Per un Welfare di Comunità

Premesse ... Sul Welfare community

 

La nozione di welfare, sulla quale gli esperti e gli operatori sociali si esercitano da anni dibattendo la crisi del welfare state e tentando di intravedere nuovi possibili scenari che vanno dal welfare market e alla welfare community, oggi viene però utilizzata, in questo pubblico dibattito con disinvoltura a volte eccessiva e in forme no del tutto corrette. C’è, in un certo qual senso, un utilizzo limitativo del concetto di welfare che è necessario evitare proprio in questa fase cruciale della vita del paese, in cui affrontare la riforma dello stato sociale rappresenta senz’altro un evento epocale difficilmente ripetibile nel breve periodo.

In particolare, parlare di welfare solo per sottolineare in maniera negativa i costi eccessivi, come sta avvenendo appunto nell’impostazione data alla riforma dello stato sociale; così come riferirsi a welfare solo per indicare quel comparto di interventi che riguardano le fasce più deboli della nostra società, appare estremamente riduttivo otre che improprio. Per welfare è necessario invece intendere – secondo la traduzione letterale – il "benessere" dell’intera popolazione e non soltanto gli interventi che tendono a garantire diritti e condizioni di vita minimali per i gruppi sociali che vivono ai margini della società. Welfare vuol dire benessere sociale, e il benessere sociale si misura in termini di qualità della vita e della convivenza sociale di tutte le componenti di una comunità di persone.

La tutela delle fasce delle fasce deboli è soltanto una parte del welfare, il cui fine fondamentale è invece di valutare l’insieme dei rapporti e la qualità dei processi di integrazione sociale che riguardano tutti i cittadini. Esercizio dei diritti civili e sociali, giustizia sociale, parità delle opportunità, consistenza e qualità delle relazioni tra le persone, i gruppi sociali e le generazioni, valorizzazione delle risorse dei singoli cittadini: questi sono i contenuti del welfare, e quindi gli elementi che è necessario valutare quando ci si riferisce allo stato del welfare in Italia e se ne vogliono prospettare interventi di partecipazione e di integrazione sociale di intere fasce generazionali come gli anziani e i giovani.

In questi anni si è parlato di società dei due terzi; Jacques Delors ha lanciato l’allarme del progressivo degrado della qualità delle relazioni umane e del tessuto sociale, indicando questo problema come la sfida più grave per il futuro dell’Unione Europea. Il riferimento ai problemi del welfare era corretto si è messo giustamente in evidenza un processo di lacerazione della qualità dei rapporti all’interno della popolazione che rischiava di compromettere il futuro delle comunità, intesa come insieme di persone unite tra loro da legami di solidarietà e di coesione sociale. Anche l’insistenza con cui si parla oggi di esclusione sociale, sostituendo la vecchia definizione di povertà con quella degli esclusi per indicarne le fasce più deboli della popolazione, è un sintomo importante di maturazione nell’analisi del welfare e dei meccanismi che sono alla base della realizzazione dell’obiettivo di un maggiore benessere di tutta la popolazione.

Sono altri, allora, i parametri e le trasformazioni sociali a partire dai quali oggi dobbiamo prendere coscienza di una grave crisi del welfare e preoccuparci seriamente del suo futuro.

Il welfare sta male e rischia di peggiorare il suo stato di salute non certi per i conti della spesa sociale – che tra l’altro sono inferiori alla media europea – ma soprattutto per il degrado della qualità dei rapporti umani, per l’aumento dei processi di esclusione e per la disgregazione progressiva dei processi di solidarietà. Si tratta di sintomi di malattia molto gravi, che a lungo andare rischiano di compromettere il senso stesso della comunità e di polverizzare i legami di solidarietà e di coesione sociale che sono alla base della nostra società.

Noi sosteniamo che è il caso di preoccuparci maggiormente di cosa succede non ai margini della società, ma al centro, la dove avvengono e si perpetuano i processi di esclusione e di emarginazione sociale, la dove la polverizzazione dei rapporti umani e il radicamento degli stili di vita esclusivamente orientati "all’avere" e "al potere", stanno corrodendo il senso stesso di appartenenza a una comunità.

 

Un altro grave indirizzo improprio e fortemente riduttivo dell’utilizzo del termine welfare sta poi nell’eccessiva attenzione che viene data nello "stato sociale" all’investimento delle risorse economiche pubbliche, e quindi alla relativa incidenza che ne deriva in termini di spesa pubblica. Ci si dimentica, cioè, che non sono soltanto le risorse economiche che concorrono alla produzione del nostro welfare, ma sono soprattutto le risorse umane autonomamente impiegate dalle singole persone, dalle famiglie e dai gruppi sociali a determinare una migliore qualità della nostra vita e quindi un maggiore benessere. Pensiamo soltanto all’importanza delle attività di cura e di educazione, ai flussi relazionali ed affettivi che vengono garantiti dalla famiglia; alla solidarietà diffusa sul territorio, al vicinato, all’impiego capillare e determinante del volontariato in alcune gravi situazioni di emarginazione sociale e di sofferenza.

