Tortura democratica
Inchiesta sulla "Comunità del 41 bis reale"
di Sergio D'Elia e Maurizio Turco, edizioni Marsilio, 2002

Prefazione di Marco Pannella

Carceri: la situazione nelle sezioni del 41 bis

Fonte: sito web dei Radicali http://www.radicali.it/

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Prefazione
di Marco Pannella

Eravamo da un paio d'anni deputati, quando Emma Bonino, Adele Faccio e Mauro Mellini decisero di "occupare", barricandovisi dentro, le Murate di Firenze. Non ricordo più per ottenere il rispetto di quale norma dell'Amministrazione, che dopo alcuni giorni venne assicurato e si poté così finirla con quella inedita carcerazione volontaria.

Eravamo, mi par di ricordare, nel 1978. Radiotelevisioni, grande (e piccola) stampa, tacquero: la gente non ne seppe nulla; di già le azioni nonviolente, neogandhiane, divenivano d'imperio e subito clandestine, essendo invece concepite e compiute proprio per "manifestare" un problema, un obiettivo.

Dal 1946, per trentanni, migliaia di deputati e senatori della Repubblica non s'occuparono mai di ispezionare carceri e condizioni dei detenuti, non ebbero - pare - mai nemmeno il dubbio che potesse esser serio e necessario sistematicamente ispezionarle, e che a tal fine non avevano che da esercitare una loro "prerogativa".

Nel 1976, appena eletti, noi 4 deputati (accompagnati dai nostri "deputati supplenti" Franco De Cataldo, Roberto Cicciomessere, Suor Marisa Galli e Angelo Pezzana) iniziammo quelle "visite" che da un Ferragosto, Natale e Capodanno all'altro e da oltre un quarto di secolo i parlamentari radicali sono venuti sistematicamente compiendo.

Attraversammo estati di fuoco, rivolte e repressioni nelle "case di pena" italiane, dove la pubblica Amministrazione ed i Governi hanno per ora sequestrato almeno due milioni di persone, per oltre il 60% dichiarate innocenti dalla "Giustizia", spesso annientate con le loro famiglie, non solamente sul piano morale, della qualità della vita, ma della vita stessa.

Le giornate intere, dall'alba al tramonto, da una cella all'altra, da Poggioreale all'Ucciardone, dalle "Nuove" a San Vittore e Regina Coeli, a Volterra o Trani, Palmi o Badu e Carros, dall'Asinara a Pianosa, con detenuti e agenti di custodia, e Direttori, medici, cappellani; sulla scia di suicidi e suicidati, nel bel mezzo di regni ferocemente ordinati dei boss, della ferocia terroristica interna, e moltitudini ammassate come bestie, sempre meno e meno numerosi in condizioni di comprendere e di essere informati sulla propria "situazione giudiziaria", nemmeno dai propri avvocati, per quanti ne avessero...

Certo, "le" carceri non sono più quelle. Ma le filiere assassine scie dei cento e cento "casi" Tortora, Cirillo, Moro, con i loro "gruppi di fuoco" costituiti da magistrati, giornalisti, terroristi e criminali "comuni", pentiti e politici, non sono affatto cancellate, anzi sono divenute malcelati orpelli di grandi "carriere", di storie e complicità storiche ed ideologiche di individui potenti.

Nell'estate del '92 alcuni parlamentari radicali si recarono al carcere di Pianosa, nella sezione Agrippa, che era stata improvvisamente riaperta dopo anni di abbandono. Il giudice Paolo Borsellino era stato appena ammazzato e, nel giro di una notte, circa settanta 'mafiosi' furono, come si dice in galera, 'impacchettati' e trasferiti nell'isola.

