quale specie di gente è quella che ci do­mina e al cui giogo non riusciamo a sottrarci.

Ma quale è il significato, quale la portata, quale il risul­tato probabile di questo nuovo modo di arrivare al potere in nome e in servizio del re, violando la costituzione che il re aveva giurato di rispettare e di difendere?

A parte le pose che vorrebbero parere napoleoniche e non sono invece che pose da operetta, quando non sono at­ti da capobrigante, noi crediamo che in fondo non vi sarà nulla di cambiato, salvo per un certo tempo una maggiore pressione poliziesca contro i sovversivi e contro i lavorato­ri. Una nuova edizione di Crispi e di Pelloux. E sempre la vecchia storia del brigante che diventa gendarme!

La borghesia, minacciata dalla marea proletaria che montava, incapace a risolvere i problemi fatti urgenti dalla guerra, impotente a difendersi coi metodi tradizionali del­la repressione legale, si vedeva perduta e avrebbe salutato con gioia un qualche militare che si fosse dichiarato ditta­tore e avesse affogato nel sangue ogni tentativo di riscossa. Ma in quei momenti, nell’immediato dopoguerra, la cosa era troppo pericolosa, e poteva precipitare la rivoluzione anziché abbatterla. In ogni modo, il generale salvatore non venne fuori, o non ne venne fuori che la parodia. Invece vennero fuori degli avventurieri che, non avendo trovato nei partiti sovversivi campo sufficiente alle loro ambizioni e ai loro appetiti, pensarono di speculare sulla paura della borghesia offrendole, dietro adeguato compenso il soccor­so di forze irregolari che, se sicure dell’impunità potevano abbandonarsi a tutti gli eccessi contro i lavoratori senza compromettere direttamente la responsabilità dei presunti beneficiari delle violenze commesse. E la borghesia ac­cettò, sollecitò, pagò il loro concorso: il governo ufficiale, o almeno una parte degli agenti del governo, pensò a fornir loro le armi, ad aiutarli quando in un attacco stavano per avere la peggio, ad assicurar loro l’impunità e a disarmare preventivamente coloro che dovevano essere attaccati.

I lavoratori non seppero opporre la violenza alla violen­za perché erano stati educati a credere nella legalità, e per­ché, anche quando ogni illusione era diventata impossibile e gli incendi e gli assassini si moltiplicavano sotto lo sguar­do benevolo delle autorità, gli uomini in cui avevano fidu­cia predicarono loro la pazienza, la calma, la bellezza e la saggezza di farsi battere “eroicamente” senza resistere – e perciò furono vinti e offesi negli averi, nelle persone, nella dignità, negli affetti più sacri.

Forse, quando tutte le istituzioni operaie erano state di­strutte, le organizzazioni sbandate, gli uomini più invisi e considerati più pericolosi uccisi o imprigionati o comunque ridotti all’impotenza, la borghesia e il governo avreb­bero voluto mettere un freno ai nuovi pretoriani che oramai aspiravano a diventare i padroni di quelli che avevano ser­viti. Ma era troppo tardi. I fascisti oramai sono i più forti e intendono farsi pagare a usura i servizi resi. E la borghesia pagherà, cercando naturalmente di ripagarsi sulle spalle del proletariato.

In conclusione, aumentata miseria, aumentata oppres­sione. In quanto a noi, non abbiamo che da continuare la no­stra battaglia, sempre pieni di fede, pieni di entusiasmo. Noi sappiamo che la nostra via è seminata di triboli, ma la scegliemmo coscientemente e volontariamente, e non abbiamo ragione per abbandonarla. Così sappiano tutti co­loro i quali han senso di dignità e pietà umana e vogliono consacrarsi alla lotta per il bene di tutti, che essi debbono essere preparati a tutti i disinganni, a tutti i dolori, a tutti i sacrifici.

Poiché non mancano mai di quelli che si lasciano abba­gliare dalle apparenze della forza e hanno sempre una spe­cie di ammirazione segreta per chi vince, vi sono anche dei sovversivi i quali dicono che “i fascisti ci hanno insegnato come si fa la rivoluzione”.

No, i fascisti non ci hanno insegnato proprio nulla. Essi hanno fatto la rivoluzione, se rivoluzione si vuol chiamare, col permesso dei superiori e in servizio dei su­periori. Tradire i propri amici, rinnegare ogni giorno le idee pro­fessate ieri, se così conviene al proprio vantaggio, mettersi al servizio dei padroni, assicurarsi l’acquiescenza delle au­torità politiche e giudiziarie, far disarmare dai carabinieri i propri avversari per poi attaccarli in dieci contro uno, pre­pararsi militarmente senza bisogno di nascondersi, anzi ricevendo dal governo armi, mezzi di trasporto e oggetti di casermaggio, e poi esser chiamato dal re e mettersi sotto la protezione di dio… è tutta roba che noi non potremmo e non vorremmo fare. Ed è tutta roba che noi avevamo preve­duto che avverrebbe il giorno in cui la borghesia si sentisse seriamente minacciata.

Piuttosto l’avvento del fascismo deve servire di lezione ai socialisti legalitari, i quali credevano, e ahimè! credono an­cora, che si possa abbattere la borghesia mediante i voti della metà più uno degli elettori, e non vollero crederci quando dicemmo loro che se mai raggiungessero la maggioranza in parlamento e volessero – tanto per fare del­le ipotesi assurde – attuare il socialismo dal parlamento, ne sarebbero cacciati a calci nel sedere!

 

 

 

Perché il fascismo vinse e perché continua a spadroneggiare in Italia[18]

 

La forza materiale può prevalere sulla forza morale, può anche distruggere la più raffinata civiltà se questa non sa difendersi con mezzi adatti contro i ritorni offensivi della barbarie. Ogni bestia feroce può sbranare un galantuomo fosse anche un genio, un Galileo o un Leonardo, se questi è tan­to ingenuo da credere che può frenare la bestia mostrandole un’opera d’arte o annunziandole una scoperta scien­tifica.

            Però la brutalità difficilmente trionfa, e in tutti i casi, i suoi successi non sono stati mai generali e duraturi, se non riesce ad ottenere un certo consenso morale, se gli uomini ci­vili la riconoscono per quella che è, e, se anche impotenti a debellarla, ne rifuggono come da cosa immonda e ripu­gnante.

Il fascismo che compendia in sé tutta la reazione e ri­chiama in vita tutta l’addormentata ferocia atavica ha vin­to perché ha avuto l’appoggio finanziario della borghesia grassa e l’aiuto materiale dei vari governi che se ne vollero servire contro la incalzante minaccia proletaria; ha vinto perché ha trovato contro di se una massa stanca, disillusa e fatta imbelle da una cinquantenaria propaganda parlamentaristica; ma soprattutto ha vinto perché le sue violenze e i suoi delitti hanno bensì provocato l’odio e lo spirito di vendetta degli offesi ma non hanno suscitato quella ge­nerale riprovazione, quella indignazione quell’orrore mo­rale che ci sembrava dovesse nascere spontaneamente in ogni animo gentile. Purtroppo non vi potrà essere riscossa materiale se prima non v’è rivolta morale.

Diciamolo francamente per quanto sia doloroso il constatarlo. Fascisti ve ne sono anche fuori del partito fa­scista, ve ne sono in tutte le classi e in tutti i partiti: vi sono cioè dappertutto delle persone che pur non essendo fascisti, pur essendo antifascisti, hanno però l’anima fascista, lo stesso desiderio di sopraffazione che distingue i fascisti.

Ci accade, per esempio, d’incontrare degli uomini che si dicono e si credono rivoluzionari e magari anarchici i qua­li per risolvere una qualsiasi questione affermano con fiero cipiglio che agiranno fascisticamente, senza sapere, o sa­pendo troppo, che ciò significa attaccare, senza preoccupa­zione di giustizia, quando si è sicuri di non correr pericolo, o perché si è di molto il più forte, o perché si è armato con­tro un inerme, o perché si è in più contro uno solo, o per­ché si ha la protezione della forza pubblica, o perché si sa che il violentato ripugna alla denunzia – significa insomma agire da camorrista e da poliziotto. Purtroppo è vero: si può agire, spesso si agisce fascisticamente senza aver bisogno d’iscriversi tra i fascisti e non sono certamente coloro che così agiscono, o si propongono di agire fascisticamente quelli che potranno provocare la rivolta morale, il senso di schifo che ucciderà il fascismo. E non vediamo gli uomini della Confederazione, i D’Ara­gona, i Baldesi, i Colombino, ecc., leccare i piedi dei gover­nanti fascisti, e poi continuare a essere considerati, anche dagli avversari politici, quali galantuomini e quali genti­luomini?

Queste considerazioni, che del resto abbiamo fatte tante volte, ci sono rivenute alla mente leggendo un articolo di L’Etruria Nuova di Grosseto, che ci siamo meravigliati di vedere compiacentemente riprodotto da La Voce Repubbli­cana del 22 agosto. E un articolo del “suo valoroso diretto­re”, il bravo Giuseppe Benci, il decano dei repubblicani del­la Forte Maremma (tanto per servirci delle parole della Vo­ce) il quale a noi è sembrato un documento di bassezza mo­rale, che spiega perché i fascisti han potuto fare in Ma­remma quello che hanno fatto.

Sono note le gesta brigantesche dei fascisti nella sventu­rata Maremma. Là, più che altrove, essi hanno sfogato le lo­ro passioni malvagie. Dall’assassinio brutale, alle bastona­ture a sangue, dagli incendi e dalle devastazioni fino alle ti­rannie minute, alle piccole vessazioni che umiliano, agli in­sulti che offendono il senso di dignità umana, tutto essi hanno commesso senza conoscere limite, senza rispettare nessuno di quei sentimenti che, nonché essere condizione di ogni vivere civile, sono la base stessa dell’umanità in quanto è distinta dalla più infima bestialità. E quel fiero repubblicano di Maremma parla loro in to­no dimesso e li tratta da “gente di fede” e mendica per i re­pubblicani la loro sopportazione, e quasi la loro amicizia adducendo i meriti patriottici dei repubblicani stessi. Egli “ammette che il governo (il governo fascista) ha il di­ritto di garantirsi il libero svolgimento della sua azione”e lascia intendere che quando i repubblicani andranno al potere faranno su per giù la stessa cosa. E protesta che nessuno, potrà ammettere che da noi (a Grosseto) il partito repubblicano abbia con qualsiasi atto tentato di ostacolare l’esperienza della parte dominante” e si vanta di non avere per nulla intralciata l’azione del governo ritraendosi perfino dalle lotte elettorali per attendere che l’esperimento si compia. Cioè attendere che si compia l’esperimento di dominazione su tutta Italia da parte di quella gente che ha straziato la sua Maremma.

