Liberali,
liberisti, "libertari" Le truppe pannellate. Un corpo mercenario al servizio della destra
sociale
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una fioritura di aree politiche
libertarie di cui non si danno, a quanto ne so, precedenti. Naturalmente, noi non possiamo né vogliamo pretendere alcun monopolio
dell'utilizzo del termine "libertario" e sarebbe una fatica
inutile porre l'accento sull'appropriazione indebita della parola in
questione da parte di individui e forze politiche che tutto sono tranne
che libertari. Può, invece, valere la pena di provare a definire le
ragioni che hanno determinato questo successo e su di alcune sue
possibili conseguenze politiche. A livello generale, il crollo del blocco a capitalismo di stato ha
indubbiamente eliminato dalla scena un mito politico e sociale, che,
sebbene ridimensionato già nei decenni precedenti ci ha accompagnato
sino alla fine degli anni `80. Parallelamente alla fine del socialismo di stato abbiamo visto entrare
in crisi il compromesso socialdemocratico che aveva caratterizzato le
democrazie occidentali nel secondo dopoguerra. Questo compromesso,
basato sull'espansione dell'intervento statale nell'economia,
sull'integrazione del movimento operaio nello stato e sul riconoscimento
di una serie di diritto sociali minimi è parso sempre più costoso,
insostenibile dal punto di vista capitalistico, inutile ai fini che si
proponeva. Noi non siamo, ovviamente, nostalgici né del capitalismo di stato né
del compromesso socialdemocratico e, a maggior ragione, non possiamo
essere annoverati nel numero degli apologeti del capitalismo di mercato
e delle politiche neoliberiste che hanno occupato lo spazio lasciato
libero dai protagonisti usciti di scena. Al contrario, non cessiamo di insistere sulla considerazione che la
burocratizzazione e statalizzazione del movimento operaio, la passività
politica delle classi subalterne determinate dalla politica
parlamentare, l'abitudine alla delega agli apparati che si è
consolidata in una vera e propria mentalità sono condizioni
straordinariamente favorevoli all'affermarsi del neoliberismo. Un proletariato che esprime livelli di autonomia politica, sociale e
sindacale inadeguati allo scontro sociale in atto è, infatti, disarmato
di fronte a politiche statali e padronali di attacco ad una serie di
conquiste e diritti la cui difesa era ed è delegata all'apparato
statale ed alla burocrazia del movimento operaio. Un aspetto centrale della nostra azione pratica e della nostra
riflessione teorica consiste, di conseguenza, nella lettura, la più
precisa possibile, delle modalità immediate del conflitto di classe,
nella partecipazione alle forme di organizzazione che da questo
conflitto sortiscono, in uno sforzo continuo di coordinamento delle
lotte locali, settoriali, e categoriali, nella ridefinizione dei
caratteri adeguati alla fase storica che attraversiamo di una
prospettiva di riorganizzazione delle classi subalterne sulla base
dell'autonomia dallo stato e dal padronato. La valutazione dell'iniziativa politica, economica e culturale dei
nostri nemici è parte costitutiva di questo lavoro e su questo aspetto
è bene non abbassare la guardia anche perché carattere peculiare del
modo di produzione capitalistico è l'assumere alcune rivendicazione e
tensioni alla liberazione delle classi subalterne per rovesciarle di
segno e renderle funzionali alla propria riproduzione. Torniamo, dunque, alla crisi del compromesso socialdemocratico. Uno
degli aspetti di questa crisi è l'aggravarsi delle tensioni derivanti
dalla burocratizzazione della vita quotidiana e della produzione che
questo modello sociale implica. La grande fabbrica fordista appare, alla fine degli anni `60, fragile a
fronte della ripresa delle lotte operaie, i grandi apparati burocratici
addetti al controllo della vita quotidiana delle classi subalterni ed
alla riproduzione della forza lavoro vengono attraversati da tensioni
nuove rispetto alle tradizionali forme del conflitto di classe. Basta pensare ai movimenti degli studenti, alla critica della medicina
tradizionale, alla domanda di forme di attività più libera rispetto a
quelle tradizionali, per un verso, ed alle lotte operaie autonome dal
controllo sindacale ed alla loro capacità di estendersi e di
coinvolgere impiegati, tecnici, lavoratori del settore pubblico. A questa pressione il padronato e gli stati reagiscono con la
repressione, per un verso, e con nuove strategie produttive e sociali,
per l'altro. Innovazione tecnologica, tentativi di coinvolgere i lavoratori negli
interessi aziendali mediante la riorganizzazione del lavoro, il
coinvolgimento nella proprietà, forme più moderne di disciplina,
esternalizzazione di segmenti della produzione verso imprese di
dimensione più piccola sempre più diffuse sul territorio nazionale ed
internazionale, spostamento di intere aree produttive vengono messe in
atto. Non ci troviamo di fronte ad una strategia unitaria di un capitale
mondiale (che, in quanto tale, non esiste) ma ad una moltitudine di
adattamenti che a volte hanno successo ed altre falliscono, alla ricerca
di soluzioni parziali che, in caso di successo vengono riprese da altre
imprese, ad una mutazione molecolare del corpo sociale che vede
l'intrecciarsi di innovazione e recupero di strutture sociali arcaiche
in forme inedite. Basta pensare, per quel che riguarda gli USA, allo spostamento di interi
settori produttivi dalla tradizionale area industriale del nord est al
sud ovest ed all'utilizzo dei lavoratori messicani immigrati o a quelli
delle zone di investimento statunitensi nello stesso Messico al fine di
tagliare i salari o, per quel che riguarda l'Italia, alla crescita della
fabbrica diffusa, allo sviluppo della terza Italia dalle Marche al
Veneto caratterizzata da piccole e piccolissime aziende, da un
capitalismo familiare, dal peso di reti di relazioni parentali e di
paese come collante sociale (il padrone che lavora in fabbrica con i
parenti e che sfrutta se stesso e operai legati a lui da vincoli
