IL SANTO GRAAL: UN MISTERO ANTICO DUEMILA ANNI

 

PARTE SECONDA

 

                                                                                                       Di Patrizio Caini

 

 

Nella prima parte di “Il Santo Graal: un mistero antico duemila anni”, pubblicato sul n° 3 di Maggio-Giugno 2002 di “Archeomisteri”, sono state proposte, come possibili ubicazioni della reliquia più sacra della cristianità, varie località e siti archeologici del Vicino Oriente, dell’Asia Centrale e dell’Italia. Nella seconda ed ultima parte di questo lavoro, verranno passati in rassegna alcuni paesi dell’Europa Continentale e varie località del Regno Unito e del Nuovo Mondo, luoghi in cui la tradizione popolare e le leggende narrano sia custodito, più o meno segretamente, il Santo Graal.

Tempo fa uno storico dilettante, Graham Phillips, di Coventry, dopo avere consultato numerosi alberi genealogici, affermò di avere rintracciato il Santo Graal nella soffitta dell’abitazione di Victoria Palmer, una grafica pubblicitaria residente a Rugby. Phillips sostiene che la Palmer discenda da un’antica e nobile famiglia di re gallesi, i Powys, a cui un anonimo monaco avrebbe consegnato il Santo Graal nel 1100. Lo storico dilettante ritiene che la coppa che il monaco affidò ai membri della famiglia aristocratica sia da identificarsi con una tazza di onice alta cinque centimetri e dalla forma molto simile a quella di un portauovo. L’attuale proprietaria la ereditò da suo nonno, il business man Walter Langham, il quale, a sua volta, sosteneva di averla rinvenuta, nel 1920, all’interno di una grotta situata nella contea di Shropshire. La Palmer, credendo che la tazza in suo possesso fosse niente più di un comune oggetto d’antiquariato risalente al periodo vittoriano, peraltro di modesto valore storico ed economico, la collocò in soffitta. Dopo l’inaspettato annuncio di Graham Phillips, tuttavia, la grafica pubblicitaria si è ricreduta ed ha trasferito quello che ora ritiene sia il Graal in una cassetta di sicurezza in un caveau di una banca. La coppa di proprietà della Palmer, secondo Phillips, sarebbe il calice rinvenuto da Elena[1], la madre dell’imperatore Costantino I (n. Naisso, Dacia, 280 d.C. – m. presso Nicomedia 337), detto il Grande, all’interno del sepolcro di Gesù. A quanto pare Elena era fermamente convinta che la coppa da lei recuperata fosse quella utilizzata da Maria Maddalena per raccogliere il sangue di Gesù crocefisso. Nei suoi scritti lo storico greco Olimpiodoro (fine secolo IV – inizi secolo III a.C.) menziona questo calice che sarebbe stato portato, prima nella Città Eterna e successivamente, nel 410, in Inghilterra, per preservarlo dalla furia devastatrice delle orde di barbari. Dopo interminabili traversie ed innumerevoli vicissitudini, il calice entrò in possesso di un monaco, il quale, come accennato sopra, lo cedette ai Powys nel 1100. Al fine di conferire validità storica alla propria tesi, Graham Phillips si sarebbe rivolto ad un team di esperti del British Museum per un approfondito esame della tazza di onice; al termine della perizia storico-archeologica gli esperti gli avrebbero confermato che il manufatto in suo possesso risale effettivamente all’epoca romana.

La contea di Shropshire sembra svolgere un ruolo di primo piano nella leggenda del Santo Graal in quanto, oltre ad avere fatto da cornice paesaggistica al misterioso ritrovamento effettuato dal succitato Walter Langham, secondo alcuni cacciatori della reliquia, sarebbe chiamata in causa anche come la regione dell’Inghilterra occidentale ove si trova una fattoria in cui sarebbe custodito un “Graal” in legno d’ulivo. Con il trascorrere dei secoli la coppa si sarebbe seriamente danneggiata, a tal punto che ne sarebbe rimasta solo la metà sinistra. Questo “Graal” sarebbe stato ceduto alla famiglia che dimora nella fattoria alcuni secoli fa e corre voce che possieda miracolose proprietà taumaturgiche; difatti, chiunque in paese fosse stato malato, recandosi nella fattoria e bevendo un po’ d’acqua raccolta con la coppa, sarebbe stato risanato.