Se lo stato d’animo di quel signor Benci corrispondesse allo stato d’animo dei repubblicani e la sorte del governo fa­scista dovesse dipendere da loro, avrebbe ragione Mussolini quando dice che resterà al potere trent’anni. Vi potreb­be restare anche trecento.

 


RIFORME E RIVOLUZIONE

 

 

 

 

 

Anarchismo e riforme[19]

 

La rivista comunista Prometeo che si pubblica a Napoli, in una breve recensione, firmata a. b., del nostro primo nu­mero e in ispecie dell’articolo di Merlino ivi apparso dice, con l’incomprensione costituzionale di tutti coloro che credono di comprendere tutto e di non sbagliarsi mai, che “esiste indubbiamente la categoria d’anarchici riformisti sebbene la denominazione appaia strana”.

Prometeo crede di fare una scoperta. A parte l’odiosità della parola che è stata abusata e discreditata dai politicanti, l’anarchismo è stato sempre e non potrà mai essere altro che riformista. Noi preferiamo dire riformatore per evitare ogni possibile confusione con coloro che sono ufficialmente classificati come “riformisti” e vogliono con piccoli e spesso illusori miglioramenti ren­dere più sopportabile e quindi consolidare il regime attua­le, oppure s’illudono in buona fede di potere eliminare i la­mentati mali sociali riconoscendo e rispettando, in pratica se non in teoria, le fondamentali istituzioni politiche ed economiche che di quei mali sono la causa e il sostegno, Ma insomma è sempre di riforme che si tratta, e la differenza essenziale sta nel genere di riforma che si vuole e nel modo come si crede di poter raggiungere la nuova forma cui si aspira.

Rivoluzione significa, nel senso storico della parola, ri­forma radicale delle istituzioni, conquistata rapidamente per mezzo dell’insurrezione violenta del popolo contro il potere e i privilegi costituiti; e noi siamo rivoluzionari e insurrezionisti perché vogliamo non già migliorare le isti­tuzioni attuali ma distruggerle completamente, abolendo ogni dominio dell’uomo sull’uomo e ogni parassitismo sul lavoro umano; perché vogliamo far questo il più presto pos­sibile e perché siamo convinti che le istituzioni nate dalla violenza si sostengono colla violenza e non cederanno che a una violenza sufficiente. Ma la rivoluzione non si può fare quando si vuole. Do­vremo noi restare inerti aspettando che i tempi maturino da loro? E anche dopo una insurrezione vittoriosa, potremo noi di punto in bianco realizzare tutti i nostri desideri e passa­re come per miracolo dall’inferno governativo e capitalisti­co al paradiso del comunismo libertario, che è la completa libertà dell’individuo nella voluta solidarietà d’interessi con gli altri uomini?

Queste sono illusioni che possono allignare in mezzo agli autoritari i quali considerano la massa come materia bruta alla quale chi possiede il potere può dare, a forza di decreti e con l’aiuto dei fucili e delle manette, l’impronta che vuole. Ma non hanno presa in mezzo agli anarchici. Noi abbia­mo bisogno del consenso della gente, e quindi dobbiamo persuadere colla propaganda e coll’esempio, dobbiamo educare e cercare di modificare l’ambiente in modo che l’educazione possa raggiungere un numero sempre più grande di persone.

Tutto è graduale nella storia come nella natura. Come la diga cede d’un tratto (cioè rapidissimamente ma sempre condizionata dal tempo) o perché l’acqua si è andata accu­mulando fino a superare con la sua pressione la resistenza oppostagli, oppure per il disgregarsi progressivo delle molecole che ne compongono il materiale, così le rivolu­zioni scoppiano per il crescere delle forze che aspirano al­la trasformazione sociale fino al punto sufficiente per ab­battere il governo esistente e per l’indebolimento crescente, per ragioni interne, delle forze di conservazione.

Siamo riformatori oggi in quanto cerchiamo di creare le condizioni più favorevoli e il personale più cosciente e più numeroso che si può per menare a bene una insurrezione di popolo; saremo riformatori domani, a insurrezione trionfante e a libertà conquistata, in quanto cercheremo, con tutti i mezzi che la libertà consente, cioè con la propa­ganda, con l’esempio, con la resistenza anche violenta con­tro chiunque volesse coartare la nostra libertà, cercheremo, dico, di conquistare alle nostre idee un numero sempre più grande di adesioni. Ma non riconosceremo mai – e in questo il nostro e riformismo” si distingue da certo “rivoluzionarismo” che va ad affogarsi nelle urne elettorali di Mussolini o di altri – non riconosceremo mai le istituzioni, prenderemo o conqui­steremo le riforme possibili con lo spirito con cui si va strappando al nemico il terreno occupato per procedere sempre più avanti, e resteremo sempre nemici di qualsiasi governo, sia quello monarchico di oggi, sia quello repub­blicano o bolscevico di domani.

 

 

 

Il gradualismo anarchico[20]

 

Noi vogliamo fare la rivoluzione al più presto possibile, profittando di tutte le occasioni che si possono presentare. Meno un piccolo numero di “educazionisti” i quali cre­dono nella possibilità di elevare le masse alle idealità anar­chiche prima che siano cambiate le condizioni materiali e morali in cui esse vivono e quindi rimettono la rivoluzione a quando tutti saranno capaci di vivere anarchicamente, gli anarchici sono tutti d’accordo in questo desiderio di rove­sciare al più presto possibile i regimi vigenti: anzi spesso so­no essi soli quelli che mostrano una reale volontà di farlo.

Del resto, rivoluzioni ne sono avvenute, ne avvengono e ne avverranno indipendentemente dalla volontà e dall’azio­ne degli anarchici; e poiché gli anarchici non sono che una piccolissima minoranza della popolazione e l’anarchia non è cosa che si possa fare per forza, per imposizione violenta di alcuni, è chiaro che le rivoluzioni passate e quelle pros­sime future non Sono state e non potranno essere rivolu­zioni anarchiche

In Italia due anni or sono la rivoluzione stava per scoppiare e noi facemmo tutto quello che potemmo per far­la scoppiare, e trattammo da traditori del proletariato i so­cialisti e i confederali che, in occasione dei moti contro il caro-vita, degli scioperi del Piemonte, della sommossa di Ancona, dell’occupazione delle fabbriche, arrestarono lo slancio delle masse e salvarono il traballante regime mo­narchico.

Che cosa avremmo fatto se la rivoluzione fosse scoppia­ta davvero? Che cosa faremo nella rivoluzione che scoppierà do­mani? Che cosa han fatto, che cosa avrebbero potuto e dovuto fare i nostri compagni nelle recenti rivoluzioni avvenute in Russia, in Baviera, in Ungheria e altrove?

Noi non possiamo far l’anarchia, o almeno l’anarchia estesa a tutta una popolazione e a tutti i rapporti sociali per­ché finora nessuna popolazione è anarchica, e non possia­mo accettare un altro regime senza rinunziare alle nostre aspirazioni e perdere ogni ragion di essere in quanto anar­chici. E allora che cosa possiamo e dobbiamo fare?

Questo era il problema messo in discussione a Bienne, e questo è il problema che maggiormente interessa nel momento attuale, così gravido di possibilità, quando ci po­tremmo trovare improvvisamente di fronte a situazioni ta­li che c’impongano di agire subito e senza esitazione o di sparire dal campo della lotta dopo di aver facilitata la vit­toria agli altri.

Non si trattava di dipingere una rivoluzione quale noi la vorremmo, una vera rivoluzione anarchica quale sarebbe possibile se tutti, o almeno la grande maggioranza degli uo­mini abitanti un dato territorio fossero anarchici. Si tratta­va invece di cercare quello che di meglio si potrebbe fare in favore della causa anarchica in un rivolgimento sociale quale può avvenire nella realtà presente.

I partiti autoritari hanno un programma determinato e vogliono imporlo colla forza; perciò aspirano a imposses­sarsi del potere, non importa se con mezzi legali o illegali, e quindi trasformare la società a modo loro, mediante una nuova legislazione. E da questo dipende il fatto che essi, ri­voluzionari a parole e spesso anche nelle intenzioni, esitano poi a fare la rivoluzione quando le occasioni si presen­tano; essi non sono sicuri della acquiescenza, sia pure pas­siva, della maggioranza, non hanno forza militare suffi­ciente per far eseguire i loro ordini su tutto il territorio, mancano di uomini devoti competenti in tutte le infinite branche dell’attività sociale... e sono quindi indotti a rin­viare sempre l’azione a più tardi, fino a quando la som­mossa popolare non li spinga quasi riluttanti al governo, dove poi vorrebbero restare indefinitivamente, e perciò cercano di frenare, sviare, arrestare la rivoluzione che li ha innalzati.

Noi al contrario abbiamo bensì un ideale per il quale combattiamo, che vorremmo veder realizzato, ma non cre­diamo che un ideale di libertà, di giustizia, di amore possa realizzarsi per mezzo della violenza governativa.

Noi non vogliamo andare al potere e non vogliamo che nessuno vi vada. Se non possiamo impedire, per mancanza di forza, che governi esistano e si costituiscano, noi ci sfor­ziamo e ci sforzeremo perché questi governi restino o di­ventino più deboli che sia possibile, e perciò siamo sempre pronti ad agire quando si tratta di abbattere o di indebolire un governo, senza troppo (dico troppo e non punto) preoccuparci di quello che verrà dopo. Per noi la violenza non serve e non può servire che a re­spingere la violenza e quando invece è adoperata per rag­giungere dei fini positivi, o fallisce completamente, o rie­sce a stabilire l’oppressione e lo sfruttamento degli uni su­gli altri.

La costituzione di una società di liberi, e il suo progressi vo miglioramento non può essere che il risultato della libe­ra evoluzione; e il nostro compito di anarchici è appunto quello di difendere, di assicurare la libertà dell’evoluzione.

Abbattere, o concorrere ad abbattere il potere politico, qualunque esso sia, con tutta la sequela di forze repressive che lo sostengono; impedire, o cercare d’impedire che si costituiscano nuovi governi e nuove forze repressive, e in tutti i casi non riconoscere mai alcun governo e restare sempre in lotta contro di esso e reclamare, e pretendere po­tendo anche colla forza, il diritto di organizzarci e vivere co­me ci pare e sperimentare le forme sociali che ci sembrano migliori, sempre, s’intende, che non ledano l’eguale libertà degli altri: ecco la nostra missione.

Fuori di questa lotta contro l’imposizione governative che genera e rende possibile lo sfruttamento capitalistico; quando avessimo spinto e aiutato la massa del popolo a impossessarsi della ricchezza esistente e specialmente dei mezzi di produzione, quando fossimo arrivati al punto che nessuno possa imporre agli altri con la violenza la propria volontà e nessuno possa colla forza sottrarre agli altri il pro­dotto del loro lavoro, noi non potremmo più che agire me­diante la propaganda e l’esempio.