locali). Questo processo può funzionare proprio perché il suo lato arcaico si
intreccia con quello moderno consistente nell'utilizzo delle tecnologie
informatiche al fine di coordinare la produzione diffusa e fare di ogni
unità produttiva un reparto coordinato agli altri. Si tratta di una mutazione sociale, la cui descrizione richiederebbe
volumi, e che determina la crescita di nuovi soggetti sociali di almeno
due dei quali si deve tenere conto: - una piccola imprenditoria diffusa che, pervenuta ad una consistenza
adeguata, matura consapevolezza di sé come gruppo sociale ed entra in,
problematica, contraddizione con le oligarchie industriali, finanziarie,
politiche e burocratiche tradizionali. Il piccolo imprenditore della
fabbrica diffusa si sente vessato dalla grande industria protetta dallo
stato, dal capitale finanziario che lo strozza, dall'apparato statale
che lo controlla, dai sindacati che pongono qualche, modesto limite, al
suo dispotismo, da una legislazione del lavoro che ne blocca la libertà
di movimento. Egli chiede, di conseguenza, una forma affatto particolare
di libertà: - una working class del lavoro diffuso, difficilmente organizzabile dal
punto di vista sindacale, legata in maniera diretta alle sorti
dell'azienda, esclusa dalle tradizionali garanzie sociali, sottoposta a
forme di sfruttamento sempre più dure, esposta agli effetti della
concorrenza e delle crisi in maniera maggiore rispetto ai lavoratori del
settore pubblico e della grande azienda. Fra questi due segmenti sociali sembra esservi una sorta di comunanza di
interessi da più di un punto di vista. Non solo il rapporto fra
proprietario e salariato è diretto ma vi è una comune ostilità verso
la grande impresa che preme su quella piccola, le taglia i prezzi, le
impone condizioni di lavoro sempre più dure, verso le banche che
strangolano il piccolo imprenditore, verso l'apparato statale che
sottopone la piccola impresa a continue vessazioni in cambio di poco o
nulla nel mentre finanzia i grandi gruppi industriali, verso le tasse
che tagliano i salari. Se, poi, consideriamo che in Italia questo segmento sociale
relativamente nuovo si affianca alla tradizionale piccola borghesia del
commercio, dell'artigianato, dell'agricoltura ecc., scopriamo che è un
mondo vasto e variegato e che inizia a muoversi collettivamente in
proprio. Dall'alto, dunque, assistiamo ad un'iniziativa del grande padronato per
smantellare il welfare e per appropriarsi di quote crescenti di
ricchezza sociale, dal basso ad una pressione della piccola e
piccolissima impresa che chiede meno vincoli e più garanzie. A questa
doppia dinamica, le burocrazie del movimento operaio rispondono
adattandosi e scoprendo un crescente ruolo imprenditoriale che consiste
nella gestione di fondi pensioni, di segmenti di servizi fino ad
arrivare alla costituzione di aziende, di norma cooperative, che si
inseriscono nel processo di esternalizzazione di produzioni e,
soprattutto, di servizi pubblici ad opera dell'apparato statale al quale
si è già fatto cenno. Se teniamo conto di questo processo, ci appare chiaro quale sua la
natura dei discorsi libertari oggi di moda. Proviamo a schematizzarli: - i "libertari" sono antistatalisti nel senso che chiedono
meno tasse e minori controlli sull'attività produttiva. Non chiedono
affatto, però, che lo stato riduca la sua funzione di protezione della
proprietà privata e di finanziamento all'impresa. Al contrario, proprio
l'indebolimento dei meccanismi tradizionali di integrazione sociale
delle classi subalterne, li induce a chiedere più polizia, più
carceri, leggi più severe; - i "libertari" attaccano la burocrazia sindacale ed il suo
strapotere proprio mentre i sindacati di stato cedono sul terreno dei
salari e dei diritti dei lavoratori tutto quanto è cedibile. finiscono,
in realtà, per fornire a questa stessa burocrazia argomenti per
giustificare nuovi cedimenti e per accelerare la propria trasformazione
in una struttura di impresa, - alcune, pochi, dei "libertari" sono schierati per la difesa
di qualche libertà quale quella di assumere droghe o di avere pratiche
sessuali non tradizionali, ammesso che esistano pratiche sessuali
tradizionali. d'altro canto sono alleati con forze politiche e sociali
che su questo terreno non li seguiranno certo, Basta pensare al fatto
che si tratta di postfascisti e cattolici tradizionalisti ai quali i
voti dei "libertari" fanno comodo ma che non sono disposti a
perdere quelli della destra sociale tradizionale per amore degli
omosessuali o dei tossicodipendenti. Basta fare la fatica di guardare il neoliberismo realmente esistente, il
suo rilanciare un moralismo vecchio stile, la sua pressione per misure
repressive più efficaci per rendersi conto che il guitto disgustoso
Pannella suona il piffero per una destra reazionaria ed illiberale
rispetto alla quale si pone come concorrente per la direzione della
destra e non come portatore di una proposta politica e sociale diversa. Tornando a quanto ci interessa di più, lo svilupparsi di un'area
politica e culturale liberale, liberista, libertaria è un segnale della
crisi del legame sociale e della conseguente aggressività delle classi
dominanti e del disagio di settori sia delle classi medie che della
working class di fronte ad una situazione di tensione. Nei fatti le truppe pannellate svolgono il ruolo di corpo mercenario al
servizio della destra sociale ma resta il fatto che le tensioni che oggi
si rappresentano sotto l'egemonia neoliberista possono, non debbono,
trovare sbocchi diversi. Un movimento dei lavoratori effettivamente libero dal controllo statale,
portatore di un'idea forte di autonomia sociale e di pratiche concrete
adeguate, capace di penetrare nell'area deregolamentata del lavoro
creando forme di associazione adeguate è una prospettiva sulla quale
dobbiamo lavorare con forza e determinazione. Si tratta, in forme da
scoprire di operare per l'unità dei salariati e dei lavoratori autonomi
eterodiretti e per la scissione fra la nostra classe e tutte le frazioni
di quella dominante.