Queste risorse umane sono l’ossatura principale del nostro welfare. Dovremmo preoccuparci non solo dei tagli della spesa sociale, ma soprattutto dei tagli delle risorse umane che possono essere determinati da una cattiva organizzazione sociale o da una carenza dei servizi. Questi tagli di risorse umane potrebbero essere determinanti nel causare, come effetto secondario, i tagli dello "stato sociale". E molto significativa, in proposito, la scarsa attenzione che le istituzioni e chi ha la responsabilità politica dell’organizzazione sociale hanno dedicato alla famiglia anche nell’impostazione dell’attuale dibattito sulla riforma dello stato sociale. In questi ultimi anni abbiamo assistito a delle profonde trasformazioni sociali che hanno inciso sul livello di protezione sociale e di autorganizzazione della famiglia, esponendo a gravi rischi di esclusione sociale i suoi singoli componenti e producendo all’interno del soggetto famiglia forte fragilità e disorientamento.

Intorno alla famiglia si è andata strutturando una vera e propria costellazione di aree di fragiliytà e di disagio che rischiano, alla lunga, di compromettere la vitalità e la carica esistenziale. Ci riferiamo in particolare:

  1. alla situazione di abbandono in cui è lasciata la donna-madre sia nel mancato riconoscimento del valore sociale della maternità e del lavoro in famiglia, sia nel graduale processo di inserimento lavorativo esterno: senza sufficienti supporti in termini di servizi sociali e soprattutto senza la promozione di una politica di lavoro "sequenziale", in grado cioè di favorire il part-time e la flessibilità nelle politiche del lavoro, al fine di proteggere la maternità anche attraverso una maggiore garanzia di entrata e di uscita nell'attività lavorativa;

  2. al disagio giovanile, derivante da una mancata valorizzazione della risorsa giovani da parte della società, che da almeno 30 anni con preoccupante progressione rappresenta un grave fattore di rischio della qualità delle relazioni e degli affetti all'interno della famiglia, senza che ci sia stata ancora una risposta adeguata in termini di strategia di struttura societaria, di politica sociale ed economica;

  3. alla condizione degli anziani, esclusi dai processi di sviluppo e da adeguati percorsi di protagonismo sociale, anche in relazione all 'allungamento della vita: collocati ai margini della famiglia, senza i necessari servizi sociali e sanitari per contrastare il gravissimo e sempre più ampio problema della non autosufficienza;

  4. alle gravi situazioni di esclusione sociale che colpiscono alcuni soggetti deboli che hanno un insostituibile bisogno di famiglia: gli immigrati, i minori in difficoltà, i disabili, i malati mentali, i tossicodipendenti, i sieropositivi, i non autosufficienti e i malati terminali; situazioni rispetto alle quali non solo non si aiutano le famiglie a svolgere le proprie indispensabili funzioni, ma si rischia di farle precipitare in un vortice irreversibile di emarginazione;

  5. alla disoccupazione e sottoccupazione crescenti che colpiscono spesso i lavoratori in età media, nella fase di maggior carico familiare per la formazione dei figli e l'assistenza ai genitori;

  6. alla politica fiscale che non tiene in considerazione il pesante carico economico che pesa sui membri delle famiglie con i figli, anziani, portatori di handicap.

Non possibile però continuare a chiedere alla famiglia italiana di colmare i vuoti di uno stato sociale incompiuto e di garantire al tempo stesso processi esistenziali esterni alla famiglia che diano senso e significatività alla domanda di protagonismo, di autoaffermazione e di integrazione che attraversa i diversi segmenti che ruotano intorno alla famiglia: dai minori, ai giovani, alle donne, agli anziani.

Questa domanda legittima di integrazione sociale e di autoaffermazione deve necessariamente trovare risposta in spazi esterni alla famiglia: in agenzie di socializzazione, in strutture culturali e ricreative, in percorsi di protagonismo sociale, in sedi di riconoscimento e di valorizzazione dei diversi ruoli sociali che questi segmenti devono poter esercitare nella comunità esterna alla famiglia.

Vi e, infine, un terzo e ultimo utilizzo improprio del concetto di welfare: riguarda quello relativo a una connotazione in termini assistenziali e riparatori degli interventi di welfare. Si tratta della vecchia filosofia di impostazione dello stato sociale che tendeva a separare l'assistenza dallo sviluppo. Ora questa filosofia e da tempo superata; anzi, vi e una tendenza sempre più a intervenire nelle situazioni di disagio sociale e di povertà con meno prestazioni e con più opportunità di processi che permettono le responsabilizzazione e l’autorganizzazione delle persone e delle fasce deboli. Tutta la recente stagione di forte diffusione del terzo settore nel nostro paese, attraverso una sempre maggiore visibilità e presenza del volontariato, dell'associazionismo e della cooperazione sociale, va proprio in questa direzione.