            Una leggenda molto diffusa nella tradizione popolare inglese e non solo è quella che narra di come Giuseppe d’Arimatea[2], il discepolo segreto di Gesù che si recò da Ponzio Pilato (I secolo d.C.) per ottenere l’autorizzazione a prendere in consegna il corpo di Cristo, avesse raccolto il sangue della crocifissione nella coppa che il Figlio di Dio utilizzò durante l’Ultima Cena e di come, nel 63 d.C., egli avesse lasciato la sua terra di origine, la Palestina, alla volta dell’Inghilterra. Dopo avere a lungo navigato, Giuseppe d’Arimatea giunse a Glastonbury, dove la tradizione vuole che abbia conficcato il proprio bastone nel terreno e che esso si sia miracolosamente trasformato in un roveto. In effetti l’elemento narrativo del cespuglio magico ricorre nella letteratura locale fin dal 1520, identificandolo con un roveto a Wearyall Hill che fioriva straordinariamente due volte all’anno: nel periodo di Natale e nel mese di Maggio. Il cespuglio venne distrutto durante la Guerra Civile Britannica, tuttavia, alcuni suoi germogli vennero recuperati e piantati nelle vicinanze dove fiorirono altrettante piante. Un team di botanici esaminò i cespugli e concluse che la specie non era originaria della Gran Bretagna, bensì del Medio Oriente. Ma la coppa che Giuseppe d’Arimatea portò con sé dalla Terra Santa che fine fece? Secondo una leggenda, essa sarebbe stata affidata ad un non meglio identificato gruppo di guardiani, i cui discendenti l’avrebbero custodita per duemila anni fino ai giorni nostri. Nel primo millennio, alcuni monaci di Glastonbury dichiararono di avere rinvenuto due ampolle che sarebbero state sepolte insieme a Giuseppe d’Arimatea e di cui è possibile ammirare la raffigurazione sulle vetrate della chiesa di S. John, a Glastonbury. Le ampolle, tuttavia, non furono mai esposte al pubblico, per cui non è possibile stabilire se siano state portate alla luce ed esistano realmente, dubbio che persiste tenacemente e che mantiene nella leggenda il ritrovamento delle reliquie. Un’altra leggenda, forse la più popolare, narra che Giuseppe d’Arimatea, una volta giunto a Glastonbury, prese coscienza dello sconfinato potere del calice e realizzò che, qualora fosse stato utilizzato per fini malvagi, avrebbe potuto precipitare l’intero universo nel caos primigenio del male. Terrorizzato da questa eventualità, egli decise di sbarazzarsene per sempre e perché non venisse ritrovato, lo gettò in un pozzo scavato all’ombra di un imponente albero. Ora, tra due bassi rilevi collinari, quello denominato “The Tor” (in inglese, picco o sommità rocciosa) e quello che la tradizione popolare ha designato come “The Chalice Hill” (in inglese, La Collina del Calice) è effettivamente situato un pozzo, noto come “The Chalice Well” (in inglese, Il Pozzo del Calice). Il filosofo inglese e studioso di esoterismo Tudor Pole, convinto che il Chalice Well fosse il pozzo in cui Giuseppe d’Arimatea gettò il Santo Graal, arrivò persino ad acquistare il terreno intorno ad esso al fine di consentire ai turisti ed agli studiosi di visitare la cavità. La tradizione popolare, probabilmente, ha voluto identificare il Chalice Well con il pozzo di Giuseppe d’Arimatea a causa della curiosa colorazione rossastra dell’acqua contenuta nel primo, colorazione presumibilmente imputabile alla massiccia presenza di ossidi di ferro ed associata dal folclore locale al sangue di Gesù. La leggenda secondo cui Giuseppe d’Arimatea gettò il Graal in un pozzo a Glastonbury è in realtà recente, in quanto fu partorita dalla fervida fantasia del poeta Alfred Tennyson in occasione della stesura, nel XIX secolo, della sua opera: “l’Idylls of the King”. Il fatto che si tratti di un’invenzione letteraria piuttosto che di una leggenda nata su un fondamento di verità storica non significa necessariamente che il Chalice Well non sia comunque legato dalla tradizione a manufatti più o meno misteriosi, difatti, per quanto possa sembrare strano, questa cavità è effettivamente legata ad un’antica coppa, anzi, a due antiche coppe. Una di queste, in legno d’ulivo, fu realmente rinvenuta nel pozzo qualche secolo fa ma dopo un attento esame risultò essere un artefatto rituale celtico. La seconda coppa ma forse è sempre la medesima, fu oggetto di lunghe ed estenuanti ricerche da parte del celebre occultista John Dee [3] (1527 – 1608) che, nel 1582, si recò, in più di un occasione, a Glastonbury, poiché era fermamente convinto che il Pozzo del Calice fosse il nascondiglio segreto di un vaso contenente l’elisir dell’eterna giovinezza. E’ doveroso precisare in questa sede che l’arrivo di Giuseppe d’Arimatea in Gran Bretagna, nel I secolo d.C., sembra essere attestato storicamente, difatti, vi sono alcuni documenti che lo comprovano. Uno di questi è l’”Annales Ecclesiasticae” del 1601, che riporta un’annotazione del bibliotecario vaticano, il cardinale Baronio, sull’arrivo di Giuseppe d’Arimatea a Marsiglia nel 35 d.C. e sul proseguimento del suo viaggio alla volta della Britannia, dove, assieme ai suoi compagni, iniziò l’opera di evangelizzazione. Un altro documento, il “De Sancto Joseph ab Anmathea”, riporta che Giusepe d’Arimatea, nel 63 d.C., si recò da S. Filippo (m. forse a Gerapoli c. 80 d.C.) in Gallia, l’odierna Francia e da qui, secondo quanto scritto dal vescovo di Lisieux, Freculfo, si spostò in Inghilterra. Una volta arrivati in Inghilterra sud-occidentale, Giuseppe d’Arimatea ed i suoi dodici compagni[4] edificarono una piccola chiesa considerata la più antica tra quelle della cristianità occidentale e fondarono una comunità cristiana. Se Giuseppe d’Arimatea ed i dodici missionari che lo seguirono avessero portato con sé il Graal, esso potrebbe essere stato nascosto in questa chiesa o sotto di essa. Secondo la tradizione, il Graal cavalcò i secoli passando, di generazione in generazione, tra le mani dei monaci di Glastonbury. Quando nel 1535 lo scisma dell’Inghilterra dalla Chiesa di Roma ad opera di re Enrico VIII (Greenwich 1491 – ivi 1547) divenne definitivo con la condanna a morte di Sir Thomas More e del vescovo Fisher e la furia anticlericale della Corona inglese si abbatté su diverse chiese e conventi cattolici, distruggendoli o danneggiandoli gravemente, l’ultimo abate di Glastonbury, Richard Whiting, consegnò ad alcuni frati una coppa di legno perché la nascondessero in un luogo sicuro. I monaci portarono il manufatto nel feudo di Nanteos Manor, nel Galles, dove vennero accolti e poterono lavorare e condurre una tranquilla vita monastica. Una leggenda narra che, alla morte dell’ultimo dei monaci, custodi del Graal, la coppa venne affidata al feudatario. Alcuni studiosi ritengono che questo “Graal”, una coppa in legno d’ulivo del diametro di circa quindici centimetri, alla morte dell’ultimo signorotto, avvenuta nel 1952, sia stato consegnato ad altre persone e che attualmente sia custodito nel caveau di una banca.

Una delle più strane ed inverosimili leggende riguardanti il Graal è sicuramente quella che narra dell’esistenza di un non meglio identificato gruppo di iniziati attivi nel Galles, Gran Bretagna sud-occidentale, il cui compito precipuo sarebbe stato quello di custodire e vigilare su una misteriosa coppa in terracotta contenuta all’’interno di un calice d’oro. La coppa, identificata secondo alcuni con il Santo Graal, qualora fosse stata utilizzata a fin di bene, avrebbe avuto straordinarie proprietà taumaturgiche e benefiche, tuttavia, nel 1880, i membri di un circolo esoterico antagonista avrebbero deciso di distruggere il manufatto. I Guardiani del Graal, venuti a conoscenza delle intenzioni dei malvagi occultisti, avrebbero spostato frequentemente la coppa in modo tale che quest’ultimi non potessero trovarla, fino al momento in cui sarebbe stata portata in un nascondiglio segretissimo ritenuto introvabile dai Guardiani. Purtroppo, uno degli iniziati incaricati di sorvegliare la coppa avrebbe rivelato agli occultisti l’ubicazione del presunto Graal che sarebbe stato così trafugato; successivamente i fanatici occultisti avrebbero celebrato una messa nera con lo scopo di annientare il potere della presunta reliquia che, al termine del sacrilego rituale, sarebbe stata irrimediabilmente distrutta.

Quello della piccola comunità più o meno isolata che custodisce una coppa dispensatrice di bene e di conoscenza sapienziale è un interessante elemento narrativo abbastanza ricorrente nelle leggende sul Santo Graal, difatti, sulle montagne del Caucaso, in Russia, in una località chiamata Narta Monga, vive, isolato dal resto del mondo, un esiguo gruppo di individui che asserisce di essere in possesso di una coppa dotata di poteri magici, detta Amonga. Questo manufatto presenta delle impressionanti similitudini con il Graal, avendone sostanzialmente le stesse proprietà miracolose tra cui produrre cibo in quantità illimitata e trasmettere la conoscenza a chi ne sia degno.