Guido Giovanetti
Liberali
e anarchici
Ho letto con grande interesse l’articolo di Pietro Adamo
"Mercato, proprietà, anarchia" pubblicato sul numero 253 di A
Rivista Anarchica. Per un verso ne ho apprezzato la chiarezza, il
rigore, l’interna coerenza, per l’altro mi è parso che le tesi che
Pietro Adamo sostiene siano meritevoli di critiche diverse da quelle che
lui stesso segnala. Cercherò, di conseguenza, di sollevare alcune questioni che ritengo di
un qualche interesse. In primo luogo, è vero che non è condivisibile la riduzione della
tradizione liberale all’attuale neoliberismo sia perché il
liberalesimo è una corrente di pensiero e di azione ben più complessa
di quello che pretendono sia la destra neoliberista che i suoi critici
democratici e welfaristi che perché di norma i neoliberisti realmente
esistenti sono decisamente illiberali su questioni decisamente rilevanti
come il mantenimento dell’ordine, la struttura della spesa pubblica,
il nazionalismo, la salvaguardia dei valori culturali tradizionali, la
difesa dei monopoli ecc.. D’altro canto è un fatto che oggi, per citare un liberale alquanto
noto, si può dire che, nelle democrazie dell’occidente, siamo tutti
liberali, almeno nel senso che tutte le forze politiche istituzionali
accettano le regole della democrazia parlamentare, non ci sono nemici ma
avversari, nessuno pretende di poter costruire una società perfetta,
nessuno ipotizza che l’ordine produttivo e sociale dominante sia
trascendibile. Liberali sono, in questo senso, Fini e Bertinotti, Marini
e D’Alema, Berlusconi e Prodi e lo stesso modo di intendere la lotta
politica caratterizza, da decenni, gli altri paesi sviluppati. Da questo
punto di vista si può dire che l’Italia sia pervenuta ad una compiuta
civiltà liberale alquanto in ritardo a causa del peso della chiesa
cattolica e del partito comunista, forze che sono divenute liberali con
qualche fatica e, come dire, contro voglia. Se, quindi, accettiamo la tesi che il liberalesimo storicamente
esistente non è il neoliberismo, possiamo seguire senza pregiudizi la
linea di pensiero proposta da Pietro Adamo, linea di pensiero
intellettualmente stimolante e, per certi versi, suggestiva. L’ethos liberale è, come ci ricorda Pietro Adamo, "la lotta
condotta nel corso dell’età moderna e contemporanea contro le nozioni
di assolutismo, autocrazia, gerarchia, privilegio in nome degli ideali
collegati alla libertà individuale e ai diritti umani". Lo stesso Pietro Adamo sembra riconoscere sia pur con prudenza che
questa lotta ha coinvolto, in prima istanza, la borghesia nella sua fase
ascendente e, direi io, i gruppi borghesi più colti ed avanzati. Egli ci ricorda anche che "nel travaglio della modernizzazione i
gruppi subalterni si sono spesso impadroniti delle parole d’ordine
delle libertà "liberali" riplasmandole secondo fini ed
esigenze proprie. In molti momenti (rivoluzionari o meno) si colgono
slittamenti di discorso che puntano ad allargare la sfera della libertà,
universalizzandone i fondamenti ispiratori e applicandoli ad ogni ambito
dell’azione umana". Ritengo che sarebbe opportuno ragionare sull’attività che Pietro
Adamo definisce "riplasmare". I gruppi sociali subalterni, nel loro rapporto con la modernità, che io
ritengo si possa definire, senza troppe difficoltà modo di produzione
capitalistico, hanno sin dall’inizio colto, in maniera più o meno
chiara, alcuni caratteri contraddittori del discorso liberale e, in
particolare, la sua interna logica oligarchica e il fatto che nel
concreto processo di lavoro si determina un dispotismo per molti versi
più forte di quello che caratterizzava la società di ordini. Lo scontro fra democratici e liberali si è collocato sul primo versante
della contraddizione, quello fra movimento operaio e classi proprietarie
sul secondo con tutti gli intrecci che ci sono noti. La graduale estensione all’assieme della popolazione dei diritti
politici elementari (estensione alla quale le élites liberali
tradizionali si sono opposte con forza e determinazione e che hanno
sovente accettato obtorto collo) ha prodotto quella particolare sintesi
fra liberalesimo e democrazia che oggi conosciamo e che viene definito
liberaldemocrazia. Della complessità di questa trasformazione sono, per motivi familiari,
testimone diretto dato che l’ho vista agire nei convincimenti politici
di mio padre che, con difficoltà enormi e solo negli ultimi anni della
sua vita, è pervenuto a riconoscere che l’estensione alle masse
subalterne del diritto di voto non era incompatibile con l’idea
liberale di società nella quale era stato formato. Non posso che condividere la tesi di Pietro Adamo che vede nella
tradizione democratica delle possibili derive illiberali, derive che
sorgono sia dalla tensione ad un’eguaglianza che nega le differenze
fra gli individui concreti ed anzi le guarda con sospetto che
dall’intreccio fra democrazia e burocrazia (partito e sindacato di
massa, intervento statale nell’economia ecc.) ma ritengo che la
dialettica alla quale allude sia tra burocratizzazione del mondo e
difesa dei privilegi di censo, dialettica che non può essere assunta
