IL MONDO ALIENO DEGLI INTRATERRESTRI

Da secoli, nel folklore amerindo, vi è traccia di misteriosi indios
dalla pelle bianca a custodia di perdute città sotterranee e di gotte
inviolabili quanto inaccessibili. Tra verità e leggenda, ecco la cronaca
documentale dei "figli degli dèi".

Autore:
Alfredo Lissoni

La leggenda di certe misteriose gallerie fra Centro e Sudamerica, che
ospiterebbero civiltà perdute, gira da oltre mezzo secolo anni sia negli
ambienti esoterici che nei più paludati circoli archeologici, oltreché
che fra gli esploratori; in tempi più recenti, con l'aumentato interesse
per le storie di UFO e alieni, esse hanno avuto gli onori della ribalta
grazie ad un libro del saggista svizzero Erich Von Daeniken, "Il seme
dell'universo" (Ferro edizioni, 1972), in cui si raccontava la storia,
completamente inventata, dell'esistenza di caverne scavate millenni or
sono dagli alieni in Ecuador. Von Daeniken sosteneva di essere stato
portato nelle grotte della Cueva de los Tajos dall'archeologo Juan
Moricz, e di avervi trovato tesori, gioielli raffiguranti astronavi ed
un tavolo e sette scranni in pietra, istoriati nella notte dei tempi. A
seguito di queste rivelazioni, si mossero oltre duecento spedizioni
archeologiche da tutto il mondo, ma si scoprirono solo delle grotte
levigate da un fiume, senza traccia alcuna di E.T.
Tuttavia, nel 1978, un libro dei documentaristi Marie-Thérèse Guinchard
e Pierre Paolantoni
("Les intraterrestres", gli intraterrestri; Lefeuvre edizioni)
rilanciava la leggenda. Questa volta a parlare era "Yan", pseudonimo di
un archeologo ungherese che avrebbe trovato, nella zona peruviana di
Madre de Dios l'accesso al mondo sotterraneo degli "intraterrestri".
"Esistono, io li ho visti", sottotitolava il libro, che mostrava una
serie di foto sfuocate delle caverne ed i disegni di due grotte
sotterranee, contenente la prima una colonna di quarzo brillante in
grado di rischiarare l'ambiente (e realizzata dagli intraterrestri); la
seconda, il tavolo ed i sette troni citati da Von Daeniken nel suo libro
del 1972. In realtà, osservando la foto di "Yan", pur se sfuocata, si
notava una straordinaria rassomiglianza con l'archeologo Juan Moricz!
Facile dunque pensare che fosse quest'ultimo (che ha sempre negato il
suo coinvolgimento con lo scrittore svizzero) ad inventare ed a
spacciare ai vari turisti per caso improvvisati la storia (peraltro
identica) dei sette scranni del mondo sotterraneo!

