Giovanni Paolo II, un Papa sensibile all'astronomia
8 gennaio 2002 - I cieli si
sono aperti. Intorno a stelle lontane gli astronomi hanno scoperto numerosi
pianeti simili ai nostri che forse nascondono la vita. I telescopi hanno portato
l'occhio quasi sulla soglia delle nostre origini quando l'Universo si accese 15
miliardi di anni fa con un poderoso Big Bang, mostrandoci i primi passi della
creazione. Gli scienziati più avventurosi ipotizzano addirittura altri universi
esistenti in spazi paralleli e in dimensioni inconcepibili alla comune
immaginazione. Il cielo, insomma, è cambiato profondamente negli ultimi anni
sollevando qualche domanda sul possibile, nuovo rapporto tra l'uomo e le sue
idee sul mondo astrale che lo circonda. George Coyne, gesuita e astronomo, alza
gli occhi dalla Specola Vaticana che ha ancora le sue cupole a Castel Gandolfo
dove Pio X decise di sistemarle, portandole via dal Vaticano dove un altro Papa,
Leone XIII, le aveva volute nel 1891. «Ma qui ormai possiamo solo collaudare
strumenti e far lezione agli studenti - dice -. Il nostro vero osservatorio è su
un'alta montagna dell'Arizona, negli Stati Uniti, dove l'aria è tersa e
trasparente».
George Coyne è americano. A dirigere la Specola lo chiamò Giovanni Paolo I, Papa
Luciani, nel 1978. Tra i misteri celesti ama studiare il «cannibalismo cosmico»,
un violentissimo fenomeno nel quale i grandi astri divorano i più piccoli.
Come guarda un uomo di chiesa e di scienza al nuovo universo, a un creato dove
forse esistono altri esseri pensanti?
«L'universo è la culla dell'umanità e, in noi, la passione di conoscere non è
mai soddisfatta. Ma più conosciamo più riconosciamo la nostra ignoranza.
Indubbiamente non c'è mai stata un'epoca in cui l'astronomia, la cognizione
celeste, sia stata tanto progredita. C'è una bella storia degli indiani
d'America. Quando il governo decise di costruire il primo grande osservatorio
nazionale in Arizona scelse una montagna sacra agli indiani i quali, dopo lunghe
trattative, furono contenti dello scopo per cui veniva utilizzata. Però gli
indiani non sapevano come chiamare gli astronomi perché loro abitavano sotto il
cielo, lo ammiravano ma non lo studiavano e quindi erano privi di un termine che
indicasse colui che indaga. Allora inventarono una parola nella loro lingua che
tradotta significa "gli uomini dagli occhi lunghi". In effetti questi strumenti
non sono soltanto delle macchine ma il prolungamento della nostra curiosità di
sapere. Il fatto che sia un gesuita non cambia il modo in cui faccio ricerca, ma
certamente influisce sulla mia interpretazione.
Di fronte alla possibilità di vita su altri pianeti qual è il suo pensiero e la
posizione della Chiesa?
«E' una prospettiva che appassiona, ma bisogna andarci cauti. Per il momento non
c'è alcuna evidenza scientifica della vita. Ma stiamo accumulando osservazioni
che indicano tale possibilità. L'universo è tanto grande che sarebbe una follia
dire che noi siamo l'eccezione. Il dibattito è aperto e complesso. Immaginiamo
dunque che ci sia. Questo ci dimostrerebbe che Dio ha ripetuto altrove ciò che
esiste sulla terra e nello stesso tempo toglierebbe dalla fede quel
geocentrismo, quell'egoismo, se posso dire, che ancora la caratterizza. Se io
incontrassi un essere intelligente di altri mondi e mi rivelasse una sua vita
spirituale e mi dicesse che anche il suo popolo è stato salvato da Dio mandando
il suo unico figlio, mi domanderei come è possibile che il suo "unico" figlio
sia stato presente in luoghi diversi. Pensieri simili sono una grande sfida.