come l’unica possibile e che, anzi, va relativizzata e superata in una
prospettiva diversa rispetto a quella dominante. In realtà, infatti, le élites liberalconservatrici hanno compreso,
spesso con sollievo e sorpresa, che la democratizzazione delle società
occidentali poteva essere governata ed influenzata attraverso meccanismi
istituzionali che ne hanno garantito la sopravvivenza ed il ruolo
egemonico grazie all’integrazione nel quadro sociale tradizionale
delle élites di derivazione democratica (burocrazie partitiche e
sindacali, apparati statali, ceto politico) che hanno, comunque, un
ruolo subalterno rispetto ai potentati economici che controllano la
proprietà. Direi, anzi, che lo svilupparsi di un ampio strato di quadri aziendali,
funzionari statali, professionisti legati alla spesa pubblica ecc. è
stato un fattore essenziale per la stabilità del potere delle classi
dominanti ed ha determinato la sopravvivenza di quel ceto medio che è
necessario alla coesione sociale visto che si pone come collante fra le
classi subalterne e quelle dominanti in maniera diversa ma analoga
rispetto allo strato dei tradizionali piccoli proprietari indipendenti
che l’evolvere stesso dell’economia capitalistica tende a
ridimensionare per consistenza numerica e ruolo sociale. Nel rapporto fra lavoratori salariati e capitale si colloca l’altro
aspetto contraddittorio del discorso liberale. L’impresa realmente
esistente, infatti, funziona, in forme diverse, secondo criteri
necessariamente dispotici per quel che riguarda l’organizzazione del
lavoro, l’esercizio del potere, la stessa definizione del mercato. Il movimento operaio, nel suo assieme, nasce per porre un limite a
questo dispotismo e per tutelare i diritti che lo stesso discorso
dominante sembrava riconoscere nel mentre li negava nei fatti. Non è casuale che dei liberali tradizionali, basta pensare a Giolitti
ed Einaudi, abbiano riconosciuto apertamente la necessità per il
corretto funzionamento dello stesso modo capitalistico di produzione di
una dialettica relativamente libera fra capitale e lavoro e, di
conseguenza, della libertà di organizzazione sindacale, di sciopero
ecc.. Nel movimento operaio, sin dal suo sorgere, operano diverse correnti
politiche e culturali. Non è, in questa sede, il caso di riproporre la
nota discussione fra correnti stataliste e quelle antistataliste e la
complessità e ricchezza delle proposte anarchiche. Mi basta ricordare
che la componente antiautoritaria ha fortemente posto l’accento sulla
capacità politica delle classi subalterne, sulla necessità di forme
associative autonome dallo stato e dal padronato, sul rifiuto
dell’inquadramento nell’apparato statale dell’azione delle classi
subalterne. Non è, dunque, scandaloso, anzi, riconoscere che l’anarchismo sociale
si è sempre riconosciuto nelle virtù borghesi (intraprendenza,
autonomia, capacità progettuale) in opposizione ai meccanismi di delega
ad un apparato centrale che caratterizzavano le componenti democratiche
dello stesso movimento operaio. D’altro canto l’autonomia delle classi subalterne era, ed è,
valorizzata nella prospettiva del comunismo libertario proprio a partire
da una valutazione precisa dei caratteri storicamente esistenti della
proprietà privata. In estrema sintesi, secondo i liberali, la proprietà è il presidio
della libertà individuale e collettiva contro il dispotismo statale
mentre gli anarchici colgono il fatto che questo presidio è
necessariamente presidiato dallo stato che ne garantisce il godimento
alle classi dominanti e ne esclude quelle subalterne e, su questo
terreno, rompono in maniera radicale con il liberalesimo. Pietro Adamo, d’altro canto, ci ricorda una serie di riflessioni, per
la verità non significativamente sviluppate, che alcuni compagni, in
epoche diverse, hanno fatto sul tema della proprietà e pone queste
riflessioni in relazione all’affermarsi fra le due guerre mondiali di
differenti regimi totalitari. Si tratta, con ogni evidenza, di un tema di straordinario interesse e
che meriterebbe una trattazione a parte. Mi limiterò ad alcune
riflessioni, necessariamente schematiche, nel merito. In primo luogo, si può sostenere che il comunismo storico novecentesco
è uno svolgimento possibile della tradizione democratica mentre non
altrettanto si può dire del fascismo al quale vanno riconosciute radici
autonome nella tradizione controrivoluzionaria ed organicista del XIX
secolo, per un verso, ed in correnti irrazionaliste ed elitarie
affermatesi fra XIX e XX secolo, per l’altro. Questo per restare nel
campo della storia delle idee. Dal punto di vista della storia delle relazioni sociali, invece, mi
sembra opinabile il presentare le diverse correnti di pensiero come se
fossero linee ferroviarie che corrono l’una accanto all’altra e non
come il problematico e mutevole prodotto dei conflitti politici, sociali
e culturali che hanno attraversato il secolo. Il totalitarismo novecentesco, infatti, non sorge come mera espansione
degli ideali democratici, per un verso e di quelli controrivoluzionari
per l’altro ma è il prodotto delle vicende che attraversano il
continente europeo, e non solo, a partire dalla prima guerra mondiale.