Alcuni studiosi ritengono che vi sia uno stretto legame tra il movimento eretico dei Catari[5] e la leggenda del Graal e che quest’ultimo, dopo essere entrato in possesso di alcuni di essi in Medio Oriente, possa essere stato portato, attraverso la Turchia ed i Balcani, in Europa, dove si troverebbe attualmente. Secondo molti storici i Catari deriverebbero dai Bogomil o Bogomili[6], una setta ereticale operante in Bulgaria nel X e nell’XI secolo, i cui missionari si spostarono in Europa Occidentale. M. Baigent, R. Leigh e H. Lincoln, gli autori di “Il Santo Graal – Una catena di misteri lunga duemila anni”, sostengono di essere incappati in alcuni indizi che deporrebbero a favore dell’ipotesi secondo cui i Catari non derivassero dai Bogomili, bensì fossero l’espressione della fioritura di un movimento preesistente in Francia già da alcuni secoli, addirittura fin dall’avvento dell’era cristiana: il manicheismo[7]. Nel 1165 i Catari vennero accusati di eresia e condannati da un concilio ecumenico tenutosi ad Albi, una città della Linguadoca, la regione nord-orientale dei Pirenei, nel sud dell’odierna Francia. A seguito di ciò o forse per il fatto che Albi fu uno dei centri di questo culto, i catari, in Francia, vennero chiamati Albigesi. Nel 1200 le autorità ecclesiastiche a Roma erano seriamente preoccupate per la capillare diffusione del pensiero ereticale cataro in Europa, la cui pericolosa infiltrazione in tutti gli strati della società dell’epoca, dai poveri, ai contadini, dai soldati ai nobili, era promossa ed agevolata dalla dilagante corruzione della Chiesa. Questa situazione emerge in tutta la sua gravità quando S. Bernardo si recò, nel 1145, proprio in Linguadoca, con l’obiettivo di convertire al cristianesimo ortodosso quanti più eretici gli fosse riuscito. Durante la sua disperata missione evangelizzatrice, tuttavia, S. Bernardo rimase disgustato, non tanto dalla dottrina eretica dei Catari, di cui anzi lodò la giustezza e la purezza morale, quanto piuttosto dalla corruzione della Chiesa. Nel 1200 il problema dei Catari si fece ancora più urgente ed i vertici della Chiesa non aspettavano che un pretesto per agire contro gli eretici, pretesto che arrivò puntualmente, il 14 Gennaio 1208, con l’assassinio in Linguadoca di Pierre de Castelnau, un legato pontificio. La Chiesa non esitò ad incolpare dell’omicidio i Catari, nonostante fosse stato probabilmente commesso da un gruppo di ribelli anticlericali che non aveva niente a che fare con i Catari. Papa Innocenzo III, per tutta risposta, mobilitò un vero e proprio esercito per estirpare una volta per tutte l’eresia catara. Era iniziata quella che la storia ricorda tristemente come la Crociata contro gli Albigesi. A capo dell’armata venne posto l’abate di Cîteaux mentre le operazioni militari vennero affidate a Simone di Montfort, affiancato da un alleato, Domenico Guzmán, un fanatico spagnolo divorato dall’odio verso gli eretici e destinato a diventare, nel 1216, capo dell’Ordine monastico dei Domenicani, i quali, a loro volta, nel 1233, avrebbero fondato la crudele istituzione della Santa Inquisizione. Nel 1209 un esercito di 30000 uomini, proveniente dall’Europa Settentrionale, travolse la Linguadoca, dando inizio ad uno sterminio sistematico e capillare. Nel 1218 Simone di Montfort fu ucciso durante l’assedio della città di Tolosa, tuttavia, il genocidio dei Catari in Linguadoca si protrasse per altri venticinque anni, fino al 1243, anno in cui i crociati della Chiesa spazzarono via tutta la resistenza e le principali città e roccaforti catare vennero espugnate, tutte all’eccezione della più importante: la cittadella fortificata di Montségur. La leggenda che narra di come il Graal sia stato nascosto dai Catari nei sotterranei della fortezza di Montségur e di come esso si trovi ancora là, probabilmente, ha origine dal fatto che, in uno dei suoi romanzi, Wolfram von Eschenbach fa sapere che il mistico Castello del Graal, che solo i puri di cuore riusciranno a trovare, era situato sulle montagne dei Pirenei e che si chiamava Munsalvaesche, termine derivato dalla germanizzazione di Montsalvat, una parola catara che significa “Monte Salvato” o “Monte Sicuro” e la cui traduzione, guarda caso, è proprio Montségur. Inoltre, Eschenbach chiama il signore del Castello del Graal Perilla e questa è una curiosa coincidenza poiché il signore di Montségur era un certo Raimon de Pereille ed è interessante notare come il suo nome ricorra sovente nella forma latina, cioè Perilla, in numerosi documenti di quel periodo. Negli anni ’30, Otto Rahn[8], colonnello delle SS, assieme ad Alfred Rosenberg[9], il filosofo del partito nazionalsocialista che lo incoraggiò nei suoi studi sui legami tra i Catari ed il Graal, si recarono, per conto di Hitler, a Montségur ed in altre fortezze catare alla ricerca del Graal. Rahn, difatti, era fermamente convinto che il Castello del Graal fosse Montségur e che quindi, all’interno di esso, i Catari avessero nascosto il calice. Nel 1939, Rahn scomparve misteriosamente e la versione ufficiale fu che si suicidò in cima al monte Kufstein, tuttavia, secondo Gerard de Sede, un famoso occultista francese e autore di Le Trésor Cahtare (“Il Tesoro Cataro”), fu rinchiuso in un campo di concentramento poiché ormai “sapeva troppo”!!! C’è persino chi si è spinto ad affermare che Otto Rahn sia ancora vivo, come Christian Bernadac, autore di Montségur et le Graal e che sia addirittura il Gran Maestro occulto di qualche fanatica e delirante Società Segreta Esoterica di stampo neonazista!!! Ritornando alla storia dell’assedio di Montségur, per ben dieci mesi l’ultima roccaforte catara resistette eroicamente e tenacemente all’assedio posto da oltre 10000 crociati, tuttavia, nel Marzo del 1244, anche Montségur fu costretta a capitolare e con la conquista della cittadella il catarismo, almeno ufficialmente, fu spazzato via nella Francia Meridionale. Ora, è noto che i Catari fossero molto ricchi e ciò non deve stupire, in quanto il movimento godeva delle simpatie e dell’appoggio economico di molti potenti proprietari terrieri francesi, tuttavia, durante la Crociata contro gli Albigesi, la ricchezza dei Catari venne enormemente esagerata e le dicerie secondo cui i Catari possedessero un favoloso tesoro e secondo cui esso fosse gelosamente custodito nei sotterranei di Montségur si fecero sempre più insistenti. Quando la fortezza venne espugnata, tuttavia, nessun tesoro venne rinvenuto. I fautori dell’ipotesi secondo cui il Graal si trovi ancora nei sotterranei della fortezza catara di Montségur, a questo punto, fanno notare come vi siano alcuni curiosi episodi legati all’assedio ed alla capitolazione della cittadella. Nonostante gli assalitori fossero in numero cospicuo, l’accerchiamento della fortezza non era a tenuta stagna ed i catari, con il favore delle tenebre ed approfittando magari di un attimo di distrazione di qualche crociato, potevano entrare ed uscire abbastanza agevolmente dalla fortezza e lo facevano attraverso alcuni varchi creatisi nel cordone che gli assedianti avevano stretto intorno alla montagna su cui sorge Montségur. Attraverso uno di questi varchi, grazie ai quali peraltro gli assediati venivano riforniti di viveri, tre mesi prima che la fortezza venisse espugnata, due catari riuscirono a fuggire. Secondo fonti documentarie considerate storicamente attendibili, i due eretici portarono con sé una parte importante del tesoro, che collocarono, inizialmente in una grotta fortificata sulle montagne e successivamente, in un non meglio identificato castello. A seguito di questa vicenda, del tesoro non si seppe più alcunché. Il 1° Marzo 1244 la cittadella fortificata cadde e gli assedianti posero agli abitanti delle condizioni insolitamente magnanime, a patto che alcuni di essi abiurassero l’eresia che fino a quel momento avevano abbracciato. I Catari di Montségur risposero ai crociati chiedendo loro una tregua di quindici giorni, al fine di valutare con calma le condizioni; durante questo periodo tutte le ostilità nei loro confronti sarebbero dovute cessare. Gli assedianti accettarono la contro-condizione posta dai Catari i quali concedettero, di loro sponte, alcuni ostaggi come garanzia, nel senso che, qualora qualcuno avesse tentato di fuggire dalla fortezza, gli ostaggi sarebbero stati immediatamente uccisi. Oltre duecento Catari, tuttavia, preferirono il martirio ed alla scadenza della tregua vennero catturati, rinchiusi all’interno di una grande recinzione fatta costruire alle pendici della montagna e bruciati tutti vivi. Quattro superstiti, ancora all’interno della cittadella, la notte del 16 Marzo 1244, accompagnati da una guida, fuggirono, calandosi con delle corde dalla pericolosa e ripida parete occidentale della montagna. Secondo la tradizione, quei quattro eretici portarono via il leggendario tesoro dei Catari, tuttavia, tale tesoro, secondo la storia, fu allontanato tre mesi prima. Questa incongruenza storica ed il fatto che sia altamente improbabile che quattro persone si carichino di oggetti pesanti quando devono affrontare una discesa così pericolosa, hanno insospettito non poco alcuni studiosi, i quali hanno proposto una possibile soluzione a questo enigma. Tale soluzione chiama in causa la possibilità che i quattro Catari, in realtà, non avessero con sé un tesoro o una parte di esso, bensì pochi manufatti di grandissimo valore o addirittura uno solo ma di eccezione: il Santo Graal. Secondo la tradizione, ciò che i due Catari fecero uscire da Montségur venne portato nelle grotte fortificate di Ornolac, nell’Ariège, dove però non è mai stato rinvenuto alcunché. Gli autori del libro “Il Santo Graal – Una catena di misteri lunga duemila anni”, tra le tante ipotesi, hanno vagliato anche quella secondo cui il manufatto o i manufatti portati via dalla fortezza catara, siano stati trasferiti a Rennes-le-Château, un’importante roccaforte catara situata nei Pirenei orientali, a circa quaranta chilometri da Carcassonne o in alternativa, in una delle numerose grotte disseminate sulle vicine montagne. Alcuni secoli dopo, sempre secondo tale ipotesi, qualcosa di straordinario sarebbe stato rinvenuto da Bérenger Saunière, il giovane e brillante sacerdote che, nel 1885, all’età di trentatre anni, divenne il nuovo parroco della chiesa del paese, consacrata a Maria Maddalena nel 1059 ed edificata sulle fondamenta di una costruzione visigota ancora più antica, risalente al VI secolo. Nel 1896, difatti, Bérenger Saunière divenne improvvisamente ed inesplicabilmente molto ricco; iniziò, difatti, a spendere grosse somme di denaro con cui restaurò e decorò in modo estremamente bizzarro la chiesa e fece costruire opere pubbliche. Tutta questa ricchezza è alquanto sospetta e non trova una facile spiegazione se non quella che prende in considerazione la possibilità, tutt’altro che remota, che il giovane parroco abbia rinvenuto, all’interno della chiesa o sotto di essa, durante i lavori di restauro o in alternativa, in una delle famose grotte catare che circondano Rennes-le-Château, qualcosa di inestimabile valore economico e/o storico, che, secondo alcuni studiosi, tra cui gli autori del saggio succitato, potrebbe essere identificabile con il Santo Graal. Le leggende che narrano di un favoloso tesoro nascosto dai Catari nei pressi di Rennes-le-Château e quelle, altrettanto insistenti, secondo cui tale tesoro fosse in realtà il Graal, indussero Richard Wagner (Lipsia, 1813 – Venezia 1883) a recarsi a Rennes-le-Château alla ricerca dell’ispirazione per comporre la sua ultima opera: il Parsifal. Anche Adolf Hitler venne a conoscenza di queste leggende e spinto dalla sua ossessione per l’esoterismo e le scienze occulte, inviò un manipolo di soldati che avrebbe eseguito, nelle vicinanze di Rennes-le-Château, numerosi scavi alla ricerca del Graal ma senza trovare alcunché.

