1° Simposio Mondiale su

Scienza, Tradizione e dimensioni del Sacro

dal titolo: Profezie e nuovo millennio

 

 

 

Tessiture e suggestioni della tradizione oracolare femminile

 

Selene Ballerini

 

 

Parlando di profezie, e quindi di previsione degli eventi futuri, la prima domanda che occorre porsi, quella preliminare che funge da sottofondo a qualsiasi altro dubbio, è se, quanto e come divinare sia plausibile. Un interrogativo che implica due scabrose quanto controverse questioni, e cioè se esiste il libero arbitrio e come possano intrecciarsi eventi e situazioni connessi a differenti tempi, spazi e persone in una Maxigriglia tanto armonica da poter essere in qualche modo prefigurata. Scartando per assunto che a ispirare sia un’entità divina: l’interpretazione soprannaturale, infatti, per risultare ragionevole è costretta a fondarsi su qualcosa al di fuori di sé, mentre quel che qui interessa tratteggiare è una verosimile ipotesi sul meccanismo del tempo e della realtà nel suo intrinseco funzionamento.

Limitando dunque il campo a un’indagine di carattere filosofico va anzitutto rilevato che qualsiasi teoria si formuli in merito a tali dilemmi esistenziali dipenderà dalla concezione del mondo sottesa al nostro ragionamento. Così gli antichi pensatori greci, di ciò ben consapevoli, si sforzarono di elaborare un sistema ontologico che fosse conforme alla loro convinzione di base, ossia che l’Universo è Uno e inscindibile, una visione che comporta l’interconnessione continua, eterna, totale fra le sue varie componenti. Come scrisse Plotino nel III secolo d.C., “tutta questa unità ... è stretta nella comunione della simpatia e ciò che è lontano è vicino”, per cui nessuna parte del cosmo “è spazialmente tanto lontana da non essere vicina, per la tendenza alla simpatia che esiste fra tutte le parti dell’unitario vivente” (Enneade IV, 4, 22). E ancora si legge nel celebre testo ermetico Pimandro, risalente più o meno alla stessa epoca: “la materia è una e il mondo intero … è la pienezza di vita” (ed. Atanor, p. 52, 75). Idee in seguito riprese da Giordano Bruno, secondo il quale, appunto, l’unica anima del mondo “vien partecipandosi senza mutazione, uguale in tutte le cose” (“Cabala del cavallo pegaseo”, Opere italiane, Gentile, 1925-1927, II vol., p. 274).

Ma se davvero viviamo, ipotizziamolo come canovaccio di lavoro, all’interno di un Maxicongegno Cosmico nel quale ogni elemento influenza l’altro e siamo tutti al tempo stesso ingranaggi di una Macchina che ci comprende e coordina, ha ancora senso parlare di libero arbitrio? In quale misura, insomma, ci è permesso interagire con questo immenso Programma di cui siamo parte indivisibile?

Potremmo forse azzardare, ambiguamente ma non troppo, che il libero arbitrio esiste e al contempo non esiste. Non esiste perché essendo fatti in una certa maniera, e nati in una certa epoca e in un certo luogo, e immersi in una fitta ragnatela con cui condividiamo questo specifico livello di manifestazione dobbiamo fatalmente seguire il nostro destino, identificabile con il nostro stesso essere, l’Io più radicale e profondo. Eppure sotto certi aspetti il libero arbitrio esiste, perché in questa vasta e articolata rete esistenziale possiamo pur sempre usufruire di opzioni, scegliere nel perimetro delle potenzialità la nostra reazione agli eventi e cercar di mutarne almeno parzialmente il corso. O, meglio ancora, trasformare noi stessi e partecipare così da protagonisti al variegato e misterioso Spettacolo, o Gioco di Specchi, nel quale viviamo, dove ogni cosa è riflesso e rimando dell’altra.

“Ciò che sta in alto è come quel che sta in basso e ciò che sta in basso è come quel che sta in alto per fare il miracolo di Una Cosa Sola” è scritto in un altro testo ermetico, la Tabula Smaragdina. E proprio per esprimere una rappresentazione simile Platone qualche secolo prima aveva addirittura “immaginato” nei suoi Dialoghi un Dispositivo Metafisico che dall’aldilà regolerebbe gli avvenimenti tramite il loro incastro reciproco, nonostante le varie differenze. Nel Politeia descrisse infatti il “fuso della Necessità”, dal quale sarebbero determinati tutti gli eventi dell’universo: un oggetto formato da otto fusaioli inseriti l’uno nell’altro e il cui moto complessivo sarebbe azionato dalle tre Moire, figlie di Necessità. “E Làchesi canta le cose che furono, Cloto le presenti, Atropo le cose che saranno. E Cloto con la mano destra … fa volgere … l’esteriore rivoluzione del fuso. Atropo invece colla mano sinistra mette in moto a regolari intervalli la rivoluzione interna. Làchesi da ultimo, alternativamente, va regolando ora l’una ora l’altra rivoluzione, con l’una mano e con l’altra” (Platone. “Politeia”, I dialoghi, Rizzoli, 1964, vol. 2, 617 b-c-d).