Le contraddizioni, le sofferenze sociali, gli sconvolgimenti che portano
all’affermarsi del bolscevismo prima e del fascismo poi sono prodotti
delle tensioni interne alla società liberale, tensioni che nella guerra
trovano piena evidenziazione. I totalitarismi politici, insomma, si affermano come risposta
autoritaria e regressiva alla distruzione di uomini, di mezzi di
produzione, di relazioni sociali consolidate che il capitalismo liberale
produce, per un verso, ed al fallimento della rivoluzione sociale, per
l’altro. La tesi che non vi è inimicizia radicale fra liberalesimo storicamente
esistente e totalitarismo novecentesco può apparire scandalosa ad un
liberale ortodosso ma trova un’ulteriore conferma negli ottimi
rapporti che i gruppi dirigenti liberali hanno saputo intrattenere sia
con i regimi fascisti che con quelli comunisti ogni volta che è stato
necessario e nella disponibilità delle élite liberali ad usare mezzi
autoritari per mantenere il proprio potere sia sul territorio
metropolitano che, più apertamente, nelle colonie e, in genere, nelle
periferie della loro sfera di dominio. Pietro Adamo potrà far rilevare che una cosa è il liberalesimo
storicamente esistente ed altro l’éthos liberale al quale fa
riferimento ma ritengo che, da liberale quale è, mi lascerà la libertà
di ritenere il liberalesimo storico e le sue contraddizioni interne più
rilevanti del pensiero liberale, come dire, preso nella sua purezza. Vorrei, infine, far rilevare due problemi che ritengo di un qualche
interesse. In primo luogo lo schema che Pietro Adamo propone mi sembra
eccessivamente lineare. Vi sarebbe un primo liberalesimo, quello
oligarchico, al quale seguirebbe una ripresa in senso antioligarchico
del liberalesimo stesso da parte di settori delle classi subalterne in
opposizione al totalitarismo. Restano fuori da questo percorso le immense masse umane che non hanno
goduto e non godono della problematica partecipazione a questo processo.
L’escluderle dal campo della riflessione sociale e politica porta
all’assunzione di una prospettiva occidentalista che implica il
dotarsi di garanzie contro l’irruzione dei barbari illiberali nelle
cittadelle dell’occidente. Non solo la proprietà diviene un presidio
presidiato ma lo è lo stesso territorio ove ha spazio la proprietà e
quello stato che si voleva indebolire riappare con tutta la sua potenza
distruttiva e normativa. In secondo luogo, quando, alla fine del suo saggio, Pietro Adamo
abbandona la storia delle idee e tenta una rapida irruzione in quella
dei concreti aggregati sociali e oppone i piccoli imprenditori operosi
ai salariati oziosi e garantiti rischia di passare dalla posizione
liberale a quella neoliberista ricomponendo una coppia concettuale che
aveva, in origine, cercato di scindere. La polemica contro le eccessive
garanzie che caratterizzerebbero la condizione dei salariati, infatti,
è proprio il somaro da battaglia dei vari D’Alema e Berlusconi e
sarebbe bene lasciarne loro il monopolio per motivi che non ho, in
questa sede, lo spazio di sviluppare. Su un solo punto lo inviterei a riflettere: gran parte degli attuali
lavoratori autonomi presenti sul mercato del lavoro italiano sono
definiti dalla stessa letteratura che se ne occupa come parasubordinati
visto che la loro attività è solo formalmente indipendente e sono, con
ogni evidenza, collocati in una posizione sociale e giuridica peggiore
di quella dei salariati tradizionali. Il problema che si pone agli
avversari dell’ordine esistente è, in questo caso, come ricomporre
un’unità di azione fra i diversi segmenti della working class al di là
delle singole collocazioni giuridiche. Il piccolo imprenditore che
occupa dei salariati è di norma, invece, più affine al capo reparto di
un segmento della produzione esternalizzato dalla grande impresa che al
soggetto creativo che ci viene proposto e le condizioni di vita e di
lavoro nella microimpresa sono in troppi casi riconducibili alle origini
del capitalismo. Sarebbe di conseguenza, opportuna, una lettura meno affrettata di
quest’ordine di questioni.