A Valencia, in Spagna, nella Capilla del Santo Cáliz, una cappella gotica della Cattedrale della città, è esposto al pubblico un calice che la tradizione ha da sempre ritenuto il Santo Graal. La base del prezioso manufatto è costituita dalla porzione superiore di un calice di cornalina[10] capovolto, lo stelo è adornato da pietre preziose e la parte superiore è una coppa, anch’essa in cornalina. I tre componenti del manufatto risalgono a epoche diverse. Sulla base vi è un’iscrizione araba che è stata tradotta in vario modo e che potrebbe fornire un’indicazione del periodo in cui il manufatto venne realizzato nonché la sua provenienza; difatti, qualora tale iscrizione fosse Alzahira, una cittadella fondata dalla dinastia degli Omaiadi[11] di Cordova, la base del presunto Santo Graal di Valencia, secondo alcuni storici, potrebbe aver fatto parte del bottino di guerra raccolto a seguito dell’assedio di Alzahira in cui gli Omaiadi subirono una grave sconfitta. Lo stelo risale ad un periodo compreso tra il XII ed il XIV secolo mentre la coppa che costituisce la porzione superiore del calice è la parte più antica ed interessante del manufatto ma anche la più difficile da datare. Secondo gli studiosi della Confraternita del Santo Calice dell’Ultima Cena della Cattedrale di Valencia, il Santo Graal potrebbe essere stato portato a Roma da San Pietro; in seguito, durante la persecuzione dei cristiani ordinata dall’imperatore Valeriano, Papa Sisto II, poco prima di venire martirizzato, avrebbe consegnato la reliquia al diacono Lorenzo. Anche costui morì martire, tuttavia, prima di essere ucciso, sarebbe riuscito a far arrivare il Santo Calice nella sua città natale, Huesca. Correva l’anno 258, secondo alcune fonti documentarie, il 261, secondo altre. Nel 713 la Spagna fu invasa dai mussulmani e Audeberto, il vescovo di Huesca, fu costretto ad allontanarsi dalla città ed a rifugiarsi sul monte Pano, isolata dimora dell’eremita Juan de Atarés. Con sé avrebbe portato il presunto Santo Graal. Sulla cima di questa montagna venne edificato il monastero di San Juan de la Peña, dove un manipolo di uomini organizzò un’accanita resistenza contro il dominio dei mussulmani. In effetti esiste un documento del 14 Dicembre 1134 che riporta un elenco dei manufatti custoditi nel cenobio del monastero di San Juan de la Peña, tra i quali vi è anche el Cáliz en que Cristo consacrò su sangre, il calice in cui Cristo consacrò il suo sangue[12]. Il re d’Aragona don Martín el Humano, venuto a sapere della presenza della preziosa reliquia in Spagna ed affascinato dal suo leggendario potere, inviò a San Juan de la Peña degli emissari per chiedere il Santo Calice. A Barcellona è conservato il documento che attesta l’avvenuta donazione della presunta reliquia il 26 Settembre 1399. La reliquia venne trasferita inizialmente nel palazzo reale di Saragozza, dopodiché, durante il regno di don Alfonso el Magnánimo, venne portata nel Palacio del Real, situato presso il fiume Turia, nella città di Valencia. Alla morte di Antonio Sanz, cappellano maggiore della cappella regia, il re di Navarra, don Juan, ritenne opportuno, per ragioni di sicurezza, trasferire la reliquia nella sacrestia della Cattedrale di Valencia. Per ufficializzare il trasferimento del prezioso manufatto, il 18 marzo 1437 venne redatto un documento in cui venne precisato che la reliquia custodita nella Cattedrale di Valencia è il calice in cui Gesù Cristo consacrò il suo sangue durante l’Ultima Cena. In seguito il “Santo Graal” di Valencia venne trasferito ad Alicante nel 1809, a Eivissa nel 1812, a Palma di Maiorca, sempre nel 1812 ed infine nuovamente a Valencia nel 1813, dove è attualmente custodito.            