È curioso notare che un simile sistema di rotazioni inverse tra piattaforme dissimili per esemplificare il modellarsi reciproco degli accadimenti lo ritroviamo nell’antica Cina, dove una delle più arcaiche forme di divinazione — spiega la psicologa junghiana Marie-Louise Von Franz — consisteva appunto “nel disegnare il Vecchio Ordine Celeste [tempo eterno] su una tavoletta rotonda, che rappresentava il cielo, e il Giovane Ordine Celeste [tempo ciclico, cronologico] su una tavoletta quadrata, che rappresentava la terra. Si faceva poi passare un bastone attraverso il foro centrale delle due tavolette e le si faceva ruotare in senso contrario. In base al modo in cui esse si sovrapponevano nel momento in cui si fermavano … si poteva leggere la situazione” (Le tracce del futuro. Divinazione e tempo, RED, 1986, p. 130-131).

Anche Arthur Schopenhauer, verso la fine dell’Ottocento, volle dire la sua su questa scottante tematica, congetturando nel saggio Speculazione trascendente sull’apparente disegno intenzionale nel destino dell’individuo (1891, Boringhieri 1963) l’esistenza di una sovrapersonale Volontà di vivere che “sogna” la vita (ma “in un modo tale che tutte le sue personae lo possono sognare insieme a lui”, per cui “tutto è reciprocamente armonizzato e connesso”) e dalla quale s’irraggia sotto forma di meridiani la sfera del mondo oggettivo. Questi meridiani s’incontrerebbero con cerchi paralleli simboleggianti il mondo soggettivo. Accade così che nella nostra vita entrambe le connessioni “esistano simultaneamente e lo stesso avvenimento, pur essendo un anello di due catene completamente diverse, si adatti con precisione a entrambe, per cui il destino di un individuo … si conforma al destino di un altro … e ciascuno è l’eroe del proprio dramma pur comparendo simultaneamente come comparsa in un dramma altrui”. Tutto ciò — commenta il filosofo, sbalordito dalle proprie stesse riflessioni — “va oltre le nostre capacità di comprensione e si può ritenerlo possibile solo in virtù della più meravigliosa harmonia prestabilita”.

Tirando le fila della nostra catena di considerazioni e riprendendo in base a quest’ottica, ispirata a un prototipo di universo olistico, i quesiti iniziali possiamo proporre la seguente risposta: il libero arbitrio perde la sua ragion d’essere in un contesto dove tutto si sviluppa per corrispondenze e per analogie, dove ogni oggetto è concreto, virtuale e simbolico al tempo stesso, dove la realtà non presenta caratteristiche lineari ma è plurisfaccettata e stratificata in un intersecarsi armonizzato di piani paralleli. E “se nell’universo domina la corrispondenza” — per usare ancora una volta le parole di Plotino — “anche il presagire è ben possibile” (Enneade III, 6).

Tale paradigma è oggi sorprendentemente confortato dal modello di universo prospettato dalla Nuova Fisica, che sta ridefinendo la realtà secondo tracciati di pensiero incredibilmente affini, per non dire identici, a quelli della tradizione magico-ermetica. La scienza odierna c’informa infatti che non bisogna affidarsi ai sensi come inoppugnabile criterio di valutazione, e che l’oggettività in quanto tale non esiste dato che non si può monitorare un fenomeno senza turbarlo o condizionarlo (per esempio le unità subatomiche della materia paiono ora particelle ora onde a seconda di come vengono osservate), e che spazio e tempo sono plasmabili, e che due grani di realtà non sono più separabili una volta che siano entrati in contatto, e infine che i 4 campi fondamentali del nostro piano di esistenza (e cioè il gravitazionale, l’elettromagnetico, il nucleare forte e il nucleare debole) altro non sono che aspetti diversi di un unico campo soggiacente, il “Campo Unificato”, rispetto al quale ogni entità si rapporta come un’onda in relazione al mare, secondo l’illuminante metafora usata sia dai filosofi orientali (ma anche occidentali) sia dagli esponenti della Nuova Fisica.