Distruggere le istituzioni, i meccanismi, le organizzazioni sociali esistenti? Certamente, se si tratta d’istituzioni repressive, ma esse in fondo non sono che piccola cosa nella complessità della vita sociale. Polizia, esercito, carce­re, magistratura cose potenti per il male, non esercitano che una funzione parassitaria. Sono altre le istituzioni e organizzazioni che, bene o male, riescono ad assicurare la vita all’umanità; e queste istituzioni non si possono util­mente distruggere se non sostituendole con qualche cosa di meglio.

Lo scambio delle materie prime e dei prodotti, la distribuzione delle sostanze alimentari le ferrovie, le poste e tutti i servizi pubblici esercitati dallo Stato o dai privati, sono stati organizzati in modo da servire interessi mono­polistici e capitalistici, ma rispondono a interessi reali del­la popolazione. Non possiamo disorganizzarli (e del resto non ce lo permetterebbe la popolazione interessata) se non riorganizzandoli in modo migliore. E questo non si può fa­re in un giorno; né, allo stato delle cose, noi abbiamo le ca­pacità necessarie a farlo. Felicissimi dunque se, aspettando che possano farlo gli anarchici, lo facciano altri, magari con criteri diversi dai nostri.

La vita sociale non ammette interruzioni, e la gente vuol vivere il giorno della rivoluzione, il giorno dopo, e sempre. Guai a noi, guai all’avvenire delle nostre idee, se noi dovessimo assumere la responsabilità di una distruzione insensata che compromettesse la continuità della vita!

Discutendo di queste materie fu sollevata a Bienne la questione del danaro, questione grave quanto altre mai. D’abitudine nel campo nostro si risolve semplicistica­mente la questione dicendo che il danaro si deve abolire. E sta bene, se si tratta di una società anarchica, o di una ipo­tetica rivoluzione da fare di qui a cento anni, sempre nel­l’ipotesi che le masse possano diventare anarchiche e co­muniste prima che una rivoluzione abbia cambiate radi­calmente le condizioni in cui vivono. Ma oggi la questione è ben altrimenti complicata.

Il danaro è mezzo potente di sfruttamento e di oppres­sione; ma è anche il solo mezzo (fuori della più tirannica dittatura, o del più idillico accordo) escogitato finora dal. l’intelligenza umana per regolare automaticamente la pro­duzione e la distribuzione. Per ora, forse più che preoccuparsi dell’abolizione del denaro, bisognerebbe cercare un modo perché il denaro rappresenti davvero lo sforzo utile fatto da chi lo possiede. Ma veniamo alla pratica immediata, che è la questione che veramente si discuteva a Bienne.

Figuriamoci che domani avvenga una insurrezione vit­toriosa. Anarchia o non anarchia, bisogna che la popola­zione continui a mangiare e a soddisfare tutti i bisogni pri­mordiali. Bisogna che le grandi città siano approvvigiona­te più o meno come d’abitudine.

Se i contadini e i carrettieri, ecc., si rifiutano di fornire i generi che sono nelle loro mani e i loro servizi gratuita­mente, senza riceverne il danaro che essi sono abituati a considerare ricchezza reale, che cosa si fa? Obbligarli colla forza? Allora non solo addio anarchia, ma addio ogni qualsiasi rivolgimento per il meglio. La Rus­sia insegni. Dunque?

Ma, rispondono generalmente i compagni, i contadini comprenderanno i vantaggi del comunismo o almeno della permuta diretta tra merce e merce. Sta benissimo; ma non certo in un giorno, e la gente non può restare senza mangiare nemmeno un giorno.

Io non ho inteso proporre delle soluzioni. Intendo piuttosto richiamare l’attenzione dei compagni sopra problemi gravissimi di fronte ai quali ci troveremo nella realtà di domani.

 

 

 


Il terrore rivoluzionario. In vista di un avvenire che potrebbe anche essere prossimo[21]

 

Il mio articoletto del numero scorso “Contro le intempe­ranze di linguaggio” ha provocato qualche critica che, sor­passando l’episodio origine della polemica, solleva un pro­blema generale di tattica rivoluzionaria, che occorre sem­pre discutere e ridiscutere, perché dalla sua soluzione può dipendere la sorte della rivoluzione che verrà.

Io non parlerò del modo come può essere combattuta e abbattuta la tirannia che oggi opprime il popolo italiano. Qui noi ci proponiamo di fare semplicemente opera di chiarificazione delle idee e di preparazione morale in vista di un avvenire, prossimo o lontano, perché non c’è possi­bile far altro. E del resto, quando credessimo giunto il mo­mento di una più fattiva azione… ne parleremmo anche meno.

Mi occuperò dunque solo, e ipoteticamente dell’indo­mani di una insurrezione trionfante e dei metodi di violen­za che alcuni vorrebbero adoperare per “fare giustizia”, e altri credono necessari per difendere la Rivoluzione contro le insidie dei nemici

Mettiamo da parte “la giustizia”, concetto troppo rela­tivo che è servito sempre di pretesto a tutte le oppressioni, a tutte le ingiustizie e che spesso non significa altro che ven­detta. L’odio e il desiderio di vendetta sono sentimenti irre­frenabili che l’oppressione naturalmente risveglia e ali­menta; ma se essi possono rappresentare una forza utile a scuotere il giogo, sono poi una forza negativa quando si tratta di sostituire all’oppressione non un’oppressione novella, ma la libertà e la fratellanza fra gli uomini. E perciò noi dobbiamo sforzarci di suscitare quei sentimenti supe­riori che attingono l’energia nel fervido amore del bene, pur guardandoci dallo spezzare l’impeto, fatto di fattori buoni e cattivi, necessario a vincere. Lasciamo che la massa agi­sca come la passione la spinge, se per meglio indirizzarli occorresse metterle un freno che si tradurrebbe in una nuo­va tirannia – ma ricordiamoci sempre che noi anarchici non possiamo essere né dei vendicatori, né dei “giustizie­ri”. Noi vogliamo essere dei liberatori e dobbiamo agire co­me tali per mezzo della predicazione e dell’esempio.

Occupiamoci della questione più importante, che è poi la sola cosa seria messa innanzi, in quest’argomento, dai miei critici: la difesa della rivoluzione.

Vi sono ancora molti che sono affascinati dall’idea del “terrore”. A essi sembra che ghigliottina, fucilazioni, mas­sacri, deportazioni, galera (“forca e galera” mi diceva re­centemente un comunista dei più noti) siano armi potenti e indispensabili della rivoluzione, e trovano che se tante ri­voluzioni sono state sconfitte o non han dato il risultato che se ne aspettava è stato a causa della bontà, della “debo­lezza” dei rivoluzionari, che non hanno perseguitato, re­presso, ammazzato abbastanza.

È un pregiudizio corrente in certi ambienti rivoluziona­ri, che ha origine dalla retorica e dalle falsificazioni storiche degli apologisti della Grande Rivoluzione francese e che è stato rinvigorito in questi ultimi anni dalla propaganda dei bolscevichi. Ma la verità è proprio l’opposto; il terrore è sempre stato strumento di tirannia. In Francia servì alla bie­ca tirannia di Robespierre e spianò la via a Napoleone e al­la susseguente reazione. In Russia ha perseguitato e ucciso anarchici e socialisti, ha massacrato operai e contadini ri­belli, e ha stroncato insomma lo slancio di una rivoluzione che poteva davvero aprire alla civiltà un’era novella.

Coloro che credono nella efficacia rivoluzionaria, liberatrice della repressione e della ferocia, hanno la stes­sa mentalità arretrata dei giuristi, i quali credono che si possa evitare il delitto e moralizzare il mondo per mezzo di pene severe.

Il terrore, come la guerra, risveglia i sentimenti atavici belluini ancora mal coperti da una vernice di civiltà, e por­ta ai primi posti gli elementi peggiori che sono nella popola­zione. E piuttosto che servire a difendere la rivoluzione ser­ve a discreditarla, a renderla odiosa alle masse e, dopo un periodo di lotte feroci, mette capo necessariamente a quel­lo che oggi chiamerebbero “normalizzazione”, cioè alla le­galizzazione e perpetuazione della tirannia. Vinca una par­te o l’altra, si arriva sempre alla costituzione di un governo forte, il quale assicura agli uni la pace a spese della libertà e agli altri il dominio senza troppi pericoli.

So bene che gli anarchici terroristi (quei pochi che vi so­no) respingono ogni terrore organizzato, fatto per ordine di un governo da agenti prezzolati, e vorrebbero che fosse la massa che direttamente mettesse a morte i suoi nemici. Ma questo non farebbe che peggiorare la situazione. Il terrore può piacere ai fanatici, ma conviene soprattutto ai veri mal­vagi avidi di denaro e di sangue. E non bisogna idealizzare la massa e figurarsela tutta composta d’uomini semplici, che possono bensì commettere degli eccessi, ma sono sem­pre animati da buone intenzioni. Gli sbirri e i fascisti ser­vono i borghesi, ma escono dal seno della massa!

Il fascismo ha accolto molti delinquenti e così ha, fino a un certo punto, purificato preventivamente l’ambiente in cui si svolgerà la rivoluzione; ma non bisogna credere che tutti i Dumini e tutti i Cesarino Rossi siano fascisti. Vi so­no di quelli che per una ragione qualsiasi non han voluto o non han potuto diventare fascisti; ma sono disposti a fare in nome della “rivoluzione” quello che i fascisti fanno in nome della “patria”. E d’altronde, come gli scherani di tut­ti i regimi sono stati sempre pronti a mettersi al servizio dei nuovi regimi e diventarne i più zelanti strumenti, così i fa­scisti d’oggi si affretteranno domani a dichiararsi anarchi­ci, o comunisti o quel che si voglia, pur di continuare a fa­re i prepotenti e sfogare i loro istinti malvagi. E se non po­tranno nei loro paesi perché conosciuti e compromessi, an­dranno a fare i rivoluzionari altrove e cercheranno di emer­gere mostrandosi più violenti, più “energici” degli altri e trattando da moderati, da codini, da “pompieri”, da contro-rivoluzionari quelli che la rivoluzione concepiscono come una grande opera di bontà e dì amore.

Certamente la rivoluzione va difesa e sviluppata con lo­gica inesorabile; ma non si deve e non si può difenderla con mezzi che contraddicono ai suoi fini. Il grande mezzo di difesa della rivoluzione resta sempre quello di togliere ai borghesi i mezzi economici del domi­nio, di armare tutti (fino a quando non si possa indurre tut­ti a gettare le armi come giocattoli inutili e pericolosi) e di interessare alla vittoria tutta la grande massa della popo­lazione. Se per vincere si dovesse elevare la forca nelle piazze, io preferirei perdere.