Secondo una leggenda franco-normanna, Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue ormai coagulato di Gesù nel suo guanto di ferro. Una volta rincasato pose il sangue in un bauletto che consegnò a suo nipote Isacco, il quale partì da Gerusalemme alla volta di Sidone. Giunto in città, Isacco fu avvisato in sogno che la reliquia, se non avesse fatto qualcosa per proteggerla, avrebbe corso di lì a poco un grave pericolo, per cui, trovatosi di fronte ad un albero di fico, si procurò un tubo di piombo, per preservare il sangue dai danni che l’umidità gli avrebbe causato nel tempo, vi introdusse il sangue coagulato, incise la corteccia della pianta fino a ricavarne una cavità abbastanza ampia da accogliere il tubo, ve lo nascose e subito dopo, con suo grande stupore, la cavità si richiuse completamente, senza lasciare la minima traccia. Terminate queste operazioni, tuttavia, Isacco constatò che il fico era situato molto vicino al mare e temette che le onde potessero travolgerlo e sradicarlo. Ossessionato da questo terribile dilemma, al termine di lunghe e faticose elucubrazioni, comprese che probabilmente quella era la volontà di Dio e che perciò bisognava assecondarla, anzi precederla, difatti, decise di segare l’albero all’altezza delle radici, lo trascinò fino al mare e lo abbandonò al suo destino. L’albero arrivò in Gallia, l’odierna Francia, in una regione della Normandia che da quel giorno venne chiamata Fici Campus, oggi Fécamp e non appena venne raccolto, fu inviato un emissario per annunciare ad Isacco che l’albero si era arenato sulla spiaggia integro. Dopo alcuni secoli, il sacro sangue di Gesù venne collocato all’interno di un’ampolla di cristallo che è attualmente custodita nel sacrario dell’Abbazia della Santa Trinità di Fécamp. Secondo uno studioso, Jessie Weston, il Graal sarebbe da identificarsi con questa ampolla.

Tra le molte ipotesi avanzate dagli studiosi ve ne sono due che saranno forse meno conosciute delle altre ma che indubbiamente colpiscono la fantasia degli appassionati per la loro bizzarra originalità. La prima ipotesi, quella secondo cui il Santo Graal si troverebbe in Provenza, una regione della Francia sud-orientale, fu postulata per la prima volta da Alfred Weisen, autore di L’île des veilleurs (“L’isola dei veglianti”), il quale ritiene che il termine Graal possa essere la contrazione linguistica di Gross Aal, il cui significato letterale è “Grande Tempio” e che tale tempio possa essere identificato con una determinata località delle Gorges du Verdon, in Provenza appunto. Tale località, osservata da alta quota, da l’impressione di individuare sul terreno il disegno di un gigantesco zodiaco virtuale di circa 15 chilometri di diametro, delimitato da un complesso sistema idrogeomorfologico di fiumi e sentieri. Questo luogo, detto “l’isola dei veglianti”, è stato considerato, fin dalla più remota antichità, sacro, poiché, secondo gli antichi, riproduceva sulla Terra l’intero universo con tutti i suoi elementi costituenti. In questa suggestiva cornice paesaggistica avrebbe avuto origine anche la dottrina esoterica segreta di Pitagora (VI secolo a.C.), l’Aporreta, secondo alcuni studiosi rappresentata graficamente dal celebre quanto misterioso quadrato magico conosciuto come il Sator, rinvenuto a Pompei. La seconda ipotesi, esposta da Jean Robin nel suo libro, Le Royaume du Graal (“Il reame del Graal”), prende in considerazione la possibilità che il Graal, simboleggiato a seconda del periodo storico da oggetti differenti ma tutti invariabilmente contraddistinti da un elevato valore simbolico, sia l’intera nazione della Francia che, sempre secondo l’autore del libro, sarebbe il paese prescelto da Dio per portare a termine la grande missione salvifica dell’umanità.

            Alcuni studiosi ritengono che il Santo Graal sia indissolubilmente legato alla storia dell’ordine religioso-militare dei Templari[13], i quali ne sarebbero entrati in possesso in Terra Santa e ne sarebbero, in seguito, stati anche i guardiani[14]. I Templari, difatti, ebbero, in più di un’occasione, contatti con la Setta degli Hashishin[15] e da essa, secondo la tradizione, avrebbero ricevuto in dono il Santo Graal che portarono in Francia verso la metà del XII secolo. Qui lo custodirono gelosamente, assieme al resto del loro favoloso tesoro, fino al 1307, anno in cui l’ordine venne accusato di eresia e di praticare la sodomia dal re di Francia Filippo IV, detto Filippo il Bello, con la complicità di papa Clemente V. All’alba di Venerdì 13 Ottobre 1307, Filippo IV ordinò che tutti i Templari in Francia venissero catturati e messi agli arresti, che i loro presidi venissero sequestrati e tutti i loro beni confiscati. L’operazione ebbe un successo parziale in quanto l’obiettivo che più stava a cuore a  Filippo il Bello, ossia il recupero delle immense ricchezze dell’ordine, non venne conseguito. Quando, difatti, gli ufficiali incaricati degli arresti e dei sequestri, accompagnati dal re in persona, irruppero nel Presidio di Parigi, dove era custodito il tesoro, non ne trovarono la minima traccia. La Bolla Pontificia Faciens misericordiam riporta che nel 1308 settantadue Templari furono condotti a Poitiers per testimoniare di fronte al papa Clemente V. Trentatre delle dichiarazioni rilasciate a Poitiers furono pubblicate nel 1887 dallo storico tedesco Conrad Shottmüller mentre altre sette da Heinrich Finke nel 1907. Tra quest’ultime ve n’è una particolarmente interessante, a nome di Jean de Châlons, che riporta una testimonianza di quest’ultimo secondo cui Gerard de Villers, il responsabile del Tempio in Francia, avvertito degli imminenti arresti dei membri dell’ordine, fuggì dal Presidio di Parigi con cinquanta cavalieri e salpò con 18 navi dell’Ordine alla volta di una destinazione ignota. Jean de Châlons aggiunse che un Templare, di nome Hugues de Châlons, fuggì con tutto il tesoro di Hugues de Peraud, il Tesoriere dell’Ordine. Questo è quanto riportano fonti documentarie storiche, tuttavia, è doveroso fare presente che esistono credenze, la cui attendibilità, purtroppo, non è stata verificata ma la cui ampia diffusione nella tradizione popolare suggerisce che possano contenere elementi narrativi storicamente attendibili, secondo cui il tesoro dell’Ordine sarebbe stato caricato nottetempo su tre carri e trasportato fino alla costa, presumibilmente alla base navale dell’Ordine a La Rochelle, dove sarebbe stato trasferito su 18 galee delle quali non si ebbe più alcuna notizia. Sulla base delle conoscenze inerenti questa vicenda, non è possibile stabilire se ciò sia effettivamente avvenuto o se sia solo una delle tante leggende riguardanti la fine dell’Ordine, tuttavia, pare che la potente e temuta flotta dei Templari fosse effettivamente riuscita a sfuggire a Filippo il Bello e ciò sarebbe circostanziato dal fatto che fino ad oggi non è stato rinvenuto alcun documento che attesti il sequestro di una o più navi templari da parte della Corona di Francia. Ad onor del vero tutti e 18 i vascelli della famosa flotta templare sparirono in circostanze alquanto misteriose ed insieme ad essi si volatilizzò anche il carico che avrebbero trasportato. Secondo fonti non confermate, i tre carri non raggiunsero mai la costa, essi terminarono il viaggio fermandosi a Gisors, una fortezza situata in Normandia che ebbe una rilevante importanza strategica e politica al culmine delle Crociate. Se il convoglio avesse trasportato il leggendario tesoro dei Templari e se assieme ad esso ci fosse stato anche il Santo Graal, allora, sia il primo che il secondo potrebbero essere stati nascosti nei misteriosi e parzialmente esplorati sotterranei del castello di Gisors, dove si troverebbero ancora oggi.

            Secondo alcuni studiosi, le 18 galee che salparono dal porto di La Rochelle erano dirette in Scozia, secondo altri, invece, avrebbero fatto vela verso il Nuovo Mondo. In effetti, pare che, all’inizio del XIV secolo, un manipolo di Templari, rocambolescamente sfuggiti alle persecuzioni ordinate da Filippo il Bello e guidati dal Maestro Provinciale di Alvernia, Pietro d’Aumont, fosse giunto in Scozia[16] ed è proprio qui che lo studioso del Graal, Trevor Ravenscroft, nei primi anni ’60, sostenne di aver localizzato il Santo Calice, per la precisione all’interno del Pilastro dell’Apprendista nella Cappella di Rosslyn. Grazie all’impiego del metal detector, difatti, è stato possibile segnalare la presenza di un oggetto metallico nel centro della struttura; purtroppo l’attuale proprietario della Cappella non concede ad alcuno l’autorizzazione ad iniziare i lavori per recuperare il misterioso oggetto celato nella colonna.