INDIOS DALLA PELLE BIANCA

Tutte leggende, dunque? Forse. E forse no. Già nel 1941 due americani,
David e Patricia Lamb, dopo un viaggio in Chiapas (Messico), sostenevano
di avere scoperto una tribù di indios molto agguerriti, di bassa
statura, di pelle chiara, che erano i guardiani di una vasta rete di
gallerie sotterranee; vennero ricevuti dal presidente Roosevelt, che
volle sapere ogni dettaglio.
Tali indios, secondo alcuni ufologi, sarebbero i discendenti degli
alieni scesi nel Continente America nella notte dei tempi, ed
incrociatisi con i locali. Un celebre esploratore d'inizio secolo, il
colonnello inglese Percy Fawcett, sparito nel Mato Grosso alla ricerca
del "mondo sotterraneo", confermò nel suo diario l'esistenza di indios
amazzonici dalla pelle bianca. "A Jequie, un centro piuttosto grande che
esportava cacao a Bahia, un vecchio negro di nome Elias José do Santo,
ex ispettore della polizia imperiale, mi raccontò di indiani dalla pelle
chiara e dai capelli rossi che vivevano nel bacino del Gongugy, e di una
città incantata che trascinava sempre più avanti l'esploratore, finché
svaniva come un miraggio. Seppi poi dei Molopaques, una tribù scoperta a
Minas Gerais in Brasile nel secolo XVIIº; avevano la pelle chiara e
portavano la barba; le loro donne avevano capelli biondo oro, bianchi o
castani, piedi e mani piccoli, occhi azzurri".
La vicenda degli indios bianchi è confermata anche da un altro
esploratore, il professor Marcel Homet, archeologo, paleontologo,
antropologo ed etnologo francese. Quest'ultimo, durante l'esplorazione
dell'Amazzonia brasiliana, nella zona dell'Urari-Coera, si era imbattuto
in due indios sbucati dalla foresta. "Senza alcun preavviso", scrisse
Homet nel libro "I figli del sole" (MEB edizioni), "la cortina di foglie
della giungla si aperse e ci apparvero due indios bellissimi. Ci
studiavano con attenzione, infastiditi dal fatto che puntassimo loro
contro i nostri fucili. Ebbi agio di osservarli attentamente. Erano
esseri umani di forme bellissime. Dove avevo visto degli esseri simili?
Ma certo, in Arabia! I nasi aquilini, le fronti spaziose, gli occhi
grandi, spalancati, ed il colore chiaro della pelle...Erano uomini di
razza bianca, veri mediterranei, progenitori, contemporanei o parenti di
questa razza".
I due indios vennero in seguito identificati da una delle guide del
professor Homet come Waika, membri di una tribù assai poco conosciuta,
"pericolosi e crudeli combattenti" che avevano la curiosa usanza di
rapire donne dalla pelle bianca con cui accoppiarsi, forse per
preservare il colore della loro pelle, oltremodo insolito in quelle
regioni selvagge.
Homet citava anche un cercatore d'oro a nome Francisco Raposo, che nel
1743 si sarebbe imbattuto, ad oriente del fiume amazzonico Xingù in due
indios di una tribù sconosciuta, che alla sua vista se la diedero a
gambe. Quegli indios avevano la pelle bianca.
La presunta tribù che vivrebbe nell'Amazzonia peruviana sarebbe stata
oltremodo feroce.
Nell'estate del 1979 il Radio Club Peruviano di Cuzco segnalava di avere
perso i contatti con una spedizione francese avventuratasi nel
dipartimento di Madre de Dios; sfortunatamente, non era questo il primo
caso. Tutte le spedizioni che si erano avventurate in quella zona, alla
ricerca di una sperduta città precolombiana, erano scomparse
misteriosamente. Nel caso dei francesi, l'ultimo messaggio da questi
inviato diceva: "Siamo attaccati da una tribù sconosciuta di indios
bianchi, alti almeno due metri", gli stessi da secoli presenti nel
folklore sudamerindio.