La crescita di soggettività politica e culturale registrata in questi ultimi anni dal terzo settore si basa su motivazioni tra loro molto diverse; ma trae la maggiore significatività essenzialmente dalla sua notevole capacita di rappresentare le trasformazioni più recenti e più profonde della società civile. Non a caso, infatti, il volontariato, l'associazionismo e la cooperazione sociale si radicano all'interno della società civile e ne hanno fatto emergere in questi ultimi anni i bisogni, le aspirazioni al cambiamento e le tensioni verso l'autodeterminazione. Questo loro radicarsi nella società civile ha avuto già da parecchi anni, come primo effetto, di prefigurare un nuovo modello di welfare, fondato appunto sul coinvolgimento del privato sociale nella gestione e nella programmazione delle politiche sociali.

La crisi dello stato sociale si protrae ormai da moltissimi anni e non si tratta certamente di una crisi qualitativa relativa alla capacita reale di questo modello di politica sociale di rispondere alle nuove domande sociali delle persone e delle fasce deboli. Una crisi quantitativa dello stato sociale si combatte, infatti, sul piano della razionalizzazione dell5ntervento; della eliminazione degli sprechi e delle sovrapposizioni; della riqualificazione delle risorse e delle prestazioni.

Una crisi qualitativa, per contro, mette in causa la cultura e la strategia dell'intervento, i contenuti e quindi le stesse prestazioni dello stato sociale, i profili professionali e il ruolo degli operatori sociali. Una crisi qualitativa costringe a ripensare globalmente le strategie di welfare per l'incapacità dello stato sociale di rispondere ai nuovi bisogni, mettendo in blocco lo sviluppo sociale e ampliando i processi di emarginazione e di esclusione.

In questi ultimi anni il nostro paese - e con esso tutte le società postindustriali - è diventato un grande laboratorio di sperimentazione per affrontare nuove e vecchie emarginazioni sociali, come la solitudine degli anziani, il disagio giovanile, la disabilita, l'immigrazione, la tossicodipendenza, l'AIDS. Si sta cosi pervenendo, per accostamenti progressivi, a un nuovo modello di welfare, di cui non si delineano ancora perfettamente i contorni, ma che certamente acquisterà una dimensione comunitaria, spostando il baricentro dell'intervento sociale dallo stato alla società.

Parliamo di "comunità solidale" o di welfare community per indicare appunto un modello di politica sociale che, modificando profondamente i rapporti tra istituzioni e società civile, garantisca maggiore soggettività e protagonismo alla società civile, aiutandola nella realizzazione di un percorso di auto-organizzazione e di autodeterminazione fondato sui valori comunitari della solidarietà, della coesione sociale e del bene comune. Vi e una sola certezza incontrovertibile in questo scenario di evoluzione di welfare: quella relativa al "terzo settore". E fuor di dubbio infatti che, qualsiasi sviluppo avrà il welfare, non potrà comunque più fare a meno di una presenza determinante del "terzo settore". II volontariato, l'associazionismo e la cooperazione sociale hanno dimostrato, infatti, in questi ultimi anni di essere in grado di rispondere in maniera qualificata alla domanda di partecipazione e di relazionalità che rappresenta la nuova dimensione dei bisogni sociali.

L'esclusione sociale, che ha sostituito il vecchio concetto della povertà economica, oggi si caratterizza proprio in termini di frattura del legame di solidarietà e di partecipazione sociale tra società e fasce deboli. Questa frattura del legame di solidarietà e a monte delle povertà materiali e di quelle relazionali; ed essa si può ricomporre solo attraverso dei programmi di relazionalità, condivisione e accoglienza che partano dal cuore stesso della società civile. In questo senso, il radicamento del privato sociale a pieno titolo all'interno della società civile rappresenta la chiave di volta delle nuove strategie di lotta contro l'esclusione sociale e quindi l’elemento determinante e irrinunciabile delle future strategie di welfare.

Potremmo dire, allora, che sempre più il terzo settore si prefigura come il braccio operativo del welfare: quel soggetto economico e sociale in grado di riportare correttamente il welfare dentro lo sviluppo. La produzione di beni relazionali, la moltiplicazione di opportunità di socializzazione e di supporto che vanno incontro al disagio dei minori, dei giovani, degli anziani e delle famiglie sono, a tutti gli effetti, aree essenziali dei nostro sviluppo economico, oltre che sociale. Comportano una ridefinizione dello stesso modello di stato sociale, che non può più essere considerato come semplice sistema di erogazione e sistema di tamponamento dei più gravi rischi sociali. Welfare come qualità della vita complessiva della nostra società; welfare come risorse umane; welfare come sviluppo: ecco tre nuovi percorsi sui quali impostare una riforma dello stato sociale che, altrimenti, rischia di risultare già vecchia. Ancor prima di partire ha bisogno di maturare un salto culturale che forse non e ancora alla portata delle nostre forze politiche.