Altri finirono all'Asinara, che era stata chiusa nel dicembre 1980 per azione convergente di Bettino Craxi, del Generale Dalla Chiesa e nostra, durante il sequestro del giudice D'Urso. Arrivarono a destinazione tutti con solo quello che avevano addosso quando furono presi di notte nelle celle dell'Ucciardone e di altre carceri siciliane, e così li trovarono - chi in pigiama, chi in mutande - Marco Taradash, Elio Vito, Emilio Vesce e Sergio D'Elia che erano andati a fargli visita. In base a quello che avevano visto e sentito, a quello che mi fu raccontato nei giorni successivi, alle lettere, ai telegrammi e alle telefonate di familiari e avvocati di detenuti, presentai un'interrogazione al ministro della giustizia. Chiesi se gli risultava che a Pianosa, in particolare: si imponesse ai detenuti una attività 'sportiva' o 'fisica' , in modo indiscriminato e crudele; fossero abituali forme di violenza quali pugni, calci, manganellamenti, fino all'abuso nei confronti di due detenuti handicappati che erano stati visti recarsi senza stampelle, senza aiuto, strisciando per terra ai colloqui con familiari o difensori; non fosse consentito il cambio delle scarpe, quasi tutte, stranamente, per chi non conoscesse l'attività "fisica" cui erano costretti per ore i detenuti, con le suole usurate; si consentisse l'uso delle docce una volta ogni quindici giorni, per tre o quattro minuti, chiudendo l'erogazione dell'acqua in termini improvvisi e 'lampo'; fosse riscontrabile la scomparsa di capsule di denti, in numero considerevole; fosse stato denunciato che i pasti costituissero un'altra occasione di violenza, con trentaquattro pezzi di pasta corta, una patata, un litro d'acqua per l'intera giornata, senza carne e senza pesce come invece previsto dai regolamenti; fosse registrata una caduta di peso dei detenuti, in poche settimane, di dieci kg. e oltre; i detenuti fossero costretti al silenzio, sia durante le ore di aria, che nelle stesse loro celle.

Ricordo - quanto bene - il mio interrogare Salvo Lima, durante una sessione del Parlamento Europeo a Strasburgo, su cosa sapesse e pensasse di questa situazione. "Abbiamo certo dimostrato con provvedimenti del governo, di Andreotti e di Martelli, quanto siamo stati capaci e determinati ad assumerci gravissime responsabilità - più di ogni altro fino ad oggi - nella lotta contro la realtà criminale mafiosa," mi rispose. "È una logica di guerra, contestabile ma rispettabile e - probabilmente - rispettata."

Ricordo che, a questo punto, soggiunse: "Poichè me lo chiedi, devo però aggiungere che quel che voi state constatando è realtà tale che non sarà rispettata né tollerata, molto probabilmente. Non ti nascondo che ne sono molto preoccupato. Li si tratta con ferocia, come bestie, contro quel che dettano la legge e le leggi nostre? Come sorprendersi se ritenessero di dover - loro - reagire con la ferocia di bestie?"

Anche per questo, poco dopo, con il cadavere ancora caldo di Salvo Lima, immediatamente ne onorai la memoria, e affermai che Lima moriva assassinato dalla mafia, così come altri dalla "guerra alla mafia" traevano potere, successi, vittorie. Lo ribadisco ancor oggi: i criminali peggiori, più pericolosi, sono i "colletti bianchi" (si sarebbe detto una volta), gli "uomini dalla voce dura", per i quali i fatti di Pianosa e di ogni dove sono stati difesi, resi vincenti, esemplari anche; con l'alibi dei "41 bis", delle antimafie mafiose. Perché il "41 bis" non è astrazione scritta, ma la sua applicazione concreta, come questo libro racconta e dimostra. Potrebbe divenire altro alla sola condizione di procedere a processare i fatti e misfatti del "41 bis reale" e condannare i responsabili in modo equo tanto quanto esemplare. Dubito che il CSM se ne occupi. Il "CSM reale", beninteso, quello golpista, non certo quello iscritto nella Costituzione.