Esiste un documento storico che dimostrerebbe che i Templari sbarcarono sulle coste del Nuovo Mondo quasi un secolo prima di Cristoforo Colombo (Genova 1451 – Valladolid 1506); tale documento riporta che il principe Henry Sinclair, primo Conte Saint Clair delle Orcadi, commissionò, con il denaro dei Templari, una flotta di dodici navi con cui raggiunse il Nuovo Mondo ed al comando della quale pose il capitano Antonio Zeno. La spedizione sbarcò in Nuova Scozia ed esplorò la costa orientale degli odierni Stati Uniti prima del 1400. Poco dopo essere tornato in Europa, Henry Sinclair fu assassinato. William Crooker sostiene che il tesoro dell’Ordine ed il Santo Calice costituirono il prezioso carico che la flotta allestita da Henry Sinclair trasportò nel Nuovo Mondo nel 1398 e che essi vennero abilmente nascosti nel celebre money pit (letteralmente, pozzo del denaro), un profondissimo pozzo non ancora esplorato che nel corso degli anni ha suscitato l’interesse e la curiosità di numerosi storici ed archeologi.

Altre leggende narrano che chiunque beva dal Sacro Graal sarà pervaso da un incomparabile coraggio e da un’audacia mai vista, inoltre acquisterà la capacità di sconfiggere ogni nemico e di dominare la natura e gli uomini. Il Sacro Calice, tuttavia, può essere anche apportatore di terribili mali in quanto, secondo antiche leggende, esso sarebbe in grado di scatenare una devastante forza distruttrice su chiunque non dimostri di meritare i suoi benefici effetti perché di indole malvagia ed empio; la punizione che la giustizia divina riserverebbe in questo caso a chi non fosse degno di bere dal Graal sarebbe l’immediata folgorazione ed il totale annientamento!! Vi sono anche antiche leggende su alcune prove di coraggio e di valore a cui lo scopritore del Graal deve sottostare prima di entrarne in possesso. Una di queste sfide consiste nella cosiddetta prova del guanto: il temerario che riuscisse a trovare il nascondiglio del Santo Calice dovrà infilarsi una sorta di guanto nella mano destra, se sarà degno di proseguire e di impossessarsi del Santo Graal, la parte destra del suo corpo ne trarrà immenso beneficio, in caso contrario, l’intero corpo verrà orribilmente e perennemente deturpato e deformato.

 

             

Bibliografia

 

 

*   Il Graal – La ricerca infinita, di John Matthews. Xenia Tascabili, 1990.

*   Il Santo Graal – Una catena di misteri lunga duemila anni, di M. Baigent, R. Leigh, H. Lincoln. Religioni Oscar Saggi Mondatori, 1982.

*   Dov’è nascosto il Santo Graal? – Fonte Internet.

*   Sito web ufficiale della Confraternita del Santo Calice dell’Ultima Cena della Cattedrale di Valencia.

*   I Templari, di Enrico Badellino. Xenia Tascabili, 1996.

*   La Chiave di Hiram Dal tempio di Salomone ai rituali massonici: sulle tracce dei manoscritti segreti di Gesù, di Christopher Knight e Robert Lomas. Arnoldo Mondadori Editore, 1997.

*   Sindone: la prova, di Pierluigi Baima Bollone. Arnoldo Mondadori Editore, 1999.

*   L’Enciclopedia dei Misteri, di Alfredo Castelli. Oscar Mondadori, 1993

*   Il Dizionario dei Misteri – I segreti di Re Artù, a cura di Alfredo Castelli. Sergio Bonelli Editore, 1994.

*   Almanacco del Mistero 1992 – Guida illustrata al mondo misterioso, a cura di Alfredo Castelli. Sergio Bonelli Editore, 1992.

*   Le Terre del Mito – Viaggio alla ricerca delle terre leggendarie, di Roberto D’Amico. Casa Editrice MEB, 1979.

*   Atlante dell’esoterismo: Alchimia – La chiave dell’immortalità. Il segreto della pietra filosofale, di Valerio Zecchini. Edizioni Demetra, 2000.

*   Paranormale. Dizionario Enciclopedico. Oscar Mondatori, 1986.

*   Il Tantrismo – Il gioco della dea, di Marilia Albanese. Xenia Tascabili, 1996.

*   Pakistan – Karakorum Highway, di Cristina Gambero. CittàStudiEdizioni s.r.l., 1995.

*   L’arte italiana – le sue radici greco-romane e il suo sviluppo nella cultura europea, di Piero Adorno. Volume terzo – Dal settecento ai giorni nostri. Casa Editrice G. D’Anna, Messina-Firenze 1986.

*   Nuova Enciclopedia Universale Curcio – delle lettere, delle scienze, delle arti. Armando Curcio Editore.

*   Enciclopedia delle Scienze De Agostini. Geologia Minerali Rocce. Volume II. Istituto Geografico De Agostini – Novara, 1983.

 

 

 

 


 

[1] Elena (nata nella seconda metà del III secolo – morta forse a Costantinopoli nel 336 c.): santa. Madre di Costantino I, si convertì al cristianesimo ed influenzò notevolmente la politica religiosa del figlio. Fondò basiliche nella Città Eterna, quale ad esempio S. Croce in Gerusalemme, in cui, secondo la tradizione, è tuttora custodito un frammento della Croce di Cristo da lei rinvenuta in Terra Santa.

 

[2] Arimatea: l’antica Ramataim, patria di Samuele (1 Sa 1,1), oggi er-Ram, 9 Km a nord di Gerusalemme.

[3] John Dee: matematico, medico, astrologo e cristallomante inglese. Tra gli studiosi più eruditi del suo tempo, John Dee si laureò al Trinity College di Cambridge e nel corso della propria vita scrisse numerose opere di carattere scientifico. Nel 1581 iniziò ad avere delle visioni ed un anno dopo l’angelo Uriel gli avrebbe consegnato una sfera di cristallo grazie alla quale sarebbe stato in grado di entrare in contatto con entità ultraterrene. L’impossibilità di ricordare le visioni avute lo costrinse a cercare qualcuno che lo facesse per lui e trovò la persona giusta e l’amico fidato in Edward Kelly (m. 1593 o 1597). Costui, negromante e profanatore di tombe, alchimista ed occultista inglese, noto con il nome iniziatico di Talbot, subì la pena della mutilazione delle orecchie, inflitta a quell’epoca a chi praticasse la necromanzia e violasse i sepolcri. Le visioni precognitive, tuttavia, raramente preannunciavano eventi che poi si verificavano ed i fenomeni paranormali che si manifestavano nel corso di tali visioni erano sporadici, a tal punto da indurre i biografi del Dott. Dee a ritenere che la stragrande maggioranza dei prodigi che accompagnarono la vita dell’erudito occultista in realtà non fossero altro che un’esagerazione se non addirittura un’invenzione della fertile e perversa fantasia del Kelly. John Dee si occupò anche di alchimia e quando fu convocato dal facoltoso nobile Albert Laski, in Polonia, tentò senza successo di trasmutare il ferro in oro. I due, successivamente, giunsero a Praga, la Città Magica per eccellenza, dove, alla corte dell’imperatore Rodolfo, sovrano appassionato di esoterismo e di scienze occulte, praticarono l’alchimia e le arti magiche, fino a quando non furono allontanati per l’intervento del nunzio papale. L’amicizia tra i due occultisti si incrinò quando Kelly si infatuò della consorte di John Dee. Edward Kelly morì in Germania durante un tentativo di evasione dalla prigione in cui era detenuto per vari reati commessi in questo paese mentre il Dott. Dee, una volta tornato in Inghilterra, divenne povero e trascorse gli ultimi anni della sua avventurosa e turbolenta vita predicendo il futuro in cambio di denaro e scrivendo le proprie memorie. Di John Dee si dice ma anche questa è leggenda, che sia riuscito a realizzare la più potente Mano di Gloria mai esistita, nota come Sigillum Emeth, poi andata persa con la sua morte, un potentissimo oggetto nero consistente nella mano mummificata di un morto impiccato e successivamente sottoposta a complessi rituali per orientare il suo immenso potere magico verso finalità specifiche. Per quanto ci è dato di sapere, nel mondo, esisterebbero solo tre esemplari di Mano di Gloria: una, in ottimo stato di conservazione, è di proprietà di un pittore italiano, l’altra si troverebbe da qualche parte a Praga ma di essa, purtroppo, non si hanno notizie certe mentre la terza è custodita in un museo privato in Inghilterra ed a quanto pare non sarebbe in buone condizioni.