Cosimo Scarinzi (Torino)
Il
peso del comunismo
Ho letto
con interesse, sul numero 259 di "A Rivista Anarchica", la
lettera di Cristiano Valente sulla libera sperimentazione e la risposta
di Pietro Adamo. Condivido gran parte di quanto sostiene Valente e, di conseguenza, non
ritengo opportuno tornare sulle sue considerazioni in questa sede. La
risposta di Pietro Adamo, forse anche perché caratterizzata
dall'esigenza di essere concisa, mi sembra decisamente singolare. Cercherò, di conseguenza, di far rilevare alcune questioni che mi
sembrano meritevoli di approfondimento. In primo luogo è evidente che il termine "comunismo", anche
se accompagnato dall'aggettivo "libertario", è caratterizzato
dal peso della vicenda del blocco orientale e dei partiti comunisti
storicamente esistiti ed esistenti. Io per primo, pur ritenendomi
comunista, sono consapevole di quanto sia faticoso e, a volte, inutile
stare a spiegare la differenza fra ciò che il senso comune chiama
comunismo e il comunismo come progetto di radicale emancipazione
sociale. Un mio conoscente ha affermato una volta che la parola
"comunismo" è sputtanata per i secoli futuri e proponeva di
sostituirlo con la circonlocuzione "autogoverno dei produttori
associati". Per parte mia, non avrei problemi a chiamare il
comunismo libertario "Pier Ferdinando" se questa nuova
definizione ci facesse fare un solo passo avanti ma ritengo che il
modificare la parola non risolva nulla e che la questione sia di altro
tipo e riguardi quello che si ritiene caratterizzi un programma di
emancipazione sociale radicale. Detto ciò, mi sembra evidente che, almeno quando di questi argomenti si
occupa un compagno della preparazione di Pietro Adamo, non ci si
aspetterebbe una liquidazione del problema quale quella che possiamo
leggere nelle ultime righe della sua lettera. Quando, infatti egli
afferma: "anarco-comunisti e anarco-capitalisti appaiono
condividere in fondo la stessa prospettiva gnostico-millennaristica: per
entrambi il regno della libertà finale - comunista o capitalista che
sia - non è mai comparso nel regno della storia; è, nella sua
perfezione assoluta, sempre di là a venire" compie un operazione
intellettuale decisamente interessante. In primo luogo pone sullo stesso piano la tradizione classista e
rivoluzionaria dell'anarchismo con correnti liberiste radicali di
derivazione statunitense (per evitare equivoci, se fossero di
derivazione bengalese non le riterrei più condivisibili) che sono
estranee, sino a prova contraria, alla teoria, alla pratica, alla
cultura anarchica. Adamo potrà sostenere che non vi è chi ha il
diritto di escludere dalla nostra variopinta famiglia nessuno ed io non
posso che essere d'accordo con lui ma ritengo che chi difende la
proprietà privata, il lavoro salariato ecc. sia appartenente ad un
altra corrente di pensiero per propria scelta e, di conseguenza, si sia
escluso, ammesso che se ne curi, da sé. In realtà, le mie limitate
letture della letteratura anarco-capitalista mi confermano nell'idea che
i suoi esponenti di tutto si curino fuorché dell'anarchismo. A questo
proposito, infine, vorrei porre una domanda: gli anarco-capitalisti sono
capitalisti anarchici o anarchici (si fa per dire) ansiosi di diventare
capitalisti? Nel primo caso potremmo chiedere loro un cospicuo
finanziamento al movimento, nel secondo fare loro i migliori auguri e
lasciarli andare per la loro strada. In secondo luogo, attribuisce ai comunisti anarchici una prospettiva
religiosa che non mi risulta avere alcuno spazio nella tradizione
anarchica se si escludono alcune sfumature della propaganda elementare e
nelle canzoni di un secolo addietro (sfumature peraltro suggestive e,
perché nasconderlo?, sovente commoventi nella loro semplicità). Basta
leggere le opere di Fabbri e Malatesta, autori che Adamo mostra di
conoscere ed apprezzare, per tranquillizzarsi nel merito. Il comunismo
anarchico è proposto come un programma razionalmente condivisibile e
storicamente realizzabile e non come l'età dell'oro. Questo programma
si può condividere o meno ma certo non prevede alcun atto di fede né
alcun percorso settario. Infine Adamo fa una scoperta che trovo conturbante: il comunismo
libertario non si è mai realizzato. Un argomento del genere è notevole
per non dire bizzarro. Infatti se il comunismo libertario si fosse
realizzato non sarebbe un programma ma una realtà sociale e noi non ci
proporremmo di agire per favorirne la realizzazione ma, casomai, per
viverlo al meglio. Se, insomma, la rivoluzione sociale si fosse compiuta
non vi sarebbero, almeno nel senso attuale, dei rivoluzionari e
ragioneremmo d'altro. A proposito del comunismo libertario Adamo propone una confutazione
precisa: "le sue imperfezioni nel mondo reale sono sempre
spiegabili con le contingenze storiche; le realizzazioni storiche -
l'unico metro di giudizio concreto a disposizione di uomini mediamente
razionali - sono sempre contaminate e mai eleggibili a modello di
raffronto e valutazione". In poche e secche parole Adamo colloca i comunisti anarchici al di fuori
dell'ambiente degli uomini mediamente razionali e li arruola (ci
arruola) nel campo degli gnostici millennaristi. Ora, il fatto che dovrebbe essere mediamente noto anche ad uomini
razionali quale è Adamo è che, nel corso del secolo che volge alla
fine, le rivoluzioni proletarie storicamente esistenti sono state
schiacciate nel sangue e che le loro realizzazioni storiche (se non
vogliamo chiamarle comunismo chiamiamole autogoverno dei produttori
associati) che pure non sono mancate non hanno potuto essere sottoposte
a verifica approfondita per il semplice motivo che hanno avuto poco
spazio e tempo per svilupparsi. Non voglio essere polemico ma ritengo
che, nonostante le "contingenze storiche" (se Adamo vuole
chiamare così, per fare un esempio, l'Armata Bianca e quella Rossa in
Russia, i franchisti e gli staliniani in Spagna ecc.) qualche