Ricordo la mattina in cui, dinanzi al tabaccaio di noi deputati, a Montecitorio, incontrai il ministro dell'interno e "amico" Virginio Rognoni. Gli dissi che avevamo la sera prima registrato una tribuna autogestita, con Emma che aveva dietro di sé una gigantografia, che la sovrastava, con il membro torturato di Cesare Di Lenardo, un brigatista arrestato e torturato nelle ultime ore del rapimento del generale americano Dozier. Gli chiesi se fosse a conoscenza del fatto, e dei documenti che noi in tal modo rendevamo televisivamente "pubblici".

Virginio mi ascoltava rabbuiato e attento, e dopo un istante sbottò: "Questa è una guerra. E il primo dovere, per difendere la legge e lo Stato, è quello di coprire, di difendere i nostri uomini..." La tribuna autogestita andò in onda. Nessuno, ripeto nessuno, sulla grande stampa, in Parlamento, nella magistratura, a sinistra e a destra, sembrò accorgersene.

Virginio Rognoni è oggi il massimo esponente istituzionale del CSM. Gli dedicherò una copia di questo libro!

Nel merito delle questioni poste, non mi ricordo di una risposta soddisfacente del ministro sui fatti di Pianosa; ricordo, però, che vessazioni nei confronti dei detenuti furono confermate alcune settimane dopo in un rapporto redatto dal magistrato di sorveglianza di Livorno Rinaldo Merani dopo la sua visita nell'isola.

A dieci anni esatti di distanza, Maurizio Turco e Sergio D'Elia hanno compiuto questo "giro cella-a-cella" nelle sezioni del 41 bis per capire la realtà odierna della detenzione speciale in Italia; chi sono i 'mafiosi' oggi in isolamento, da quanto tempo sono in quelle condizioni. Hanno fatto - Maurizio che presiede il gruppo di noi deputati radicali europei, e Sergio che ha portato "Nessuno tocchi Caino" a essere e operare come la più importante e significativa delle forze impegnate nel mondo a mutare, permutare la pena di morte in civile recupero del diritto della e alla vita - quello che avrebbero dovuto fare la Commissione parlamentare Antimafia e le Commissioni Giustizia di Camera e Senato prima di discutere e proporre modifiche o, addirittura, decidere la stabilizzazione del carcere duro.

Le carceri di massima sicurezza dell'Asinara e di Pianosa sono state chiuse, il regime speciale non arriva oggi ai limiti della violenza fisica diffusa, sistematica come è accaduto nei primi anni '90, eppure rimangono ancora condizioni di detenzione e finalità di pena (ancorché in molti casi non comminata) indegne, intollerabili in un paese civile.

Già compromessi agli occhi dei giudici e dell'opinione pubblica per il solo fatto di essere detenuti per mafia e, quindi, dei "mostri", si continua ad esigere da loro anche una condotta di "collaborazione" che consista in tradimenti e delazioni che li rendano "infami" a tutti gli effetti.

Vi è una storia dell'infamia che ritorna oggi, se non coi codici, le procedure e le rappresentazioni di un tempo, sicuramente con le stesse dinamiche e finalità distruttive.

Su sedici morti in regime di 41 bis di cui è stato possibile sapere, sette si sono suicidati. Noto appena che teoricamente i "suicidi" in carcere andrebbero sempre evocati... con le virgolette. Antonino Gioé fu ritrovato impiccato nel carcere di Rebibbia, il 28 luglio del 1993, alcuni giorni dopo il suo arresto. Aveva accanto un biglietto dove c'era scritto "Da diciassette anni sono un mostro..." Non sapremo mai quanti di loro abbiano voluto in quel modo liberarsi di infami condizioni di detenzione o inteso piuttosto ribellarsi a un retaggio della storia, alla pena d'infamia (e alla gogna che gli è propria) a cui l'essere considerati 'mafiosi' li aveva condannati.