 

[4] E’ interessante notare come il fulcro narrativo dei Vangeli e della vicenda semileggendaria del viaggio e della missione evangelizzatrice di Giuseppe d’Arimatea in Britannia sia costituito da un gruppo di uomini caratterizzato dalla medesima combinazione numerica: 1 + 12. Nei Vangeli, difatti, troviamo Gesù ed i suoi dodici apostoli mentre nella vicenda di Giuseppe d’Arimatea troviamo quest’ultimo affiancato da dodici compagni missionari.

[5] Catari: dal latino medievale cathărus che a sua volta deriva dal greco canaroz che significa puro. I Catari erano i membri di antiche sette ereticali, quali ad esempio i novaziani ed i manichei. In generale il termine Catari si riferisce ad una determinata setta di eretici vissuti nel Medio Evo e che assunsero anche altri nomi: albigesi in Francia, patarini o albanesi in Italia, ecc. Il fondamento filosofico-religioso del catarismo è costituito dalla dualità; i catari, difatti, ritenevano che dal principio del Bene o Dio derivassero le realtà spirituali mentre dal principio del Male o Satana le creature materiali. L’uomo, quindi, è il risultato dell’unione di spirito e materia, di bene e di male. I Catari erano fermamente convinti che Gesù salvò l’umanità senza però espiarne le colpe bensì facendole prendere coscienza del fatto che l’anima ha una natura divina. I Catari non credevano che Dio e Gesù fossero la stessa “persona” o che il secondo si fosse fatto uomo, ritenevano che Cristo fosse un angelo inviato da Dio che assunse le sembianze di un uomo. I proseliti di questa setta eretica non credevano neanche ai sacramenti, alla messa, all’esistenza del Purgatorio ed alla resurrezione dei morti, tuttavia praticavano forme estreme di ascetismo quale la ricerca della morte con il suicidio o attraverso il digiuno, detta enduro e si sottoponevano ad uno stretto regime alimentare di tipo vegetariano. Credevano nella reincarnazione, erano contrari al matrimonio e condannavano la proprietà dei beni terreni. 

 

[6] Bogomili: termine bulgaro che significa “cari a Dio”. Membri di una setta ereticale, nata in Bulgaria nel secolo X e fondata dal Pope Bogomil che iniziò la sua missione evangelizzatrice tra il 927 ed il 950. Il fondamento ideologico-religioso dei Bogomili consisteva nel principio del dualismo, principio probabilmente mutuato dalla dottrina manicheista e dal paulicianesimo, che opponeva Dio, il creatore di tutte le realtà spirituali ed eterne a Satana, l’artefice di tutto ciò che è materiale e corruttbile.  

 

[7] Manicheismo: religione di ispirazione gnostico-cristiana nata in Persia nel secolo III d.C: e fondata da Mani (Mardinu o Afrunya, Mesopotamia, 215 o 216 – Gundēshāhpuhr 273 o 277), noto in Occidente anche come Manicheo. La dottrina manichea si fonda su un profetismo che avrà termine solo con la venuta di messaggeri celesti ossia con il Paraclito, con cui Mani si identifica e sulla natura dualistica dell’universo, dominato da due principi complementari ed opposti: il Bene, la Luce ed il Male, le Tenebre. Sia l’uomo che l’universo sono costituiti da ambedue questi elementi.

[8] Otto Rahn: archeologo dilettante, provetto scalatore ed autore di Crosaide contre le Grail e La cour de Lucifer, Rahn nasce come un intellettuale ed uno studioso delle civiltà di lingua romanza. Nel 1935 entrò a far parte dello Stato Maggiore del Reichsführer Himmler per conto del quale, probabilmente, intraprese una spedizione in Italia dove visitò Genova, Milano, Roma, Verona, Merano, Bolzano, Bressanone, spinto dalla presenza in queste città di tracce catare il cui studio avrebbe potuto consentirgli di localizzare il nascondiglio del Graal. Rahn narra le tappe del suo viaggio in Italia in La cour de Lucifer, pubblicato nel 1937.

 

[9] Alfred Rosenberg: amico personale di Adolf Hitler (Braunau, Alta Austria, 1889 – Berlino 1945), conobbe quest’ultimo nell’ambito della Società Segreta Esoterica tedesca conosciuta come Società Thule, della quale faceva parte assieme ad altri oscuri personaggi destinati ad influenzare non poco il pensiero e le azioni di Hitler. Tentò anche di ripristinare il paganesimo in Germania per farne la religione ufficiale.

[10] Cornalina: altrimenti detta corniola, è una varietà di calcedonio di colore rosso intenso. Il calcedonio è a sua volta una varietà di quarzo (SiO2) microcristallino. Il nome di questa pregiata varietà di calcedonio deriva dal latino cornum, termine che gli antichi romani assegnavano alle bacche del corniolo, pianta appartenente alla famiglia delle Cornacee, dai piccoli frutti di colore rosso cupo. La corniola era nota e ricercata dai romani che la estraevano dai giacimenti dell’Arabia, dell’India e della Persia e la lavoravano per farne preziosi oggetti ornamentali.

 

[11] Omaiadi: dinastia di califfi arabi a capo dell’impero mussulmano dal 661 al 750. Fondata da Mu’āwiya ibn Abī Sufyān, della famiglia dei Banū Umayya, la dinastia degli Omàyyadi venne rovesciata dagli Abbasidi. Un nipote del califfo Hishām (724-743) sopravvisse e nel 755 fondò in Spagna un emirato indipendente che durò fino al 1031.

 

[12] Secondo un’altra versione della leggenda il Graal giunse in circostanze misteriose, forse portato dai Catari, a San Juan de la Peña nel 1060.

 

[13] Ordine dei Cavalieri Templari: ordine cavalleresco monastico-militare fondato nel 1118 o 1119 da Hugh de Payns, Geoffroy de Saint-Omer ed altri sette cavalieri per ordine di San Bernardo da Chiaravalle (Fontaines-lès-Dijon 1090 c. – Clairvaux 1153), al fine di garantire la sicurezza dei pellegrini che si recavano a Gerusalemme per visitare il Santo Sepolcro. I Templari, pur essendo laici, seguivano rigorosamente le tre regole di S. Agostino (Tagaste 354 d.C. – Ippona 430): castità, obbedienza e povertà. L’Ordine comprendeva i Cavalieri, che indossavano un mantello bianco con una croce rossa, i Cappellani, i Sergenti, gli Artigiani e gli Scudieri, il cui mantello era bruno. All’inizio i suoi membri furono chiamati Christi Milites (Cavalieri di Cristo), dopodiché, una volta stabilitisi a Gerusalemme, nell’ala orientale del palazzo di re Baldovino II, edificato sulle rovine dell’antico Tempio di re Salomone, il nome divenne Milites Templi  (Cavalieri del Tempio) e da qui Templari.