IL REGNO DEL GRAN PAITITÌ

"Ero proprio in Venezuela, ai confini dell'Amazzonia colombiana, l'anno
in cui la notizia rimbalzò su tutti i giornali brasiliani. Si trattava
di questo: erano state avvistate, da due passeggeri di un bimotore che
stava sorvolando la zona, tre piramidi di più di cento metri d'altezza,
disposte in forma triangolare e situate sull'estesissima frontiera del
Brasile. Su questa bomba giornalistica si erano buttati anche Erich Von
Daeniken e Jacques Cousteau". A parlare è la linguista ed archeologa
dilettante basca Mireille Rostaing Casini che, nel suo libro
"Archeologia misteriosa" (Salani) racconta: "La storia non finiva qui.
Ai primi del 1979 erano state fotografate da un aereo dodici piramidi,
grandissime, nella foresta del dipartimento peruviano di Madre de Dios,
anch'esso confinante con il Brasile. Queste fotografie le mostrano in
collocazione simmetrica, le une vicine alle altre, in due file di sei.
Le piramidi si trovano in una regione dove si pensa sia esistito un
grandissimo e potente impero, detto del Gran Paititì, e di cui non si sa
praticamente nulla se non che nel suo territorio si trovavano enormi
ricchezze in oro ed una grande quantità di tesori nascosti. Un indio mi
disse che in questa zona esiste un passaggio nella collina denominata
Tampu-Tocco, attraverso il quale si passa ad altri mondi situati nelle
viscere della terra".
La storia delle dodici piramidi del Gran Paititì scatena da anni
polemiche infuocate. La prudenza è dunque necessaria. Diversi esponenti
dell'archeologia e della scienza ufficiale, in testa lo stimatissimo
geologo brasiliano Aziz Nacib Ab'Saber, e che hanno sorvolato la zona in
elicottero, ritengono trattarsi soltanto di curiose formazioni rocciose,
coperte di vegetazione. Costoro disconoscono quanto fotografato nel 1975
dai satelliti meteo Landsat:
un'area piana, ellittica, al cui interno sembra proprio di vedere dodici
strutture piramidali in duplice fila; fra i sostenitori, i membri della
spedizione francese di Thierry Jamin, che il 21 luglio 1998 sarebbe
dovuta partire per la zona conosciuta come Pantiacolla, l'antica
Paititì. All'ultimo minuto la spedizione saltò, per l'improvviso dietro
front degli sponsor.