Ma non c'è solo l'infamia inflitta attraverso il discredito sociale, la delegittimazione morale, la cancellazione umana, opera dei professionisti della gogna, dei perbenisti di professione, dei difensori dell'Italia dei valori, dell'ordine e della sicurezza pubblica. C'è anche la forma attiva dell'infamia, quella ottenuta attraverso la 'collaborazione con la giustizia' a cui i mafiosi sono costretti e che non veniva esatta neanche nel Medioevo. "Non risulta avere dato segni di ravvedimento o manifestato la volontà di collaborare con la giustizia," è scritto tuttora nei decreti ministeriali con cui si impone ai mafiosi il carcere duro. È quello che pensano e dicono i Violante e i Maritati, senza rendersi conto - perché gli viene naturale - che pensano e dicono quello che nel diritto internazionale va sotto il nome di tortura. È che ci si attende non di rado da loro il "vero" di teoremi accusatori, non necessariamente del "vero" storico.

È eccessivo parlare, oggi, di pena d'infamia e di tortura, abolite da secoli, per i detenuti - non solo i condannati, ma anche gli indagati, gli imputati, i giudicabili - per reati di mafia? Credo di no, specie se si tiene conto di come vivono e si realizzano le norme del 41 bis.

La pena d'infamia era la sanzione inflitta ai "dignitari", i cittadini abbienti di un tempo, e comportava la perdita di una serie di diritti civili, l'esclusione dal proprio ceto di appartenenza, l'assimilazione a coloro che sul piano della dignitas non avevano nulla da perdere, appunto gli infami. La pena d'infamia corrispondeva alla pena di morte riservata invece agli emarginati, ed era la cancellazione del reo in quanto "persona" dalla faccia della terra.

Il termine "tortura" avrebbe indicato più tardi "qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o su una terza persona".

Allora, mi pare evidente che già l'avviso di garanzia, l'inchiesta e il carcere nei confronti dei "presunti" mafiosi rappresentano - per individui cui viene negata alla radice e in toto la presunzione costituzionale di non colpevolezza - una condanna, un marchio d'infamia che li fa precipitare, immediatamente, al grado più basso della società. Altrettanto evidente mi sembra che la specifica "collaborazione" perfino nelle forme prescritte e raramente vissute coi magistrati, l'essere infame del gergo carcerario, non sia altro che la certezza che da quel cedimento non ci si possa più sollevare, specie se frutto di necessità e di calcolata ma pur sempre libera scelta. La semplice dissociazione non basta, come dimostra la vicenda di molti detenuti che hanno rotto con il loro passato senza fare proclami o fare i pentiti e che sono ancora in 41 bis. Perchè per uscire dal carcere duro occorre "la dissociazione a rischio della vita", come è scritto nei decreti ministeriali di assegnazione al 41 bis.

Il momento carcerario non può essere una dimensione seria, neppure secondaria, di lotta alla mafia. All'argomentazione apparentemente vera che in questo modo si determinerebbe la rottura dei collegamenti tra i mafiosi detenuti e quelli in libertà, il blocco dei loro traffici criminali, sarebbe facile obiettare che, fosse per questo, allora, i mafiosi andrebbero tenuti proprio a Palermo e nelle altre loro zone di influenza. Si renderebbe più facile a magistrati e polizia giudiziaria l'assolvimento dei propri compiti. Si consentirebbe una seria, efficace attività di controllo e di intelligence. Se l'obiettivo fosse davvero questo, il modo migliore per raggiungerlo potrebbe semmai essere proprio quello di tenere i mafiosi in condizioni tali da usare, "facilitandoli", i loro collegamenti, per su questi investigare, ricostruire e smantellare reti e traffici criminali.

Le dure condizioni di detenzione rispondono solo ad una logica di rivalsa e a un primordiale senso di vindice giustizia. Si è risposto con Pianosa e l'Asinara alle stragi di Capaci e via D'Amelio. Il dolore dei parenti delle vittime contro le vessazioni nei confronti dei detenuti. Questo è stato messo a confronto!