 


SCIENZA E LIBERTà

 

 

 

 

 

Commento all’articolo di Nino Napolitano: “Scienza e Anarchia”[22]

 

La definizione che Kropotkin dà dell’Anarchia e che il Napolitano riporta come cosa che non ha nemmeno biso­gno di essere discussa, quantunque accettata con poco spi­rito critico da molti anarchici a causa del grande e merita­to prestigio dell’autore e del suo accordo con le idee scien­tifiche e filosofiche che prevalevano quando l’anarchismo cominciò a propagarsi, sembra a me erronea e nociva: er­ronea, perché confonde cose di natura diversa, nociva per­ché costringe gli anarchici che l’accettano a dibattersi in quelle contraddizioni che infirmano i ragionamenti di tut­ti, o quasi tutti, i pensatori delle scuole positiviste e natu­ralistiche quando si occupano di questioni morali.

Il Kropotkin nel suo tentativo di fissare “il posto del­l’Anarchia nella scienza moderna” trova che “l’Anarchia è una concezione dell’universo basata sull’interpretazione meccanica dei fenomeni che abbraccia tutta la natura, non esclusa la vita della società”.

Questa è filosofia, accettabile o meno, ma certamente non e ne scienza, né Anarchia. La scienza è la raccolta e la sistemazione di ciò che si sa, si crede sapere: dice il fatto e cerca di scoprire la legge del fatto, cioè le condizioni nelle quali il fatto necessariamente avviene e si ripete. Essa soddisfa certi bisogni intellettuali ed è nello stesso tempo strumento validissimo di potenza. Mentre indica nelle leggi naturali il limite all’arbitrio uma­no, accresce la libertà effettiva dell’uomo dandogli modo di volgere quelle leggi a proprio vantaggio. Essa è uguale per tutti e serve indifferentemente per il bene o per il male, per la liberazione come per l’oppressione.

La filosofia può essere una spiegazione ipotetica di quel­lo che si sa, o un tentativo d’indovinare quello che non si sa. Essa pone i problemi che sfuggono, almeno finora, alla competenza della scienza e immagina delle soluzioni che per non essere, allo stato attuale delle cognizioni, suscetti­bili di prove, variano e si contraddicono da filosofo a filo­sofo. Essa, quando non diventi un gioco di parole e un fe­nomeno d’illusionismo, può essere di sprone e di guida al­la scienza, ma non è la scienza.

L’Anarchia invece è un’aspirazione umana, che non è fondata sopra nessuna vera o supposta necessità naturale, e che potrà realizzarsi e non realizzarsi secondo la volontà umana. Essa profitta dei mezzi che la scienza fornisce all’uomo nella lotta contro la natura e contro le volontà con­trastanti; può profittare dei progressi del pensiero filosofi­co, quando essi servano a insegnare agli uomini a ragiona­re meglio e a meglio distinguere il reale dal fantastico; ma non può esser confusa, senza cadere nell’assurdo, né con la scienza, né con un qualsiasi sistema filosofico.

 

Vediamo se realmente “la concezione meccanica del­l’universo” spiega i fatti conosciuti. Vedremo poi se essa possa almeno conciliarsi, coesiste­re logicamente collanarchismo o infatti con qualsiasi aspi­razione a uno stato di cose diverso da quello che esiste.

Principio fondamentale della meccanica è la conserva­zione dell’energia: niente si crea e niente si distrugge. Un corpo non può cedere del calore a un altro senza raf­freddarsi di altrettanto; una forma di energia non può tra­sformarsi in un’altra (movimento in calore, calore in elet­tricità o viceversa, ecc.) senza che quello che si acquista in un modo si perda in un altro. Insomma in tutta la natura fi­sica si verifica quello stesso volgarissimo fatto che se uno ha dieci soldi e ne spende cinque, gliene restano solamente cinque e niente di più o di meno.

Invece, se uno ha un’idea la può comunicare a un milio­ne di persone senza perderci nulla, e l’idea più si propaga e più acquista forza ed efficienza. Un maestro insegna agli al­tri quello che sa, e non diventa perciò meno sapiente, anzi nell’insegnare apprende meglio e arricchisce la sua mente. Se un grano di piombo lanciato da mano omicida tronca la vita di un uomo di genio, la scienza potrà spiegare quel che diventano tutti gli elementi materiali, tutte le energie fisi­che che esistevano nell’ucciso quando era in vita e dimo­strare che dopo che il cadavere si è disfatto nulla resta di lui nell’antica forma, ma che nello stesso tempo nulla si è per­duto materialmente perché ogni atomo di quel corpo si ri­trova con tutte le sue energie in altre combinazioni. Ma le idee che quel genio ha lanciato nel mondo, le invenzioni ch’egli ha fatte restano e si propagano e possono essere una forza enorme; mentre d’altra parte quelle idee che ancora maturavano in lui e che si sarebbero sviluppate s’egli non tosse stato ucciso, sono perdute e non si ritrovano più. Può la meccanica spiegare questa potenza, questa qua­lità specifica dei prodotti mentali?

Non mi si domandi, per carità, di spiegare io in altro mo­do il fatto che la meccanica non riesce a spiegare. Io non sono filosofo; ma non c’è bisogno di essere filo­sofi per vedere certi problemi che più o meno tormentano tutte le menti pensanti. E il non sapere risolvere un proble­ma non obbliga uno ad accettare delle soluzioni che non lo soddisfano, tanto più che le soluzioni offerte dai filosofi sono tante e si contraddicono l’una con l’altra. E ora vediamo se il “meccanicismo” è conciliabile con l’anarchismo.

Nella concezione meccanica (come d’altronde nella con­cezione teistica) tutto è necessario, tutto è fatale, niente può essere differente da quello che è. Infatti se nulla si crea e nulla si distrugge, se la materia e l’energia (qualunque cosa esse possano essere) sono quan­tità fisse sottoposte a leggi meccaniche, tutti i fenomeni so­no collegati in modo inalterabile

Kropotkin dice: “Poiché l’uomo è una parte della natu­ra, poiché la sua vita personale e sociale è pure un fenome­no della natura – allo stesso modo della crescenza di un fio­re, o dell’evoluzione della vita nelle società delle formiche e delle api – non vi è nessuna ragione perché passando dal fiore all’uomo e da un villaggio di castori a una città uma­na, noi dobbiamo abbandonare il metodo che ci aveva ser­vito così bene fino allora per cercarne un altro nell’arsena­le della metafisica.” E già il grande matematico Laplace, al­la fine del secolo decimottavo aveva detto: “Essendo date le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, un’intelligenza abbastanza vasta conoscerebbe il passato e l’avvenire tanto bene quan­to il presente”.

Questa è la pura concezione meccanica; tutto ciò che è stato doveva essere, tutto ciò che è deve essere, tutto ciò che sarà dovrà essere necessariamente, fatalmente in tutti i mi­nimi particolari di posizione e di movimento di intensità e di velocità.

In tale concezione, che significato possono avere le pa­role “volontà, libertà, responsabilità”? E a che servirehbe l’educazione, la propaganda, la ribellione? Non si può mo­dificare il corso predestinato degli avvenimenti umani co­me non si può modificare il corso degli astri o “la crescen­za di un fiore”. E allora? Che c’entra l’Anarchia?

Ebbero voga tra gli anarchici le dichiarazioni che un compagno francese (Etiévant) pronunziò in sua difesa in­nanzi a un tribunale di Parigi. Egli avrebbe potuto limitar­si a far la critica della società, a dimostrare che se delitto aveva commesso egli vi era stato indotto, forzato dalle cir­costanze, e che la massima responsabilità spettava ad altri che a lui. Ma il nostro povero compagno, che più tardi cad­de vittima della brutalità poliziesca, era intinto di filosofia e volle dimostrare, da buon determinista, che non lo si po­teva dichiarare responsabile e punirlo, perché egli non era un libero agente, visto che tutto in natura è necessario e predeterminato. Un giudice di cattivo cuore, ma di spirito sveglio avreb­be potuto rispondergli: Avete ragione, io non posso giusta­mente punirvi e nemmeno biasimarvi per le ragioni che co­sì bene avete esposte; ma per le stesse ragioni non è re­sponsabile il prete che vi ha ingannato, il padrone che vi ha affamato, lo sbirro che vi ha torturato – e non sono respon­sabile io che vi mando in galera o alla ghigliottina. Tutto quello che avviene deve avvenire.

Ancora una volta, che c’entra l’Anarchia in tutto questo? I sistemi filosofici sono innumerevoli e, come tutto ciò che non ha una base positiva, seguono anche la moda. Sul fini­re del secolo passato era di moda il materialismo, oggi è di moda l’idealismo, domani chi sa che cosa c’inventeranno i signori filosofi.

Bisognerebbe dunque che quelli che, come fece il Kro­potkin, affrontano per l’Anarchia persecuzioni e martirii, quelli che sono anarchici perché amano e soffrono e si ri­bellano all’ingiustizia e all’oppressione, aspettassero che scienziati e filosofi abbiano spiegato davvero quest’immen­so mistero che è l’universo?

Si può essere anarchici qualunque sia il sistema filoso­fico che si preferisce. Vi sono anarchici materialisti come ve ne sono di spiritualisti, ve ne sono di monisti e di plura­listi, ve ne sono di agnostici e vi sono di quelli, come me, che senza nulla pregiudicare sui possibili sviluppi futuri dell’intelletto umano, preferiscono dichiararsi semplice­mente ignoranti.

Certamente non si capisce come si può conciliare certe teorie con la pratica della vita. La teoria meccanicista, al pari di quella teistica e pan­teistica, porterebbe logicamente all’indifferenza e all’ina­zione, all’accettazione supina di tutto ciò che è, nel campo morale come in quello materiale.

Ma per fortuna le concezioni filosofiche hanno poca o nessuna influenza sulla condotta. E i materialisti e “meccanicisti” in barba alla logica, si sacrificano spesso per un ideale. Come del resto fanno i re­ligiosi che credono nelle gioie eterne del paradiso, ma pen­sano a star bene in questo mondo, e quando stanno malati hanno paura di morire e chiamano il medico. Così come la povera mamma che perde un figliuolo: crede di esser sicu­ra che il suo bimbo diventato un angelo e l’aspetta in Para­diso… ma intanto piange e si dispera.