LA CRONACA DI AKAKOR

Esiste dunque, nel cuore dell'Amazzonia, una civiltà perduta, forse
nemmeno umana, legata al culto delle piramidi? Piramidi, come sottolinea
la Rostaing Casini viste le foto, non di tipo azteco ma egizio? É
difficile sostenerlo, ma da un mio collaboratore, il fisico salvadoregno
Luis Lopez spesso a spasso per le Americhe, ho ottenuto ulteriori
elementi. "Durante alcune mie ricerche in Salvador", mi ha raccontato
Lopez nel maggio del 1993 " ho incontrato un archeologo italiano, Mario
P., che da anni lavora in Perù. Quest'uomo, appartenendo
all'establishment scientifico ufficiale e temendo il ridicolo, ha
preteso il riserbo; mi ha raccontato di avere visto degli UFO nella zona
e di avere scattato delle foto a certe bruciature circolari; Mario ha
aggiunto che questi fenomeni sono ricorrenti nella foresta amazzonica al
punto che gli indios, affatto spaventati, hanno ribattezzato i
visitatori spaziali gli incas, intesi come appartenenti ad una razza
superiore, di signori, come sono considerati gli antichi incas".
"Non solo", prosegue Lopez. "L'archeologo ha anche scoperto una serie di
scheletri umani lunghi due metri, appartenenti ad una razza sconosciuta.
Questa scoperta è per ora mantenuta top secret e non so se e quando essa
verrà divulgata".
Se così fosse, ed ammesso che la leggenda degli indios bianchi tale non
sia, quale è la loro misteriosa origine? La risposta la troviamo in un
altro libro, la "Cronaca di Akakor" (Edizioni Mediterranee) del
giornalista e sociologo bavarese Karl Brugger (assassinato in
circostanze misteriose nel 1984). Brugger conobbe bel 1972 a Manaus, in
Brasile, il capo indio - bianco di pelle - Tatunca Nara, a suo dire
discendente di una mitica tribù "spaziale", gli Ugha Mongulala. Secondo
il racconto di Tatunca Nara, i Mongulala vivevano nel cuore
dell'Amazzonia, sin dalla notte dei tempi, "in piccoli gruppi, in
caverne e grotte, camminando carponi". Poi, nell'anno 13500 a.C. del
nostro calendario, "erano giunti gli Dei. Essi portarono la luce". "Gli
stranieri", ha raccontato il capo indio a Karl Brugger, "apparvero
all'improvviso nel cielo su brillanti navi d'oro. Segnali di fuoco
illuminarono la pianura; la terra tremava ed il tuono risuonava sulle
colline. Gli uomini si prostrarono con stupore e profondo rispetto
davanti ai potenti stranieri, che vennero ad impossessarsi della terra".
"Gli stranieri dissero che la loro patria si chiamava Schwerta, un mondo
lontano nella profondità del cosmo. A Schwerta viveva la loro gente, ed
essi erano partiti di là per visitare altri mondi, e portarvi la loro
scienza. Schwerta era un immenso impero, formato da mondi numerosi come
i granelli di polvere di una strada. I visitatori ci dissero che ogni
seimila anni i due mondi, quello dei nostri Primi Maestri e la nostra
terra, s'incontreranno. E che allora gli Dei torneranno. Dovunque sia e
qualsiasi forma abbia Schwerta, con l'arrivo di questi visitatori dal
cielo cominciò sulla terra l'Età dell'Oro".
I Maestri, come vennero prontamente ribattezzati dagli indios, "vennero
sulla terra con 130 famiglie, per liberare gli uomini dall'oscurità. E
loro accettarono e riconobbero gli uomini come fratelli. I Maestri
fecero stabilire le tribù nomadi e divisero lealmente ogni frutto della
terra. Pazientemente e senza stancarsi, ci insegnarono le loro leggi,
anche se gli uomini facevano resistenza, come bambini ostinati. Per
questo loro amore verso gli uomini, per tutto quello che diedero ed
insegnarono noi li veneriamo come i nostri portatori di luce. I nostri
migliori artigiani riprodussero le loro immagini per testimoniare in
eterno la loro grandezza. Così sappiamo come erano fatti i nostri
Signori Anteriori".
"I Signori di Schwerta", racconta Tatunca Nara, "erano simili agli
uomini. Il loro corpo esile ed i tratti del volto erano molto delicati.
Avevano la pelle bianca ed i capelli neri con riflessi blu. Portavano
una folta barba e come gli umani erano vulnerabili, perché fatti di
carne. C'era però un particolare segno fisico che li distingueva dagli
abitanti della Terra: essi avevano alle mani e ai piedi sei dita. Questo
era il segno dell'origine divina".
I Maestri, prosegue il capo indio, non erano terrestri. Tatunca Nara,
nel ricostruire per Karl Brugger l'intera storia del suo popolo,
divideva decisamente il periodo dei visitatori spaziali (peraltro
corrispondente, secondo alcune fonti, alla reale nascita della civiltà
egizia) dal successivo arrivo di esploratori bianchi: i goti, nel 570
d.C., gli spagnoli, nel 1532, i nazisti, nel 1941. I Maestri
"tracciarono canali e strade, seminarono piante nuove, sconosciute a noi
uomini. Insegnarono ai nostri primitivi antenati che un animale non è
solo una preda da cacciare, ma anche una preziosa proprietà, che
allontana la fame. pazientemente trasmisero loro il sapere necessario
per comprendere i segreti della natura. Sorretti da questi principi, gli
Ugha Mongulala sono sopravvissuti per millenni a gigantesche catastrofi
e guerre sanguinose".