Non fa allora meraviglia che Carl Gustav Jung nel suo prometeico tentativo di giustificare archetipicamente il processo divinatorio (perché sul fatto che funzionasse non aveva perplessità dopo le sue molteplici sperimentazioni) abbia chiesto collaborazione proprio a un fisico, e a uno del calibro di Wolfgang Pauli, Nobel 1945.

Insieme i due geni produssero uno schema a croce di questo tipo:

 

         Energia indistruttibile

Causalità ------------+-------------- Sincronicità

Continuum spazio-temporale

 

dove accanto alle classiche categorie di spazio, tempo e causa-effetto era introdotta la Sincronicità, termine con cui si volevano indicare quelle coincidenze significative che correlano e fanno accadere sincronicamente — senza causa apparente — circostanze conformi l’una con l’altra, ovverosia che esprimono un’identica situazione concettuale.

In questo fenomeno, spiega Marie-Louise Von Franz (Psiche e materia, Bollati Boringhieri, 1992, p. 34-35), Jung vide una prova empirica dell’unicità del cosmo: la Sincronicità, insomma, sarebbe una sorta di “corrispondente parapsicologico dell’Unus Mundus”, quell’Universo Unico di cui parlano i trattati ermetici e adesso — lo abbiamo visto — anche i nuovi scienziati. Mundus nel quale, al di là del manto variegato delle forme apparenti, esiste una perfetta concordia fra i due piani dell’esistenza, il Macro e il microcosmo, il mondo delle idee e quello della loro manifestazione.

Un’immagine frequentemente usata per esprimere tale sequela di concetti è quella (cui accennavamo prima) dell’onda, che si forma appunto sulla cresta del mare di cui fa parte per subito annullarsi e diventare un’unica sostanza con la massa acquosa. Un’ulteriore figura, altrettanto pregnante, è la rete, che rende bene l’idea di un insieme fatto d’incroci, d’informazioni scambiate lungo percorsi dove il centro è ovunque e in nessun luogo e ogni parte non è meno necessaria delle altre per l’esistenza del loro Totale.

Quest’ultima allegoria, che illustra la realtà universa come una configurazione reticolare, c’introduce a un altro importante aspetto del profetare: la sua intima connessione con la Femminilità. Una relazione che risale ai tempi preistorici e ch’è poi stato accolta ed esplicitata da quasi tutte le civiltà.

Parlando del dono della profezia Platone nel Fedro citava quasi unicamente figure femminili: la profetessa di Delfi, le pitonesse di Dodona, la Sibilla… A cui, nel contesto pagano, vanno aggiunte Divinità come le Valchirie, le Norne, le Parche, tutte reggitrici del Fato. E perfino nella tradizione cristiana — così refrattaria alla sacralità femminile — sono numerosissimi i casi in cui a ispirare profezie è stata la Madonna, la quale, pur in un ruolo fortemente devitalizzato, rappresenta comunque l’ultima erede delle gloriose Dee del paganesimo.

 

L’Utero e la Voce

Della tessitura dunque, intesa nella sua valenza simbolica di ordito e trama degli eventi, nel mondo antico erano detentrici una o più Divinità lunari in qualità appunto di Dee-del-Fato. Pure le Moire, alle quali facevamo riferimento a proposito dell’arte di intrecciar nodi tra gli accadimenti, venivano chiamate “Filatrici”, dal nome della prima di loro, Cloto, che significa proprio Filatrice. Come i ragni (animali spesso collegati alla divinazione, ad esempio fra i camerunensi e i peruviani Incas) queste Divinità secernono da Se Stesse i destini umani, dei quali decretano inizio, sviluppo e fine, e i loro attributi iconografici ricorrenti sono fusi, telai, canocchie, nodi, trecce.

Lo stretto legame già esistente nel Neolitico europeo fra la Grande Dea in quelle remote epoche venerata e la filatura è dimostrato, secondo l’archeologa lituana Marija Gimbutas, “dalla comparsa dei suoi segni e delle sue fattezze sui pesi da telaio: chevron, M, un volto con becco e una figura stilizzata formata da triangoli” (Il linguaggio della Dea, Longanesi, 1989, p. 68); usando questo strumento la filatrice — osserva l’antropologo Gilbert Durand — “è padrona del movimento circolare e dei ritmi, come la dea lunare è signora della luna e delle fasi” (Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo, 1972, p. 322). Un rapporto certo non estraneo ai misteri della corporeità femminile: non a caso, ha scritto lo psicologo del profondo Erich Neumann, “parliamo di ‘tessuti’ e di ‘legamenti’ del corpo”: ciò che la Dea Madre prepara su ampia scala lavorando al “telaio del tempo” si manifesta nel piccolo nell’utero delle donne (La Grande Madre, Astrolabio, 1981, p. 228).