realizzazione positiva non sia mancata. Si può trarre da queste vicende la conclusione che la rivoluzione
sociale non è possibile e sarebbe un tesi razionale ma non mi sembra
simpatico collocare fuori dalla razionalità ogni teoria della
rivoluzione sociale. A mio parere, il punto è, se assumiamo come possibile e desiderabile un
superamento dell'attuale società, preciso e cercherò di riassumerlo
nei limiti delle mie limitate capacità. L'abolizione dello stato e della proprietà e la conseguente negazione
di ogni gerarchia sociale implica, per molti compagni, la proprietà
collettiva dei mezzi di produzione. Le forme di organizzazione della
vita associata in una società di questo genere non possono essere
definite a priori per la contraddzione che nol consente visto che
l'autogestione non può che prevedere la libera sperimentazione di stili
di vita e di attività straordinariamente diversificati. Di conseguenza,
in linea di principio, non ripugna alla ragione che vi siano individui
che trarranno piacere dalla conduzione individuale di qualche attività
e non si vede che problema possa porre una scelta del genere in assenza
di sfruttamento del lavoro altrui. La discussione su questo problema ha
più di un secolo e non mi sembra che Adamo abbia aggiunto elementi
particolarmente nuovi a quanto altri hanno detto in passato
sull'argomento. Il fatto che si sia affermata in Unione Sovietica, prima, ed in altre
aree del pianeta, poi, un regime che si è definito socialista e che
vedeva al governo un partito che si definiva comunista ha reso
necessaria una critica puntuale al loro modo di intendere e,
soprattutto, di praticare l'espropriazione della proprietà privata. Per
la verità, questa critica era piuttosto una conferma che un superamento
della precedente valutazione anarchica sul ruolo dello stato ma era, ed
è, necessaria una riflessione sulle difficoltà della rivoluzione
sociale, sui totalitarismi, sullo stravolgimento del socialismo. Sarebbe
sbagliato negare che l'anarchismo come corrente di pensiero ed azione ha
vissuto una crisi profonda soprattutto per quel che riguarda alcune
ottimistiche aspettative nelle capacità di autoemancipazione delle
classi subalterne. Sarebbe ancora più sbagliato evitare una discussione serrata su questi
temi. Detto ciò, ritengo che le ragioni che inducono molti compagni a
desiderare l'autogoverno dei produttori associati ed a battersi per
realizzarlo restino sostanzialmente valide ed anzi, di fronte ai
caratteri attuali dell'oppressione e dello sfruttamento, siano
rafforzate. Quali siano i mezzi migliori d'azione, quali le difficoltà, quali gli
errori passati e presenti è argomento meritevole di confronto nel
rispetto delle diverse sensibilità ma non trovo utile offrire
un'immagine caricaturale dei punti di vista che non si condividono per
garantirsi una facile ma inutile, ai fini di una crescita comune,
vittoria dialettica.
Cosimo Scarinzi (Torino)
Comunisti
e orgogliosi
La
querelle Adamo-Valente (estesa internettisticamente ad altri compagni)
mi sollecita ad una serie di considerazioni che investono in varia
misura alcuni "luoghi" del pensiero politico rivoluzionario,
di recente poco e mal frequentati: comunismo, comunismo anarchico,
anarchismo, libertarismo, libera sperimentazione e così via. Potrò, nello spazio di questa lettera, accennare ad alcuni di essi, ma
solo per sommi capi, spero di essere compreso. Innanzi tutto occorre porre una certa considerazione alla questione del
rapporto, irrisolto, tra pratiche sociali "antagoniste"
all'ordine del mondo dato e teorie critiche e rivoluzionarie che
ambiscono ad esserne la "giustificazione" dapprima, la guida e
il progetto, in seguito. Lo stesso vale, è appena il caso di notarlo,
se sostituiamo idee a teoria. Il rapporto tra prassi e idee rivoluzionarie, è stato dibattuto ad
nauseam e spesso risolto superficialmente nella categoria del dialettico
(che tutto spiega e nulla spiega), o in un rapporto univoco di
dipendenza, in un verso o nell'altro. Ristabilire un corretto rapporto
significa riconoscere il primato dei movimenti di lotta delle classi
subalterne tesi all'emancipazione dalle proprie condizioni di
sottomissione, che metabolizzati e distillati dalla riflessione ed
elaborazione della "intellettualità rivoluzionaria" spesso
ritornano in forma di suggestioni, idee, teorie rivoluzionarie o
ideologia ad influenzare quelli stessi movimenti. In ultima analisi
dunque le idee - e segnatamente quelle rivoluzionarie - non nascono
dalla testa di Giove, ma dal fuoco delle lotte sociali di classe. Veniamo all'anarchismo. Il giochino del pendolo tra concezioni estreme
di questo - nel caso nostro quella "anarco-capitalista" e
quella comunista, libertaria o anarchica che sia - mi sembra formalmente
stucchevole, metodologicamente scorretto, politicamente mistificante e
storicamente sbagliato. Stucchevole perché usa il principio del
"in medio stat virtus". Scorretto perché il fulcro del
bilancino è sempre la mia posizione e sul braccio antagonista rispetto
a quello delle posizioni che avverso, metto qualsiasi paccottiglia di
segno opposto. Mistificante perché fa assurgere la paccottiglia alla
dignità di sistema di pensiero. Sbagliato perché nessun movimento,
nessuna prassi antagonista si sono mai alimentati di questa
paccottiglia. Un esempio di questa paccottiglia è, ad esempio, l'anarchismo da
Far-West degli anarco-capitalisti, che rimuove il problema dello Stato
(ovvero lo allontana fisicamente in terre lontane), ridicolizza quello
dell'eguaglianza economica nell'insensatezza di "pari opportunità"
e conseguentemente mistifica quello della libertà nell'indipendenza
incondizionata del singolo, contrapponibile a tutte le forme di
Gemeinwesen possibili. Ma veniamo alle cose serie, ovvero al recupero in chiave anarchica di
certi topoi del liberalismo, sia in chiave di ethos che di progetto.