Le inutili, meramente afflittive soverchierie dell'art. 41 bis, provocano soltanto durezza di comportamenti, irriducibilità, autolegittimazione, rifiuto di ogni dialogo o, peggio, a fronte di gravi maltrattamenti, l'imbarbarimento generale, la pseudo-legittimazione di rivalse mafiose, magari nei confronti di magistrati e poliziotti che cercano di difendere, nella legalità e con la civiltà dei loro comportamenti, la legge e lo Stato.

Il "proprio" dello Stato di diritto è rispondere con la sovranità, sia pure armata, delle regole. Non può "dichiarare guerra" alla criminalità, neppure sotto la guida di un angelo giustiziere come è stato Caselli, consapevole o meno che fosse. Accecato - perché la ferocia della guerra acceca! - dall'essere un angelo. Sia pure vendicatore.

È giunto il momento di chiedersi che cosa è avvenuto in questi ultimi dieci anni e cosa continua ad accadere. A questo punto, non si tratta di chiedersi se le norme vigenti siano state rispettate o no, se le procedure siano più o meno corrette; si tratta di chiedersi che cosa Antimafia e Mafia stiano mutualmente facendosi fra di loro e, attraverso quella che è definita una guerra, a noi tutti. È incredibile che nessuno si preoccupi che nei confronti di, ormai vecchi, 'mafiosi' i magistrati continuino a usare l'arma della tortura, dell'infamia che colpisce non solo i 'mafiosi' ma sta schiacciando tutto e tutti verso la demagogia e il conformismo politico e sociale. Nessuno che consideri la gravità del fatto che i magistrati, spesso per propria impostazione ma anche per investitura pubblica e politica, più che reati di mafia, stiano perseguendo la Mafia-istituzione, sicché invece di investigare reati specifici, produrre prove e fare i processi, stiano in realtà producendo (assieme alla mafia, com'era naturale prevedere) pentiti e offrendo esempi alla pubblica riprovazione.

Il conformismo dell'Antimafia, quella parlamentare e quella della cosiddetta "società civile", sta facendo strame di stato e di diritto, di legalità e di umanità, di società e di persone. Eppure, il 41 bis non si discute. Chi ne tocca i fili, le corde cui si impiccano detenuti così come la legalità, muore?

Questa estate, nei giorni della loro "protesta pacifica e civile", i detenuti in 41 bis si sono rivolti alle più alte cariche dello Stato, in questi termini: "Stiamo mettendo in atto un Satyagraha che non mira certo alla abolizione del regime del "carcere duro" (compito questo, in una società democratica, di esclusiva competenza del Legislatore), bensì al rispetto delle regole, delle norme vigenti, nonchè al rispetto della dignità umana che, quotidianamente viene calpestata e umiliata." Loro, i fuorilegge, hanno manifestato nelle carceri per il rispetto della legalità; nel frattempo, nessun tutore della legge si è manifestato contro fuorvianti applicazioni, nessun legislatore si è levato in Parlamento per dire che il "41 bis reale" è una barbarie e che questa - non chissà quale altra - si vuole eternizzare. In Commissione Giustizia al Senato la sua stabilizzazione è stata approvata alla unanimità!

Da dentro hanno scritto proprio così: "Satyagraha", non senza qualche pertinenza, mentre fuori si manifesta la imbecillità sovrana del "disubbidire non è reato" dei... "disobbedienti"!

Ancora ieri i "compagni assassini" erano fuori, gli analfabeti della (non)violenza dentro.

Auspico ufficialmente almeno un mesetto di "41 bis" per Fini, Rutelli, e gli "unanimi" del Senato, del CSM. E chiedo che si affidino a noi radicali - per altrettanto tempo - gli assassini (confessi, non solo per "sentito dire") mafiosi. Scommetto che questi disonorati mafiosi delle mafie disonorate diverrebbero davvero "uomini d'onore", onorando la parola data. A noi dei Satyagraha dei radicali e delle carceri per far vivere in Italia "il principio di legalità".