 

 

 

Fra le nebbie della filosofia[23]

 

Ho tardato a rispondere al mio gentile e dotto contrad­dittore di Coscientia. A lui non importerà nulla, e i lettori mi perdoneranno facilmente il ritardo, visto che in questi momenti turbinosi la questione non è davvero di palpitan­te attualità. Nullameno non mi pare inutile il tentare di mettere le co­se in chiaro

Il g. g. di Coscientia mi aveva qualificato di “mentalità dommattica”. Io risposi ed egli replica dicendo che la mia risposta lo conferma nell’opinione che io ho una “mentalità scientistica”. Crede egli dunque che le due opposte qualifi­che significano la stessa cosa?

Io protesto contro la qualifica di dommatico, perché, fer­mo e deciso in quello che voglio, sono sempre dubbioso in quello che so e penso che, per quanti sforzi si siano fatti per comprendere e spiegare l’Universo, non si sia finora rag­giunto, nonché la certezza, nemmeno una probabilità dì certezza – e non so se l’intelligenza umana potrà mai arri­varci. Invece, la qualifica di mentalità scientista non mi di­spiace affatto e sarei lusingato di meritarla; poiché la men­talità scientista è quella che ricerca la verità con metodo po­sitivo, razionale e sperimentale, non s’illude mai di aver tro­vato la verità assoluta e si contenta di avvicinarvisi faticosamen­te, scoprendo delle verità parziali, che considera sempre co­me provvisorie e rivedibili. Lo scienziato, quale secondo me dovrebbe essere, è quello che esamina i fatti e ne trae le logi­che conseguenze quali che esse siano, in opposizione a co­loro che si foggiano un sistema e poi ne cercano la confer­ma nei fatti e per trovarla inconsciamente scelgono i fatti che loro convengono trascurando gli altri e magari sforza­no e travisano la realtà per serrarla nei ceppi delle loro con­cezioni. Egli adopera delle ipotesi da lavoro, vale a dire fa delle supposizioni che gli servono di guida e di sprone nel­le sue ricerche, ma non resta vittima dei suoi fantasmi, pi­gliando, a forza di servirsene, per verità dimostrate le sue supposizioni e generalizzando ed elevando a legge, con ar­bitraria induzione, ogni fatto particolare che convenga alla sua tesi.

Lo scientificismo che io respingo e che, provocato e ali­mentato dall’entusiasmo che seguì le scoperte veramente meravigliose fatte in quel torno di tempo nel campo della fisica e della storia naturale, dominò le menti nella secon­da metà del secolo passato, è il credere che la scienza sia tutto e possa tutto; è l’accettare come verità definitive, co­me dommi, ogni scoperta parziale; è il confondere la Scien­za con la Morale, la Forza nel senso meccanico della paro­la, che è una entità definibile e misurabile, con le forze mo­rali, la Natura con il Pensiero, la Legge naturale con la Vo­lontà. Esso conduce logicamente al fatalismo, cioè alla ne­gazione della volontà e della libertà.

Il g. g. dice che bisognerebbe discutere il mio articolo fra­se per frase, il che sarebbe troppo lungo, e perciò si limita a mettermi dei quesiti, perché io mi convinca come la sua impostazione dei problemi sia lontana della mia. Ne ero già convinto; ma ecco: io dicevo di non credere nell’origine divina della Sacra Scrittura, ed egli risponde: Ma che intende Malatesta per Sa­cra Scrittura? La carta e le parole stampate? No, io non arrivo a supporre che g. g. creda che il Padre Eterno abbia, sul Monte Sinai o altrove, scritto sopra un papiro i libri santi; ma crede egli, sì o no, che la Bibbia sia d’ispirazione divina e non già una raccolta di leggende e di poesie, qualche co­sa come il folclore del popolo ebreo?

Ma g. g. continua: Che cosa intende M. per origine divina? Se per divino ammette ciò che è assoluto, non empirico, M. riconoscerà che per lo me­no la coscienza è di origine divina in quanto permette a lui, Ma­latesta, di asserire con sicurezza assoluta alcune cose (la cosid­detta realtà obbiettiva, la prova come norma di verità, ecc.). Eb­bene chi ha rivelato la divinità della coscienza se non il Vange­lo? E cos’è la verità del Vangelo, se non un’esperienza di co­scienza?

Rispondo prima di tutto che io non ho mai detto di ave­re “sicurezza assoluta” di cosa alcuna (ho anzi detto preci­samente il contrario), e poi che non capisco che cosa è questa origine divina della coscienza. A Dio, inteso come esse­re cosciente e volente, creatore e regolatore del Mondo io non ci credo, e l’Assoluto non so che cosa sia. Ci crede g. g. a un Dio personale, e comprende egli che cosa sia l’Assolu­to? Se sì, beato lui, ma io gli sarei molto obbligato se voles­se darmi una risposta, precisa e intelligibile – intelligibile, intendo, per una mente così poco filosofica come la mia. E così se volesse spiegarmi come mai è il Vangelo che ha ri­velato la divinità della coscienza; e che significa il dire che il Vangelo è una esperienza di coscienza! Questo è un lin­guaggio veramente troppo ermetico, troppo misterioso per me: capirei meglio se g. g. mi dicesse se egli crede che Cri­sto era un dio e che il Vangelo è parola divina, anziché un racconto (storico o leggendario importa poco) in cui si tro­vano delle massime morali già predicate da religioni ante­riori. La frase “la verità del Vangelo è un’esperienza di co­scienza”, pur nella sua oscurità, mi fa pensare che g. g. è cristiano non già perché è convinto della verità del Cristia­nesimo, ma perché vi vuole credere: questione di gusto al­lora, e come è risaputo sui gusti non si discute.

Poi g. g. dice che io riduco la volontà di credere all’autosug­gestione. Siamo esatti. Io dissi che la fede (non la volontà di credere, ma il credere) è un fenomeno d’autosuggestione. La volontà di credere mi pare piuttosto un autolesionismo mentale, una volontà di diminuire sé stesso, la propria personalità, la propria dignità intellettuale. Allora g. g. per confutarmi tira in campo Paolo, Agostino e Man­zoni che contrappone ai devoti di S. Gennaro a cui io ave­vo accennato, e mi accusa di credere, con Lombroso, che il genio è follia. Ho il sospetto che dei tre almeno uno, Ago­stino, si sentirebbe onorato di essere paragonato ai devoti di S. Gennaro che non s’imbarazzano di ragionare e hanno la fede ingenua, cieca, vale a dire la vera fede. Ma che im­porta? Io non mi lascio guidare da Paolo, Agostino o Man­zoni più che da Lombroso, e non amo, anche perché sono poco erudito, che invece di buone ragioni mi si tirino fuori dei grandi nomi. Preferirei che g. g. mi spiegasse come da quello che ho detto mi sì possa attribuire una qualsiasi ap­provazione delle fantasticherie sedicenti scientifiche del Lombroso.

I genii sono rari, ma se ne trovano fra tutte le confessio­ni e malgrado tutte le confessioni, e il fatto che essi posso­no autosuggestionarsi e magari essere sciocchi in una ramo dell’attività mentale, non infirma la loro genialità in un altro ramo. Newton fu un genio, e non precisamente perché commentava la Bibbia; fu un genio Leonardo da Vinci e non già perché era cattolico, se pure lo era. Tutti i grandi credenti che g. g. può citare, e in qualun­que religione credessero, o credevano per suggestione rice­vuta nell’infanzia, così per abitudine, senza ragionarci su, oppure perché volevano credere e si autosuggestionavano fino al punto di credere davvero.

Siccome io avevo opposto la volontà di sapere alla volontà di cre­dere, g. g. domanda: Ma che differenza passa tra sapere e credere? tra ragione e fede? Chi crede nella ragione non fa atto di fede nella ra­gione? Già, per chi crede nell’infallibilità della ragione, ma non per chi si contenta della ragione perché è la sola arma, imperfetta quanto si voglia, che abbiamo per controllare la nostra fantasia e sistemare le nostre sensazioni.

Ammetto volentieri che, a causa della nostra ignoranza e della nostra incapacità – non so se temporanea o perpetua – di com­prendere quello che si chiama causa prima, cosa in sé, ecc., ecc., noi siamo costretti per necessità intellettuali e per necessità prati­che ad ammettere molte cose che non comprendiamo e a ragiona­re e agire come se vi credessimo; e perciò, se questo può fare pia­cere a g. g., oltre a dire volontà dì sapere dirò anche volontà di cre­dere il meno possibile, cioè volontà di apprendere e di comprendere sempre di più.

In ultimo g. g. vuoi farmi credere nella creazione dal nul­la e nella trinità, e siccome ha il sospetto che il Quarto Evangelo non basta a persuadermi, mi rimanda a Hegel. Grazie tanto! Hegel aveva tanta fantasia da poterne creare cento di mondi e dividere la divinità in tremila anzi che in tre persone – e poi era tanto oscuro che quello che non crea­va lui glielo possono far creare gli interpreti. Del resto io stesso, che non sono un Hegel (me ne guardi Iddio!) se mi mettessi a fantasticare ne potrei crear tante di cose. Ma sa­rebbero poi sempre vane fantasticherie.

Conclusione. Tra me e g.g. e c’è una differenza tale di mentalità che non possiamo riuscire ad accordarci e forse nemmeno a comprenderci. Io sono cosciente della mia ignoranza e la confesso a me stesso e agli altri; g. g., come la più parte dei filosofi ha una ripugnanza istintiva a dire non so. Io amo la luce e trovo che non ve n’è mai abbastanza; g. g. si compiace fra le nebbie. E io non dico che coloro i quali tra le nebbie si com­piacciono non possono fare opera utile all’avanzamento dello spirito umano. Anche brancolando nel buio si posso­no fare delle scoperte. Sono perciò da ammirare quegli au­daci che si slanciano nelle alte sfere della metafisica; ma bi­sogna che essi si rendan conto che stanno nel buio e non s’illudano di veder chiaro là dove non vi è filo di luce. Ché altrimenti invece di essere dei pionieri del pensiero saran­no degli sterili sognatori e non produrranno che dei devoti di S. Gennaro… o di Hegel.

 

 

 

La fede e la scienza[24]

 

Nel nostro numero del 15 agosto parlando di Riforma religiosa, in una nota all’articolo in cui il compagno Benigno Blasco si occupava della propaganda protestante della rivi­sta Coscientia, io dicevo:

 

Noi (alla religione) non ci crediamo; e non possiamo perciò fon­dare la nostra morale sopra ciò che riteniamo una menzogna, sia quella cattolica, sia quella protestante. Se Coscientia potesse darci la fede! Ma come potrebbe fare? Noi vorremmo delle prove, e dubitiamo che ci si possa provare la ve­rità dei domini cristiani.