VISITATORI DAL COSMO

Grazie agli Schwerta, gli Ugha Mongulala costruirono un impero che si
estendeva dal Perù al Brasile al Mato Grosso (la regione ove scomparve
Fawcett). I Maestri, secondo Nara, conoscevano le leggi dell'intero
cosmo. Unendosi carnalmente con gli indios, generarono la tribù degli
Ugha Mongulala, gli "alleati eletti". Costoro, eccezion fatta per le sei
dita, nei tratti somatici ricordavano molto i visitatori. Ecco dunque
spiegata la presenza di indios bianchi, più o meno alti, nel cuore della
foresta amazzonica?
Gli alieni costruirono diverse città, e molte piramidi, "un mezzo per
raggiungere la seconda vita". Un "brutto giorno" gli dei dovettero
ripartire. Erano in lotta con un altro popolo dello spazio. "Nel 10481
a.C. gli Dei lasciarono la Terra", disse Nara. "Le navi dorate dei
nostri Primi Maestri si spegnevano nel cielo come le stelle. La fuga
degli Dei gettò il mio popolo nell'oscurità. Fummo attaccati da esseri
estranei simili agli uomini, con cinque dita ma con sulle spalle teste
di serpenti, tigri, falchi e altri animali. Disponevano di una scienza
avanzatissima che li rendeva uguali ai primi Maestri. Tra queste due
razze di Dei scoppiò una guerra. Bruciarono il mondo con armi potenti
come il sole. Ma la previdenza degli Dei salvò gli Ugha Mongulala dalla
distruzione". I visitatori di Schwerta costruirono nel sottosuolo
amazzonico tredici dimore sotterranee, disposte secondo la costellazione
da cui provenivano. E convinsero gli indios a rifugiarsi dentro caverne
scavate nella roccia, e murate dall'interno. Con questo espediente gli
indios sarebbero scampati alle devastazioni planetarie scatenate dalle
lotte fra dei, come pure a successivi cataclismi e perfino all'avanzata
dei conquistadores.
Questo elemento mi è stato in parte confermato da un'esploratrice
italiana che ha condotto diverse spedizioni in Perù, la milanese Elena
Bordogni. "Durante una spedizione", mi ha raccontato, "incappammo in un
camminamento che costeggiava una montagna e che fiancheggiava un
burrone. Sul sentiero si vedevano, pietrificate, le orme dei piedi dei
sacerdoti che anticamente percorrevano quella via. Con grande sorpresa
ci accorgemmo che ad un certo punto il sentiero si interrompeva dinanzi
ad una parete liscia della montagna. Solo in seguito, scoprendo che le
grotte erano state murate dall'interno, capimmo dove finissero quelle
impronte di pietra". Si trattava delle grotte Mongulala?
Anche la Rostaing Casini ha scoperto, nelle tradizioni orali peruviane,
testimonianze dell'improvvisa fuga e scomparsa degli Ugha: "Secondo le
tradizioni dei mistici, circa 6000 anni or sono si sarebbe verificato un
terribile cataclisma che avrebbe indotto una parte dei Mongulala a
rinchiudersi nel fitto della foresta; altri avrebbero invaso i territori
costieri dell'oceano Pacifico, sedi di civiltà preincaiche, per poi
imbarcarsi verso ignoti lidi. Alcuni si sarebbero stanziati nell'Isola
di Pasqua".
La storia degli Ugha Mongulala è una miniera per gli appassionati di
archeologia misteriosa. I Maestri di Schwerta vengono descritti da
Tatunca Nara come esseri "dal volto splendente" . La stessa definizione
viene fornita dal patriarca ebraico Enoch, allorché racconta di essere
stato rapito in cielo dagli angeli. Sia gli angeli di Enoch che gli
Schwerta dei Mongulala si accoppiarono con le donne della Terra. Gli
Schwerta avrebbero poi colonizzato "il grande fiume Nilo" ed avrebbero
nascosto nella foresta amazzonica un disco volante! "La macchina
volante", racconta Tatunca Nara, "brilla come l'oro ed è fatta di un
metallo a noi sconosciuto. É un grosso cilindro e può ospitare due
persone. Non ha vele né remi ma vola più veloce dell'aquila, attraverso
le nubi".
Ancora, gli Schwerta costruirono le piramidi sudamericane ed egizie "con
certe macchine che potevano sollevare il masso più pesante, tenendolo
sospeso come per magia; lanciavano fulmini accecanti e fondevano le
rocce".
Gli Schwerta erano portatori di pace. La loro fuga rappresentò la fine
per gli Ugha Mongulala, distrutti dalle guerre civili prima, dai
terremoti poi ed infine costretti dall'arrivo dei conquistadores
all'esilio perenne, nelle caverne sotterranee scavate dagli Dei. "Ma gli
Dei torneranno", dichiarò Tatunca Nara a Brugger, prima di tornarsene
nella sua patria misteriosa. "Torneranno per aiutare i loro fratelli,
gli Ugha Mongulala. L'alleanza tra questi due popoli sarà rinnovata, e i
nostri discendenti si incontreranno di nuovo. Allora ritorneranno i
primi maestri...". Sarà così davvero?