L'opera, l'inchiesta, la fatica e la tenacia di Maurizio Turco e di Sergio D'Elia costituiscono un evento, approdo e sintesi di uno dei percorsi radicali nelle caienne delle istituzioni e della società italiana. Ora ciascuno potrà meglio intendere la continuità, l'intimità profonda e attualissima della "comunità reale del 41 bis reale" con i luoghi, che si ritenevano e ritengono scomparsi, delle "deportazioni" di veri o presunti criminali, condannati alla "morte (per intanto) civile".

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Carceri: la situazione nelle sezioni del 41 bis

Sezioni del 41 bis: Cuneo, L'Aquila, Marino del Tronto (Ascoli Piceno), Novara, Parma, Pisa (Centro Diagnostico Terapeutico), Rebibbia (Femminile), Rebibbia (Maschile), Secondigliano (Napoli), Spoleto, Terni, Tolmezzo (Udine), Viterbo

Detenuti in 41 bis (al 27-7-02): 645, di cui 17 nell'Area Riservata

Posizione giuridica: 421 definitivi (e non); 55 ricorrenti; 81 appellanti; 79 in attesa di primo giudizio; 9 non classificati (dati non forniti dall'ufficio matricola di alcune carceri)

Il giro cella a cella
Il giro nelle sezioni delle carceri dove sono detenuti i sottoposti al regime del 41 bis, compiuto da Maurizio Turco e Sergio D'Elia, è iniziato il 14 giugno e si è concluso il 27 luglio. Nonostante ripetute richieste, la mappa delle carceri non è stata fornita, "per motivi di sicurezza", nè dal Ministero della Giustizia nè dal Dipartimento per l'Amministrazione Penitenziaria (DAP), ed è stata ricostruita via via da informazioni fornite dagli stessi detenuti o dagli operatori penitenziari incontrati nel corso delle visite.

La durata della visita è stata mediamente di quattro ore a carcere con una punta massima di circa nove ore passate in quello di Parma nel quale la durata della visita è dipesa non tanto dall'elevato numero dei detenuti in 41 bis quanto dalla gravità della situazione riscontrata. La visita a ogni detenuto, preceduta ogni volta da un colloquio con i responsabili del carcere e da un giro nei passeggi dell'aria, nelle sale colloqui e nelle salette della socialità, ha portato via mediamente dieci minuti. Eccetto in due o tre casi, tutti i 645 detenuti visitati hanno chiesto di parlare con noi. Con una decina di loro non abbiamo potuto parlare perchè, al momento della visita, impegnati in videoconferenza o perchè a letto, in alcuni casi in stato vegetativo. Le sezioni del 41 bis sono gestite dai GOM (Gruppo Operativo Mobile), reparti speciali dei quali abbiamo potuto verificare la professionalità e, in linea di massima, l'uniformazione alle regole dettate centralmente. Laddove la gestione non è affidata ai GOM, come nel carcere di Parma, la situazione è al limite più grave, dal punto di vista del trattamento riservato ai detenuti in 41 bis, come se i custodi "normali" di detenuti così "speciali" volessero dimostrare che anche loro sanno gestire il "carcere duro" e, per dimostrarlo, adottano qualche restrizione supplementare.

L'Area Riservata... riservata a chi?
Le 13 sezioni dei 41 bis sono quasi sempre in una palazzina separata dal resto del carcere e 6 di queste hanno una cosiddetta Area Riservata per i detenuti "eccellenti" del tipo di Totò Riina, Leoluca Bagarella, Nitto Santapaola e pochi altri, 17 in tutto. Di solito sono al piano terra della sezione, quella meno areata e illuminata del carcere, con il bagno nella stanza che spesso è un cesso alla turca o nel migliore dei casi un water posto dietro a un muretto. Il "passeggio" di questi detenuti più "speciali" degli altri è una possibilità spesso non sfruttata perchè andare all'aria per loro vuol dire andare in una sorta di gabbia di cemento armato di due, tre metri per cinque e alta tre metri, chiusa in cima da una pesante rete a maglie molto strette.