 

Coscientia trova che io ho messo “crudamente la que­stione in termini precisi” e a sua volta risponde:

 

Coscientia, se non può darla fede, può dare questa risposta: Esi­stono due mentalità: 1° la dommatica che crede di aver trovato la verità definitiva, riposa in essa, non ha travaglio o inquietu­dine di nuove ricerche e giudica quanto è al di fuori di essa co­me superstizione, prodotto inferiore, ecc. Esempi ne sono la men­talità cattolica e quella giusnaturalistica che è una proiezione caricaturata di questa. Al domma dell’infallibilità del Papa cor­risponde esattamente quello dell’infallibilità della Scienza. Mol­ti anarchici hanno questa mentalità ed essa appare in modo chiarissimo nella richiesta di prova dei dommi cristiani che ci fa Malatesta (ecco il domma della prova); 2° la mentalità critica: questa esclusivamente moderna, vive dubitando; la fede non è mai definitiva o posseduta sì che non sì cerchi un maggiore pos­sesso e il valore di essa sta nella volontà di essa, nel faticoso ac­quisto, così come il liberalismo non è in un programma politico ma in sé, così come la filosofia è nel filosofare. Questa è la sco­perta religiosa di Calvino, filosofica di Hegel, politica di Stuart Mill, tutta insomma di un’altra cultura, la quale ha anch’essa miscredenti, ma di un altro genere e meno miscredenti di quan­to si creda. Croce, per esempio, non chiederà mai le prove del­la divinità di Cristo. Posto questo, appare chiara la difficoltà per una mentalità dommatica di comprendere la mentalità critica che fu la via a esser quel che siamo. Bisognerebbe dubitare delle proprie idee, e questo non è intenzione di M. di cui conosciamo il tenace at­taccamento ai suoi principi, nelle ore tristi e serene. Insomma qui è questione di volontà e di disposizione; quella che Pascal chiamava volontà di credere prima di essere questio­ne di fede.

 

Questa è la risposta, forse un po’ lunga ma non inutile a mette­re in chiaro i termini di certi dissidi. Coscientia mi giudica male. Checché possano pensarne altri anarchici, io respingo tanto il giusnaturalismo del settecento, quanto lo scientifìcismo dell’ottocento; e sopra-tutto non sono un dommatico. Io non credo nell’infallibilità della Scienza, né nella sua capacità di tutto spiegare, né al­la sua missione di regolare la condotta degli uomini, come non credo nell’infallibilità del Papa, nella Morale rivelata e nell’origine divina della Sacra Scrittura.

Io credo solo nelle cose che possono essere provate; ma so benissimo che le prove sono cosa relativa e possono, e sono infatti, continuamente superate e annullate da altri fatti provati; e quindi credo che il dubbio debba essere la posizione mentale di chiunque aspira ad avvicinarsi sem­pre più alla verità, o almeno a quel tanto di verità che è possibile raggiungere.

Coscientia dice che bisogna avere la volontà di credere, confessando così che la fede è un fenomeno di autosugge­stione senza alcuna corrispondenza nella realtà obbiettiva. E perciò non vuol sentir parlare di prove e trova che sia se­gno di mentalità dommatica il domandarne, mentre poi sa­rebbe segno di mentalità critica il credere, naturalmente senza prove, che vi sia un Dio che ha creato il mondo dal nulla, che questo Dio si è scisso in tre persone e ne ha man­data una, il figlio Gesù, a redimere l’umanità, ecc.

A me questa pare una mentalità da devoti di S. Gennaro! Io alla volontà di credere, che non può essere che la vo­lontà di annullare la propria ragione, oppongo la volontà di sapere, che lascia aperto innanzi a noi il campo sterminato della ricerca e della scoperta. Io, come ho già detto, am­metto solo ciò che può essere provato in modo da soddi­sfare la mia ragione – e lo ammetto solo provvisoriamente, relativamente, in attesa sempre di nuovi veri, più veri di quelli finora acquisiti. Niente fede dunque, nel senso religioso della parola.

Accade anche a me di dire che ci vuole la fede, di dire che nella lotta per il bene ci vogliono gli uomini di fede sicura, che stiano fermi nelle bufere come torre che non crolla giammai la cima per soffiar di venti. E c’è perfino un gior­nale anarchico che, ispirandosi evidentemente a questo bisogno, s’intitola Fede! Ma qui si tratta di un altro signifi­cato della parola. Qui fede significa volontà ferma e forte speranza e non ha nulla di comune con la cieca credenza, in cose che appaiono o incomprensibili o assurde.

Ma come concilio io questa incredulità nella religione e questo dubbio, direi sistematico, nei risultati definitivi del­la scienza, con una norma morale e con la ferma volontà e la forte speranza di realizzare il mio ideale di libertà, di giustizia, di fratellanza umane?

Gli è che io non metto la scienza dove la scienza non c’entra. Compito della scienza è di scoprire e di dire il fatto e le condizioni nelle quali il fatto necessariamente si produce e si ripete: di dire cioè quello che è e che necessariamente de­ve essere, e non già quello che gli uomini desiderano e vo­gliono. Essa s’arresta dove finisce la fatalità e comincia la libertà. Serve all’uomo perché lo previene dal perdersi in chimere impossibili, e nello stesso tempo gli fornisce i mez­zi per allargare il tempo spettante alla libera volontà: capa­cità di volere che distingue gli uomini, e forse in gradi di­versi tutti gli animali, dalle cose inerti e dalle forze inco­scienti. E in questa facoltà di volere che bisogna cercare le fonti della morale, le regole della condotta.

 

 

 

Necessità e libertà[25]

 

Le osservazioni che qua e là ho scritte in questi ultimi tempi sui rapporti tra Scienza e Anarchia, e soprattutto il fatto di aver trattato da assurda la definizione che Kropot­kin dava dell’Anarchia – “l’Anarchia è una concezione del­l’universo basata sull’interpretazione meccanica dei feno­meni che abbraccia tutta la natura, non esclusa la vita del­la società” – hanno scandalizzato alcuni compagni, i quali non comprendendo, certamente per colpa mia, quel che io intendevo, mi han fatto dire che l’anarchismo non sapeva che farsi della scienza e della filosofia, e si sono sbizzarriti a dimostrare le grandi benemerenze della scienza e a dire che l’anarchismo è una concezione generale della vita, cioè una filosofia, senza poi toccare per nulla il punto che vera­mente io aveva posto in discussione. Cercherò di spiegarmi più chiaramente.

Lasciamo andare la filosofia, di cui si danno mille defini­zioni diverse e che spesso è davvero, come dice ironica­mente un filosofo, che non brilla egli stesso per soverchia chiarezza, l’arte di rendere oscuro ciò che è chiaro. Io sono un profano e, così, empiricamente, per mio uso personale, divido ciò che dicono “i filosofi” in due parti: quello che ca­pisco e quello che non capisco. Nella parte che capisco tro­vo verità, errori, dubbi, ipotesi, problemi, tutte cose alta­mente interessanti, ma che infine rientrano tutte nel cam­po dell’indagine scientifica, se fra le scienze s’includono la logica e la psicologia. Nella parte che non capisco mi par di vedere fantasticherie, tautologie, logomachie… ma poiché non capisco, sarà più prudente astenermi dal giudicare.

Restiamo sul terreno solido della scienza. Scopo della ricerca scientifica è di studiare la natura, di scoprire il fatto e le “leggi” che la governano, cioè le con­dizioni nelle quali il fatto necessariamente avviene e neces­sariamente si riproduce. Una scienza è costituita quando può prevedere ciò che avverrà, non importa se sappia o no dirne il perché; se la previsione non si avvera, vuol dire che vi era errore e non c’è che da procedere a più ampia e più profonda indagine. Il caso, l’arbitrio, il capriccio, sono con­cetti estranei alla scienza, la quale ricerca perciò che è fatale, ciò che non può essere diversamente, ciò che è necessario.

Questa necessità che collega tra loro nel tempo e nello spazio tutti i fatti naturali e che è compito della scienza ri­cercare e scoprire, abbraccia essa tutto ciò che avviene nel­l’universo compresi i fatti psichici e sociali?

I meccanicisti dicono di sì, e pensano che tutto è sotto­posto alla stessa legge, meccanica, tutto è predeterminato dagli antecedenti fisico-chimici: così il corso degli astri, co­me lo sbocciare di un fiore, come il palpito di un’amante, co­me lo svolgersi della storia umana. E il sistema, ne conven­go volentieri, appare bello e grandioso, meno assurdo, meno incomprensibile dei sistemi metafisici e, se potesse esser di­mostrato vero, soddisferebbe completamente lo spirito. Ma allora, malgrado tutti gli sforzi pseudo-logici dei determini­sti per conciliare il sistema con la vita e con il sentimento morale, non vi resta posto, né piccolo né grande, né condi­zionato né incondizionato, per la volontà e per la libertà. La vita nostra e quella delle società umane sarebbe tutta predestinata e prevedibile, ab eterno e per l’eternità, in tutti i minimi particolari al pari di ogni fatto meccanico, e la no­stra volontà sarebbe semplice illusione come quella del­la pietra di cui parla Spinoza, che, cadendo avesse coscien­za della sua caduta e credesse che cade perché vuol cadere.

Ammesso questo, che meccanicisti e deterministi non possono non ammettere senza contraddirsi, diventa assur­do il voler regolare la propria vita, il volere educarsi ed edu­care, il volere riformare in un senso o nell’altro l’organizza­zione sociale. Tutto questo affaccendarsi degli uomini per preparare un miglior avvenire non sarebbe che l’inutile frutto di un’illusione, e non potrebbe durare dopo che si è scoperto che è un’illusione. È vero che anche l’illusione, anche l’assurdo sarebbero prodotti fatali delle funzioni meccaniche del cervello e come tali rientrerebbero nel si­stema, ma, ancora una volta, quale posto resta alla volontà, alla libertà, all’efficacia dell’opera umana sulla vita e sui de­stini dell’uomo?

Perché gli uomini abbiano la fiducia, o almeno la spe­ranza, di poter fare opera utile, bisogna ammettere una for­za creativa, una causa prima, o delle cause prime, indipen­denti dal mondo fisico e dalle leggi meccaniche, e questa forza è quella che chiamiamo volontà.

Certamente, ammettere questa forza significa negare l’applicazione generale del principio di causalità e di ragion sufficiente, e la nostra logica si trova imbarazzata. Ma non è sempre così, quando vogliamo rimontare all’origine del­le cose? Noi non sappiamo che cosa è la volontà; ma sap­piamo forse che cosa è la materia, che cosa è l’energia? Noi conosciamo i fatti, ma non la ragione dei fatti e, comunque ci sforziamo, arriviamo sempre a un effetto senza causa, a una causa prima – e se per spiegarci i fatti abbiamo biso­gno di cause prime sempre presenti e sempre attive, ne accetteremo l’esistenza come una ipotesi necessaria, o al­meno comoda.