 

[14] Alcuni studiosi ritengono che San Bernardo da Chiaravalle sia venuto a conoscenza del fatto che sotto il Tempio di re Salomone, a Gerusalemme, era nascosto qualcosa di molto prezioso e potente e che, per poter recuperare questo qualcosa, abbia istituito l’Ordine dei Cavalieri del Tempio. In effetti i primi nove cavalieri dell’Ordine risedettero per ben nove anni nel palazzo reale di Gerusalemme senza che alcun altro venisse accolto nella loro confraternita e durante questo periodo sembra che essi abbiano scavato tunnel e gallerie sotto il Tempio di re Salomone alla ricerca del misterioso manufatto tanto agognato da San Bernardo da Chiaravalle (vedi “I Templari ed il Tempio di Salomone” di Enrico Baccarini, n° 3 Maggio-Giugno 2002 di Archeomisteri, pagg. 78-85). A seconda degli studiosi, i nove cavalieri avrebbero rinvenuto, in una non meglio definita stanza segreta sotterranea nell’area dove sorgeva il Tempio, l’Arca dell’Alleanza, che i sacerdoti della tribù israelita dei Leviti avrebbero trasferito poco prima che il re di Babilonia Nabucodonosor (604 – 562 a.C.), nel 586 a.C., conquistasse Gerusalemme, saccheggiando e distruggendo parzialmente il Tempio di re Salomone o i segreti costruttivi che consentirono di edificare le splendide cattedrali gotiche che proprio in quel periodo iniziarono ad essere erette in tutta Europa o ancora, antichissime carte nautiche, su cui sarebbe stata tracciata la rotta per il Nuovo Mondo e grazie alle quali i Templari avrebbero raggiunto segretamente, tre secoli prima di Colombo, il continente americano (le stesse carte nautiche sarebbero servite anche a Cristoforo Colombo per scoprire l’America il 12 Ottobre 1492) o infine, il Santo Graal.

 

[15] Setta degli Hashishin: setta islamica eterodossa degli ismailiti, estremista e terrorista, il cui nome significa “consumatori di hashish” o “assassini” o secondo un’altra etimologia, “guardiani”. Nel 1090 dette vita ad una tenace resistenza contro i Turchi Selgiuchidi che nel 1055 conquistarono Baghdad. La strategia adottata dagli adepti di questa setta consisteva nell’eseguire omicidi politici dopodiché gli assassini si rifugiavano nell’impenetrabile fortezza di Alamut, costruita sui monti Alburz, a sud del Caspio, nei pressi di Rudbar. La leggenda narra che il capo della temutissima setta degli hashishin, il persiano Al Hasan Ibn As-Sabbah, detto il Vecchio della Montagna o Gran Maestro, avesse fatto riprodurre, in un’ala segreta della fortezza di Alamut, il paradiso dei mussulmani, completo delle 72 vergini, le Urì, di fontane e di fiumi di latte e miele e che vi facesse portare i suoi seguaci, una volta fatti narcotizzare con forti dosi di hashish. Arrivati nel falso paradiso, gli adepti, convinti che fosse reale a causa degli effetti della droga, si abbandonavano ai piaceri che quel luogo concedeva loro ma per breve tempo, poiché venivano nuovamente narcotizzati e riportati al mondo reale. Il Vecchio della Montagna, difatti, contava sul fatto che i suoi seguaci, dopo avere goduto dei piaceri del finto paradiso, sarebbero stati disposti a tutto pur di ritornarvi. Ed aveva ragione. Anche prima di entrare in azione i membri della setta erano soliti consumare abbondanti dosi di hashish ed era proprio grazie alla droga che essi acquisivano quella fredda determinazione omicida che li contraddistingueva. Il sapiente uso che il “Vecchio della Montagna” faceva delle sostanze stupefacenti, quindi, era il segreto della totale dedizione che gli adepti della setta gli dimostravano e tale fanatica devozione, messa peraltro in evidenza dallo stesso Marco Polo (Venezia o Curzola 1254 – Venezia 1324) nel Milione, emerge in tutta la sua drammaticità in un aneddoto riportato da Maurice Bouisson nella sua “Storia della Magia”. Tale aneddoto riguarda il califfo Sinjar il quale, accerchiata con un’armata la fortezza di Alamut, una notte scorse un pugnale conficcato nel terreno ed avvolto da una pergamena. Il messaggio conteneva esplicite minacce e memore delle terribili gesta del “Vecchio della Montagna” e dei seguaci della sua setta, decise di inviare degli ambasciatori nella fortezza. Gli emissari del califfo furono ricevuti nel castello di Al Hasan Ibn As-Sabbah da una lunga fila di giovani adepti vestiti di bianco e con un turbante ed una cintura di colore rosso: i fidawi. Ad un certo punto Hasan fece un cenno ed uno dei proseliti estrasse il proprio pugnale e si recise la gola senza la minima esitazione, dopodiché il capo della setta alzò lo sguardo su una torre ed immediatamente un altro adepto si gettò nel vuoto, sfracellandosi nel piazzale. Il 12 Giugno 1124 Al Hasan Ibn As-Sabbah morì ed il potere della setta iniziò a diminuire e nel 1265 i mongoli di Hugalu, nipote di Genghiz Khan (1155 c. – 1226), assediarono la fortezza di Alamut che si arrese agli invasori. In Libia ed in molti altri paesi del mondo, quali gli Stati Uniti, l’Inghilterra e l’India settentrionale, vi sarebbero ancora oggi seguaci di questa antica setta.     

[16] I Templari che ripararono in Scozia sarebbero entrati a far parte della Loggia pre-massonica di Kilwinning, i cui affiliati, peraltro, sarebbero stati i costruttori delle cattedrali scozzesi. I Cavalieri del Tempio, una volta giunti in Scozia, si sarebbero subito schierati dalla parte del re Roberto Bruce e il 23 Giugno 1314, lo avrebbero aiutato nella battaglia di Bannockburn contro il re d’Inghilterra Edoardo II, scontro risoltosi con la vittoria del re scozzese. In segno di gratitudine quest’ultimo avrebbe istituito per i Templari superstiti l’Ordine dei Cavalieri di S. Andrea di Scozia, investendo tale Ordine dell’autorità di Sovrano Capitolo della presunta Loggia di Kilwinning. All’interno di quest’ultima, quindi, confluirono i Cavalieri di S. Andrea e da questa insolita fusione avrebbe avuto origine l’Ordine Reale di Scozia o di Heredom di Kilwinning, dal quale, a sua volta, sarebbe successivamente derivato, nel 1440, l’Ordine Inglese del Cardo. Purtroppo i ricercatori non dispongono di notizie storicamente attendibili su questo Ordine fino al 1737, anno in cui Andrea Michele di Ramsay si recò in Francia per fare opera di proselitismo. Il suo obiettivo era quello di ingrandire le fila di una Loggia massonica da lui stesso fondata ed ai vertici della quale vi erano dei presunti Cavalieri del Tempio, sedicenti detentori della segreta conoscenza sapienziale degli originali Templari. La Massoneria di Ramsay venne riconosciuta dal Rito Riformato di Dresda e dal Capitolo di Clermont che nel 1758 divenne il Consiglio degli Imperatori d’Oriente e d’Occidente, dal quale, a sua volta, sarebbe derivata l’attuale Massoneria di Rito Scozzese Antico e Accettato. La teoria brevemente esposta, anche se non priva di punti oscuri, è una delle più accreditate sul legame storico tra l’Ordine dei Templari e la Massoneria di Rito Scozzese e sulla diretta discendenza della seconda dal primo e qualora si rivelasse storicamente attendibile, potrebbe dimostrare che i Templari si recarono effettivamente in Scozia.