Da queste annotazioni si può facilmente intuire perché la filatura del tempo e quindi la mantica sono da sempre collegati alle donne: solo attraverso il loro corpo infatti, quando ancora non esistevano strumenti predisposti al calcolo dei mesi e degli anni, si poteva misurare lo scandire cronologico. Si pensi alle mestruazioni, così sincroniche al mese lunare (e lunari erano infatti le Dee Tessitrici del Fato) da aver derivato il nome proprio dal greco mene, “luna”, e da essere popolarmente indicate con il significativo epiteto di regole. O alla gravidanza, che si compie in nove lunazioni.

E l’interdipendenza è così forte da aver fatto presumere a Durand che i tabù e le demonizzazioni sorte intorno al mestruo presso le più varie culture derivino proprio dall’identità tra mestruo, luna (specie quella nera, quella che non appare in cielo) e tempo. Il sangue, annota lo studioso, è temibile non solo perché è “signore della vita e della morte, ma anche perché nella sua femminilità [cioè il mestruo] è il primo orologio umano, il primo segno umano correlativo del dramma lunare” (p. 103). La luna, infatti, “appare come la grande epifania drammatica del tempo”, essendo un astro che diversamente dal sole “cresce, decresce, scompare” e pare perciò “sottomesso alla temporalità e alla morte” (p. 95).

Sole e luna condividono tuttavia qualcosa di molto più importante e che ha determinato la visione del tempo da parte del mondo antico: la ciclicità. In base alla quale il succedersi degli eventi non viene inquadrato su una linea retta con un suo preciso inizio che volge ineluttabilmente verso una precisa fine, secondo il disegno escatologico impostosi con la tradizione biblico-monoteistica, ma al contrario è circolare, ripete le proprie fasi e caratteristiche su piani differenti di realtà, come in una Grande Spirale che presenta le stesse manifestazioni e gli stessi tracciati ma a livelli sempre diversi. Ecco allora che gli accadimenti che si svolgono nel tempo possono essere plausibilmente, se non previsti, perlomeno intuiti su un piano virtuale e immaginale: infatti conoscendo a quali leggi è sottoposto il tempo cronologico sarà anche accessibile la chiave interpretativa che permetterà di comprenderne corsi e ricorsi e di scoprire quali piante si svilupperanno dai semi presi in esame, dai cosiddetti segni del tempo.

 

Conclusioni

Se perciò nella prospettiva monoteistica (laddove alle umane vicende è attribuita un’ineluttabile finalità in cui la Provvidenza ha un ruolo decisivo) il concatenarsi dei fatti futuri è prevedibile solo per ispirazione di Dio, negli scenari pagani del tempo ciclico la pratica della divinazione era intrinsecamente giustificata proprio dal fatto che il tempo, come ogni aspetto della realtà, soggiaceva a regolamentazioni cosmiche, immanenti, inderogabili. I Ching per esempio, l’arcaico oracolo della tradizione sacrale cinese, fondava la propria plausibilità proprio sulla consapevolezza, o credenza, che l’andamento delle cose seguisse sempre la medesima ritmicità basata sull’alternanza di luce e oscurità, di sviluppo e ristagno, di momenti propizi per l’attività e altri riservati all’introspezione, tenuto conto che alla salita segue inevitabilmente la discesa e alla notte il giorno. Perciò — si legge in un commentario a I Ching, lo “Sciuo Kua” — “i santi saggi dell’antico tempo” per realizzare quest’oracolo “si posero in concordanza con Senso e Vita” e così penetrarono e meditarono “fino in fondo l’ordinamento del mondo esteriore … e perseguendo la legge della propria interiorità fino al suo più profondo ruolo giunsero a comprendere il destino”.

Divinare diventa in tal modo possibile, dato che non esistono più effettive differenze fra il Cielo e la Terra, fra mondo interiore e mondo esterno, in quanto facce della stessa medaglia.

E, se prevedere il futuro nei minimi particolari farebbe perdere di sugo la vita, percepirne le tendenze può invece diventare un’arma formidabile non solo per indagare (e scoprire se esistono) le leggi spazio-temporali dell’universo, ma anche per scendere dentro di sé ed esplorarsi, per individuare il proprio ruolo in questo immenso contesto di cui partecipiamo e vivere così più consapevolmente le circostanze che ci attendono e che già da ora stiamo contribuendo a formare.