Considerate così le cose, compito della scienza è quello di scoprire ciò che è fatale (leggi naturali) e stabilire i limi­ti dove finisce la necessità e comincia la libertà; e la grande sua utilità consiste nel liberare l’uomo dall’illusione di po­ter fare tutto quello che vuole e allargare sempre più la sua libertà effettiva. Quando non si conosceva la fatalità che sottopone tutti i corpi alle leggi di gravitazione, l’uomo po­teva credere di poter volare a suo piacere, ma restava a ter­ra; quando la scienza ha scoperto le condizioni necessarie per sostenersi e muoversi nell’aria, l’uomo ha acquistato la libertà di volare realmente.

In conclusione, tutto ciò che sostengo è che l’esistenza di una volontà capace di produrre effetti nuovi, indipendenti dalle leggi meccaniche della natura, è un presupposto neces­sario per chi sostiene la possibilità di riformare la società. È sulla necessità o meno di questo presupposto che pos­sono discutere, se vogliono, P. Garahino e altri miei con­traddittori. Gli inni alla bellezza della scienza non colgono nel segno.

 

 

 

Nota all’articolo di Hz.: “Scienza e Anarchia”[26]

 

Ringrazio dei complimenti e rispondo. Ciò che dice nella conferenza Kropotkin (del 6 marzo 1896) a cui si riferisce il nostro compagno norvegese Hz., non spiega e non giustifica l’idea, per me arbitraria e as­surda, che l’Anarchia sia “una concezione dell’universo basata sull’interpretazione meccanica dei fenomeni”.

Si tratta di oscure e contestabili analogie tra la vita so­dale e certi fatti (o supposti fatti) del mondo fisico e biolo­gico, che Kropotkin deve aver messi là perché allora era di moda il ficcare in ogni cosa “la Scienza”, senza annetter­vi egli stesso grande importanza, visto che comincia col di­re: “Prendo alcuni esempi elementari nel campo delle scienze naturali non per dedurne le nostre idee sociali – sia­mo ben lontani da ciò – ma semplicemente per far meglio risultare certi rapporti più facili a capirsi nei fenomeni constatati dalle scienze esatte che cercandone gli esempi nei fatti così complessi delle società umane”. E infatti, pa­gato il tributo alla moda dell’ora, egli, di botto, senza ap­parente legame logico), passa a difendere l’anarchia con ar­gomenti derivati dal desiderio di giustizia, di libertà, di be­nessere per tutti, che nulla hanno da fare con le scienze na­turali.

Del resto, se si volesse esaminare con rigore quello che Kropotkin dice nella citata conferenza, bisognerebbe arri­vare alla conclusione che egli stesso era in fondo tutt’altro che un meccanicista. “Nulla” – dice – “di prestabilito in ciò che noi chiamiamo armonia della natura. Il caso degli urti e de­gli scontri è stato sufficiente per stabilirla”. Dunque il Ca­so?! Ma come si può concepire che qualche cosa avvenga per caso senza supporre un agente libero, una forza che, senza causa anteriore, sopravvenga ad alterare l’equilibrio statico e dinamico di già esistente? E poi, che cosa è quest’armonia della natura, questo ordi­ne naturale, a cui tanto spesso fanno appello gli anarchici che s’ispirano alle idee di Kropotkin? Che cosa han di co­mune quell’armonia e quell’ordine con l’armonia sociale, che è lo scopo vero dell’anarchismo?

La Natura edifica e distrugge, fa nascere, fa soffrire e fa morire, crea la vita e fa in modo che essa non può mante­nersi se non distruggendo altre vite. Naturale è l’amore e la gioia come è naturale l’odio e il dolore; naturale è l’abbon­danza come è naturale la sterilità e la miseria; naturale lo schiacciamento del debole da parte del forte; naturale l’ura­gano, il terremoto, il cancro, la tubercolosi… Quest’ordine naturale somiglia ben più all’ordine borghese che a quello che vogliamo noi! Tutto ciò che esiste e avviene indipen­dentemente dalla volontà e dall’opera degli uomini è natu­rale e risponde forse a una necessità meccanica; ma non è certamente armonico, almeno nel senso che noi diamo alla parola armonia, quando l’invochiamo per la salvezza e la fe­licità degli uomini.

Hz. trova a ridire sul principio, generalmente accettato nel campo delle scienze fisiche, della conservazione dell’energia, e osserva che “una candela accesa ne può ac­cendere altre mille senza perciò consumarsi più presto e che una macchina non si consuma più presto se fa un lavoro uti­le che se si muove per nulla.”

Io, pur non comprendendo troppo, non mi scandalizzerei certamente se uno negasse il detto principio della con­servazione dell’energia, vale a dire che nulla si crea e nulla si distrugge. Questo principio, come ogni altro su cui si fon­da la scienza non è in sostanza che un’ipotesi, utilissima per collegare i fatti conosciuti e spingere a cercarne degli altri, ma non può lasciarvi pienamente soddisfatti perché non ci svela che cosa è l’energia.

Se qualcuno mostrasse l’insufficienza di quell’ipotesi e provocasse così ricerche e spiegazioni in una nuova dire­zione non ci sarebbe che da rallegrarsene. Ma bisognereb­be appoggiare la critica a qualche fatto e a qualche ragione; e invece le obiezioni del nostro compagno mi paiono sfor­nite di ogni validità.

La fiamma della candela accesa comunicando il fuoco ad altre si raffredda un poco a ogni contatto con un luci­gnolo freddo e finirebbe collo spegnersi se i contatti si se­guissero troppo rapidamente e senza aspettare che l’ener­gia chimica della candela trasformandosi in calore avesse compensato il raffreddamento prodotto dai contatti coi lu­cignoli freddi. In conclusione la candela durerebbe di più, con luce meno intensa e regolare, ma né essa né le altre che essa ha accese produrrebbero più o meno energia calorica, luminosa, ecc., di quella che sotto altre forme era contenu­ta nei loro componenti e nell’ossigeno con cui si sono com­binati.

“Una macchina non si consuma più presto facendo un la­voro utile che muovendosi a vuoto”! Che significa questo la­voro utile? Questo dell’utilità è un concetto umano che non ha posto in meccanica razionale. Utile, o inutile o dannoso per gli uomini che sia il movimento di una macchina, essa non produce né distrugge energia, ma semplicemente la trasforma e la trasporta.

In ogni modo, se mai gli esempi citati da Hz. provassero davvero qualche cosa contro il principio della conservazio­ne dell’energia, si arriverebbe a questa strana conclusione che egli, volendo con Kropotkin estendere la legge mecca­nica anche al mondo morale e sociale, riesce a sottrarre ad essa anche il mondo materiale in cui essa appare inconte­stabile.

A me sembra che chi accetta la definizione kropotkinia­na dell’anarchia si dibatte in un insanabile illogicismo. È stato detto che ognuno è padrone delle sue premesse, cioè che ognuno può mettere a base dei suoi ragionamenti il principio che gli sembra vero, ricavandolo, secondo la sua mentalità, dall’esperienza o dalla fantasia o un po’ dall’una e un po’ dall’altra. Ma una volta affermato il principio, le conseguenze derivano necessariamente, governate dalla lo­gica che è la legge del pensiero ed è la stessa per tutti.

Quando si è affermato che “tutto quello che avviene de­ve avvenire” comprendendo in quel tutto anche ciò che l’uo­mo pensa e vuole e fa, quando si ritiene che pensiero e vo­lontà non sono che il prodotto di forze meccaniche, di urti, fatali o casuali, fra atomi materiali, non si può poi dire che l’opera umana possa in un modo qualsiasi agire sugli avve­nimenti, nemmeno affrettandone o rallentandone il corso. Quando si ammette che l’uomo non può fare diversamente da quello che fa, nessun acrobatismo logico può dare un si­gnificato reale alle parole libertà e responsabilità.

In conclusione, se si pigliasse sul serio la definizione di Kropotkin, tutti quelli che hanno dell’universo una conce­zione diversa da quella meccanica, o che non ne hanno al­cuna, come temo sia il caso dal sottoscritto, si troverebbero messi fuori dell’anarchismo: cosa che non era certo nell’intenzione di Kropotkin e non può essere in quella dei nostri compagni meccanicisti, materialisti e deterministi. E so­prattutto non conviene a noi.

Perciò, lasciando da parte l’incerta filosofia, io preferisco attenermi alle definizioni volgari, le quali ci dicono che l’Anarchia è un modo di convivenza sociale, in cui gli uomi­ni vivono da fratelli senza che nessuno possa opprimere e sfruttare gli altri e tutti abbiano a propria disposizione i mezzi che la civiltà dell’epoca può fornire per raggiungere il massimo sviluppo morale e materiale; e l’Anarchismo è il metodo per realizzare l’anarchia per mezzo della libertà, senza governo, cioè senza organi autoritari che con la forza, sia pure a fin di bene, impongano agli altri il proprio volere.

 


VIOLENZA E NON VIOLENZA

 

 

 

 

 

Anarchia e violenza[27]

 

Anarchia vuoi dire non-violenza, non-dominio dell’uo­mo sull’uomo, non-imposizione per forza della volontà di uno o di più su quella di altri. È solo mediante l’armonizzazione degli interessi, me­diante la cooperazione volontaria, con l’amore, il rispetto, la reciproca tolleranza, è solo colla persuasione, l’esempio, il contagio e il vantaggio mutuo della benevolenza che può e deve trionfare l’anarchia, cioè una società di fratelli libe­ramente solidali, che assicuri a tutti la massima libertà, il massimo sviluppo, il massimo benessere possibili.

Vi sono certamente altri uomini, altri partiti, altre scuo­le tanto sinceramente devoti al bene generale quanto pos­sono esserlo i migliori tra noi. Ma ciò che distingue gli anar­chici da tutti gli altri è appunto l’orrore della violenza, il desiderio e il proposito di eliminare la violenza, cioè la for­za materiale, dalle competenze tra gli uomini. Si potrebbe dire perciò che l’idea specifica che distingue gli anarchici è l’abolizione del gendarme, l’esclusione dai fattori sociali della regola imposta mediante la forza, bru­tale, legale o illegale che sia.

Ma allora, si potrà domandare, perché nella lotta attua­le, contro le istituzioni politico-sociali, che giudicano op­pressive, gli anarchici hanno predicato e praticato, e predi­cano e praticano, quando possono, l’uso dei mezzi violenti che pur sono in evidente contraddizione coi fini loro? E questo al punto che, in certi momenti, molti avversari in buona fede han creduto, e tutti quelli in mala fede han fin­to di credere, che il carattere specifico dell’anarchismo fos­se proprio la violenza?