Faccio grazia ad Adamo del banale giudizio che il liberalismo altro non
è che ideologia borghese tout-court. Non è questo infatti il punto. Il liberalismo, anche nelle sue forme più radicali, antiburocratiche,
antistataliste e, per così dire, libertarie, è strutturalmente
inadeguato a rendere conto delle istanze di liberazione delle classi
subalterne. Non può infatti prescindere, altrimenti non è più tale,
dalla proprietà; sia questa quella dei mezzi di produzione o dei frutti
della stessa; sia essa individuale o di una "classe di
individui", ovvero cementata dalla condivisione delle forme di
dominio e di sfruttamento, e non dalla solidarietà che deriva dal
patire comune dell'oppressione e dell'espropriazione e dal sentire,
altrettanto comune, di essere gli artefici, veri, dell'edificio sociale.
La proprietà allude necessariamente all'esclusione, alla separatezza,
al privilegio, così come il mercato (per quanto esso possa essere
libero) allude, da un lato alla merce (con tutte le valenze ineludibili
che questo termine comporta) e, dall'altro, comunque, allo scambio
ineguale. Ineguale proprio perché - anche nella sua versione di
"libero gioco" - propone la contabilizzazione di un'asettica
"giusta" equivalenza tra entità incommensurabili: il mio
superfluo / il tuo bisogno; il mio necessario / il tuo bisogno. Proprietà
e mercato, dietro la loro forma giuridico-istituzionale, rivelano un
ventaglio semantico assai ristretto e tutto interno all'apparato
concettuale e normativo di una società divisa in classi. Ethos e
progetto si fondano dunque sull'autonomia dell'individuo rispetto al
corpo sociale ed alla classe d'appartenenza che però è proprio
possibile (in termini di ricchezza materiale ed intellettuale) in quanto
egli gode dei benefici dell'appartenenza ad un determinato segmento di
quel corpo sociale, dell'appartenenza a quella classe sociale. Libertà
per tutti dalla libertà dei singoli? Anche se così fosse bisognerebbe
rammentare che i talenti da impegnare in quanto individui in questa
"intrapresa" sono molti e che quando il buon Dio li ha
distribuiti, la maggior parte dell'umanità è rimasta fuori della
porta. Non c'è possibilità di disvelamento d'altre qualità intrinseche in
queste categorie, non c'è possibilità di sdoganamento: fuori dai
confini di quella società e del suo universo di significati, i pezzi
d'oro ridiventano carta straccia, o meglio grezzi anelli di una robusta
catena. Infine il problema del comunismo anarchico. L'anar- chismo - o meglio
quella sua centrale componente che si rifà al comunismo anarchico o
libertario che dir si voglia - nasce nel crogiolo delle lotte di classe,
tra il proletariato, come ipotesi di emancipazione radicale e totale
dalla società dello sfruttamento, del dominio e dell'oppressione. La
componente antistatalista e antiautoritaria, che si sostanzia in queste
lotte in opposizione alle forme istituzionali della dominazione di
classe, completa l'aspirazione all'uguaglianza economica tipica già di
forme di comunismo primitivo. La comunità proletaria che si cementa in
antagonismo e in subordinazione ai processi di industrializzazione e
concentrazione capitalistici, fornisce l'humus ad alcune straordinarie
esperienze rivoluzionarie di segno libertario, tra le due guerre
mondiali, che tutti conosciamo. Esperienze presto drasticamente
stroncate dallo strapotere borghese proprio perché alludevano
concretamente - tramite pratiche sociali antagoniste e non integrabili -
al rovesciamento totale dell'esistente e non a pulsioni millennaristiche
dell'avvento di un mondo nuovo. Tagliamo una sessantina d'anni (possiamo
farlo perché ci muoviamo su linee interne) e arriviamo all'oggi. Il
capitalismo, nella sua fase imperialistica, ha metabolizzato, integrato,
triturato e digerito una miriade di "forme di vita", di
modelli economico-sociali, di rappresentazioni del mondo, anche
sedicenti antagoniste dell'ordine sovrano. Resta poco: il solco di una
tradizione politica non contaminata e la necessit&Mac246; di
verificare se l'avvio di un nuovo ciclo di lotte generalizzate - reso
probabile dal progredire devastante della crisi capitalistica - esprimerà,
nella sua spontaneità, contenuti ed aspirazioni congruenti con quella
tradizione oppure no. Io credo di sì, come credo che sia necessario fin
da oggi cominciare a disincrostare da tutte le sedimentazioni improprie
la parola "comunismo" riportandola nel suo naturale contesto
anarchico. Non mi pare che lo stesso si possa fare con
"liberismo". Non c'è parentela, non c'è rapporto, non c'è
congruenza. Mi sorge un sospetto: non è che Pietro Adamo ci ha teso un tranello?
Intendo a noi, anziani e miti residuati dell'anarchismo di classe,
restii ad entrare in questi argomenti per pudore, stanchezza, battaglie
perse, anni consumati? Non è che volesse farci uscire allo scoperto per
poter sorridere ironicamente e commentare: "Vedete, sempre gli
stessi, sempre le stesse cose"? Accetto il rischio e nel frattempo
lo ringrazio di avermi ridato l'occasione (e l'orgoglio) di potermi
definire comunista (e anarchico, ovviamente).
Guido Barroero (Genova) |