Un'eresia dopo l'altra ha cercato di negare l'umanità di Dio nei secoli. Gesù
Cristo è vero Dio e vero uomo. E questo vero uomo può apparire anche su altro
pianeta? Non so, non so negare ma nemmeno affermare. La possibilità di vita
extraterrestre intelligente e spirituale ci presenta molte domande. La scienza
per un credente, comunque, non demolisce la fede ma la sprona».
Si deve credere anche a un'evoluzione della fede?
«Sì. Quando da giovane seminarista studiavo, non immaginavo che oggi sarei stato
qui a parlare di simili argomenti. In cinquant'anni l'umanità è arrivata a
questo punto. Purtroppo la Chiesa non sempre tiene il passo, specialmente oggi».
L'accelerazione della scienza ha messo forse a disagio i teologi che non la
vedono come una sfida oppure non colgono la necessità di un'evoluzione?
«Non so dire. Io trovo un certo ambiente ideologico nella Chiesa che sembra
dire: "Sono affari tuoi, di voi scienziati". Cioè non credono che l'argomento
debba essere studiato, affrontato. Non credono ai risultati scientifici e
assolutamente non vogliono affrontare le discussioni che potrebbero far tremare
un po' le dottrine».
Dopo il pronunciamento del Papa su Galileo e la sua riabilitazione agli occhi
della storia cattolica, non c'è stato un cambiamento anche da parte dei teologi?
«Su questo non devo proprio parlare. Gli studi nei seminari non offrono una
formazione scientifica. Chi entra in seminario è un sacerdote che esercita un
ministero e non è un uomo del mondo di oggi; lavora a metà, è un prete
dimezzato».
Le osservazioni astronomiche ci rivelano con sempre maggiore precisione ciò che
accadde dopo la creazione, dopo il Big Bang da cui tutto ebbe origine. Ciò
influisce sulla visione della Chiesa?
«Si, ma bisogna andarci cauti. E' vero che la cosmologia del Big Bang è ormai
sicura come modello scientifico. Ma esso dice poco della creazione, forse
niente, perché la creazione com'è intesa nella Bibbia, non risponde alla domanda
sull'origine dell'universo ma al perché c'è qualcosa anziché il nulla. E questa
è una risposta teologica a una domanda di fede. Invece la scienza si occupa di
scoprire da dove sia venuta la materia che conosciamo. In altri termini, la
Sacra Scrittura e la teologia stessa non intervengono sul modo con cui Dio ha
creato l'universo. Le due domande tuttavia non sono in conflitto, non si
incontrano e quando sembra che ciò accada possono nascere dei fraintendimenti
molto gravi. Per questo stava sbagliando anche Pio XII. Quando uscì la teoria
del Big Bang, impressionato dal risultato, egli voleva pronunciare un discorso
solenne per affermare che gli scienziati stavano scoprendo ciò che la Chiesa
sapeva già dalla Genesi. Allora il presidente della Pontificia Accademia andò
dal Santo Padre, gli spiegò come l'ipotesi degli scienziati non avesse alcun
legame con le Sacre Scritture e lo convinse a non dire nulla. Dell'argomento ho
discusso anche con il famoso astronomo inglese Stephen Hawking secondo il quale
l'universo non avrebbe avuto origine perché non sarebbe mai esistito un tempo
zero dal quale possa aver avuto inizio. E quindi, conclude Hawking, per la
nascita dell'Universo non abbiamo bisogno di Dio. In realtà, anche se la sua
idea fosse giusta, non esclude affatto Dio perché Dio non è una realtà di cui
abbiamo bisogno in quanto si è dato spontaneamente a noi. Ma Hawking non ha
alcuna cultura filosofica e teologica. Lui è solo uno scienziato».
Papa Giovanni Paolo II è sensibile all'astronomia?
«Si, fin dall'inizio del papato ed è venuto anche a trovarci alla Specola. E'
soprattutto aperto al confronto tra scienza e fede. Ma oltre al caso Galileo,
quando ci fu la ricorrenza della pubblicazione dei "Principia" di Newton ci
domandò: "La Chiesa deve celebrare questo evento, che cosa facciamo?" Invece di
affrontare una vuota celebrazione gli proponemmo una serie di conferenze sui
temi scientifici che avevano attinenza con la fede. Ne fu contento e il primo
incontro fu lui stesso ad aprirlo».