La domanda può sembrare imbarazzante, ma vi si può rispondere in poche parole. Gli è che perché due vivano in pace bisogna che tutti e due vogliano la pace; ché se uno dei due si ostina a volere colla forza obbligare l’altro a la­vorare per lui e a servirlo, l’altro se vuol conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace e il buon accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi ade­guati.

L’origine prima dei mali che han travagliato e travaglia­no l’umanità, a parte s’intende quelli che dipendono dalle forze avverse della natura, è il fatto che gli uomini non han compreso che l’accordo e la cooperazione fraterna sarebbe stato il mezzo migliore per assicurare a tutti il massimo be­ne possibile, e i più forti e i più furbi han voluto sottomet­tere e sfruttare gli altri, e quando sono riusciti, a conqui­stare una posizione vantaggiosa han voluto assicurarsene e perpetuarne il possesso creando in loro difesa ogni specie di organi permanenti di coercizione.

Da ciò è venuto che tutta la storia è piena di lotte cruen­ti: prepotenze, ingiustizie, oppressioni feroci da una parte, ribellioni dall’altra. Non v’è da fare distinzioni di partiti: chiunque ha voluto emanciparsi, o tentare di emanciparsi, ha dovuto opporre la forza alla forza, le armi alle armi. Però ciascuno, mentre ha trovato necessario e giusto adoperare la forza per difendere la propria libertà, i propri interessi, la propria classe, il proprio paese, ha poi, in no­me di una morale sua speciale, condannata la violenza quando questa si rivolgeva contro di lui per la libertà, per gli interessi, per la classe, per il paese degli altri. Così quegli stessi che, per esempio qui in Italia, glorifi­cano a giusta ragione le guerre per l’indipendenza ed eri­gono marmi e bronzi in onore di Agesilao Milano, di Felice Orsini, di Guglielmo Oberdan e quelli che hanno sciolto in­ni appassionati a Sofia Perovskaja e altri martiri di paesi lontani, han poi trattati da delinquenti gli anarchici quan­do questi sono sorti a reclamare la libertà integrale e la giu­stizia uguale per tutti gli esseri umani e hanno francamen­te dichiarato che, oggi come ieri, fino a quando l’oppres­sione e il privilegio saran difesi dalla forza bruta delle baio­nette, l’insurrezione popolare, la rivolta dell’individuo e del­la massa, resta il mezzo necessario per conseguire l’eman­cipazione.

Ricordo che in occasione di un clamoroso attentato anarchico, uno che figurava allora nelle prime file del par­tito socialista e tornava fresco fresco dalla guerra turco-gre­ca, gridava forte, con l’approvazione dei suoi compagni, che la vita umana è sacra sempre e che non bisogna attentarvi nemmeno per la causa della libertà. Pare che facesse ecce­zione per la vita dei turchi e la causa dell’indipendenza greca. Illogicità, o ipocrisia?

Eppure la violenza anarchica è la sola che sia giustifica­bile, la sola che non sia criminale. Parlo naturalmente della violenza che ha davvero i carat­teri anarchici, e non di  questo o quel fatto di violenza cieca e irragionevole che è stato attribuito agli anarchici, o che magari è stato commesso da veri anarchici spinti al furore da infami persecuzioni, o accecati, per eccesso di sensibi­lità non temperato dalla ragione, dallo spettacolo delle in­giustizie sociali, dal dolore per il dolore altrui.

La vera violenza anarchica è quella che cessa dove cessa la necessità della difesa e della liberazione. Essa è tempe­rata dalla coscienza che gl’individui presi isolatamente so­no poco o punto responsabili della posizione che ha fatto loro l’eredità e l’ambiente; essa non è ispirata dall’odio ma dall’amore; ed è santa perché mira alla liberazione di tutti e non alla sostituzione del proprio dominio a quello degli altri.

Vi è stato in Italia un partito che, con fini d’alta civiltà, si è adoperato a spegnere nelle masse ogni fiducia nella vio­lenza… ed è riuscito a renderle incapaci a ogni resistenza quando è venuto il fascismo. Mi è parso che lo stesso Tura­ti ha più o meno chiaramente riconosciuto e lamentato il fatto nel suo discorso di Parigi per la commemorazione di Jaurès.

Gli anarchici non hanno ipocrisia. La forza bisogna respingerla colla forza: oggi contro le oppressioni di oggi; domani contro le oppressioni che potrebbero tentare di so­stituirsi a quelle di oggi.

Noi vogliamo la libertà per tutti, per noi e per i nostri amici come per i nostri avversari e nemici. Libertà di pen­sare e di propagare il proprio pensiero, libertà di lavorare e di organizzare la propria vita nel modo che piace; non li­bertà, s’intende – e si prega i comunisti di non equivocare – non libertà di sopprimere la libertà e di sfruttare il lavoro degli altri.

 

 

 

Cristiano?[28]

 

Nel numero del 10 aprile di Iconoclasta (che io non ho ricevuto e leggo solo grazie alla cortesia di un amico) il compagno Virgilio Gozzoli, ripigliando una vecchia pole­mica intorno all’odio e al terrore rivoluzionario mi tratta da “comunista cristiano”. E io non so se debbo considerare l’inaspettata qualifica come un elogio immeritato, o come una gratuita ingiuria.

A parte la credenza religiosa, che non penso mi si voglia attribuire, e considerando il cristianesimo quale ispiratore di sentimenti etici e regola di condotta pratica, molti e vari sono i modi d’intendere la qualità dì cristiano. Io conosco nella storia passata e nella vita contemporanea tanti animi nobili e dolci che si dicono cristiani, come so di fieri ribel­li che sotto il labaro del Cristo combatterono per la libertà e la giustizia. Ma so pure che si dissero cristiani Simone di Monforte, Ignazio di Lojola, Torquemada Lutero, Calvino; come cristiani si dicono la più gran parte dei moderni op­pressori e mi domando se, riferendomi a costoro e a tutte le persecuzioni e le stragi perpetrate in nome di Cristo, non potrei a mia volta e con maggior ragione dar del cristiano ai truci predicatori di odio, vendetta e terrore. Ma perché richiamarsi a Cristo e alla storia dei suoi set­tatori, quando sarebbe così semplice, e ben più sicuro, il giudicare le idee e i propositi di un uomo da quello che egli stesso dice e fa? Almeno quando si tratta di uno che dice chiaramente quello che pensa e ha sempre agito in confor­mità di quello che dice!

Io penso, e l’ho ripetuto mille volte, che il non resistere al male “attivamente” cioè in tutti i modi possibili e ade­guati, in teoria è assurdo, perché in contraddizione collo scopo d’evitare e distruggere il male, e in pratica è immo­rale perché rinnega la solidarietà umana e il dovere che ne consegue di difendere i deboli e gli oppressi. Io penso che un regime nato dalla violenza e che con la violenza si so­stiene non può essere abbattuto che da una violenza cor­rispondente e proporzionata, e che perciò è sciocchez­za o inganno il fidare nella legalità che gli oppressori stessi foggiano a loro difesa. Ma penso che per noi che mi­riamo alla pace fra gli uomini, alla giustizia e alla libertà di tutti, la violenza è una dura necessità che deve cessare, a liberazione conseguita, là dove cessa la necessità della di­fesa e della sicurezza, sotto pena di diventare un delitto contro l’umanità e di menare a nuove oppressione e a nuo­ve ingiustizie. Comprendo gli scoppi irrefrenabili della ven­detta popolare e la loro funzione storica; ma non dobbia­mo, noi, incoraggiare i sentimenti cattivi che l’oppressione suscita nell’animo degli oppressi. Pur lasciando che il tor­rente straripi e spazzi via il triste passato, noi dobbiamo sforzarci di conservare alla lotta il carattere di lotta per l’in­tera redenzione umana, ispirandoci sempre all’amore per gli uomini, per tutti gli uomini, e respingendo dall’animo nostro e per quanto è possibile da quello degli altri, i torbi­di propositi che la tirannia ispira e il desiderio di vendetta alimenta.

 

 

 

 

 



[1] ­In Risveglio, Ginevra, 1° ottobre 1927.

[2] ­In Risveglio, Ginevra, 1° ottobre 1927.

[3] In Umanità Nova, anno II, n° 190, Roma, 24 novembre 1921.

[4] In Pensiero e Volontà, anno II, n° 12, Roma, l° ottobre 1925.

[5] In Pensiero e Volontà, anno III, n° 7, Roma, 6 maggio 1926.

[6] In Umanità Nova, anno III, n° 82, Roma, 6 aprile 1922.

[7] In Umanità Nova, anno II, n° 187, Roma, 20 Novembre1921.

[8] In Pensiero e Volontà, anno I, 9, Roma, 1° maggio 1924.

 

[9] Da una lettera a Luigi Fabbri, Londra 1919, poi in Volontà, Ancona, 16 agosto 1919.

[10] In Umanità Nova, anno I, n° 136, Roma, 15 agosto 1920.

[11] In Pensiero e Volontà, anno I, n° 3, Roma, febbraio 1924.

[12] In Umanità Nova, anno II, n° 197, Roma, 4 dicembre 1921.

 

[13] In Pensiero e Volontà, anno I, n° 6, Roma. 15 marzo 1924.

[14] In Umanità Nova, anno I, n° 168, Milano, 11 settembre 1920.

 

[15] In Umanità Nova, anno III, n° 62, Roma, 14 marzo 1922.

 

[16] In Umanità Nova, anno III, n° 196, Roma, 2 dicembre 1922.

 

[17] In Umanità Nova, anno III, n° 195, Roma, 25 novembre 1922.

 

[18] In Libero Accordo, 78, Roma, 28 agosto 1923.

 

[19] In Pensiero e Volontà, anno I, n° 5, Roma 10 marzo 1924.

[20] In Umanità Nova, anno III, n° 191, Roma, 7 ottobre 1922.

[21]In Pensiero e Vo1ontà, anno I, n° 19, Roma 10 ottobre 1924.

 

[22] In Pensiero e Volontà, anno II, n° 8, Roma 10 luglio 1925.

 

[23] In Pensiero e Volontà, anno I, n° 21, Roma, 10 novembre 1924.

 

[24] In Pensiero e Volontà, anno I, n° 18, Roma, 15 settembre 1924.

[25] In Pensiero e Volontà, anno III, n° 2, Roma, 1° febbraio 1926.

 

[26] In Pensiero e Volontà, anno II, n° 10, Roma, l° settembre 1925.

 

[27] In Pensiero e Volontà, anno II, n° 17, Roma, 1 settembre 1924.

 

[28] In Pensiero e Volontà, anno III, n° 6, Roma, 16 aprile 1925.