I detenuti dell'Area Riservata sono totalmente isolati dagli altri detenuti in 41 bis, ma in quest'area sono finiti anche detenuti dallo scarso rilievo criminale, i quali dopo una lunga e accurata selezione sono stati designati dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria a fare da compagni ai "capi di Cosa Nostra" dopo che, da un paio d'anni a questa parte, i giudici hanno riconosciuto anche a loro il diritto all'aria in comune e alla socialità. É quanto accaduto a Salvatore Savarese un condannato per associazione a delinquere di stampo camorristico entrato in carcere nell'82 e uscito nel '96, poi rientrato nel '99 per una condanna a 3 anni e che quando abbiamo incontrato aveva un mese a fine pena [nel frattempo sarà già uscito]. È stato messo al carcere duro di Ascoli nell'aprile del 2001, proveniente dal carcere di Trani dove non era in 41 bis e ora non capisce cosa faccia uno come lui, il detenuto forse meno pericoloso d'Italia, in una sezione col "pericolo pubblico numero uno". Il risultato è che su di lui si sono determinati un isolamento pressoché totale e le più dure condizioni del carcere duro mai riservate a un detenuto italiano: nel budello dell'aria non ci va quasi mai, come d'altra parte Riina, e a fare socialità nella cella del "capo di Cosa Nostra" nemmeno, "perchè - ci ha detto - con tutte quelle telecamere è come andare nella casa del Grande Fratello".

Le sezioni "normali" del 41 bis
Le sezioni "normali" del 41 bis hanno un bagno separato ricavato in un angolo e con il water. In alcune sezioni, come quelle di Cuneo, L'Aquila, Viterbo, alle finestre delle celle ci sono fino a tre sbarramenti: il primo di sbarre vere e proprie, il secondo di una rete abbastanza fitta, il terzo fatto da una serie di fasce di ferro o di vetro antiscasso attaccate una sopra all'altra a formare una specie di tapparella (chiamata, chissà perchè, "gelosia" in gergo penitenziario) leggermente inclinata verso l'esterno dalla quale filtra poca aria e poca luce. I detenuti di queste celle hanno avuto in questi anno un notevole abbassamento della vista. È una delle tante limitazioni vissute nelle sezioni del 41 bis che i detenuti di Viterbo, rivolgendosi al Capo dello Stato in una lettera del 5 agosto scorso hanno definito "come sofferenze inutili e non ragionevoli, inflitte per mero sadismo, tanto da far maturare nel popolo dei reclusi la certezza che le stesse abbiano il solo scopo di annullare del tutto persino la loro coscienza e volontà".

I detenuti di queste sezioni vanno all'aria, due ore al giorno, in gruppi di 6 o 7, così pure in socialità in una saletta normalmente ricavata da due celle a cui hanno tolto il muro divisorio o, in alternativa, vanno in una cosiddetta palestra dove di solito c'è una cyclette, un vogatore (quando funziona) e una panca per fare i pesi. I passeggi per l'ora d'aria variano da carcere a carcere. Si va da quelli davvero ridotti di Viterbo a quelli grandi come campi di calcetto di Spoleto.

In queste sezioni, ci sono anche detenuti che non hanno lo spessore criminale di capi mafiosi. Intanto, un terzo è in attesa di un giudizio definitivo, e molti di coloro condannati in via definitiva, hanno già scontato la pena per il reato 'ostativo' alla concessione dei benefici penitenziari che ha motivato l'applicazione del 41 bis. Una prima cosa che si dovrebbe fare, prima di parlare di proroghe e stabilizzazione, è fare uno screening serio sui 645 41 bis e vedere a chi e come è stato applicato il "carcere duro". Un esempio fra tanti, il caso di Giuseppe Chierchia, 36 anni, di Torre Annunziata (NA), entrato in carcere nel giugno '99 per esecuzione pena per un reato del '90 passato in giudicato (associazione finalizzata allo spaccio e altro) che finirà di scontare fra un anno. È stato assolto il 29-11-2001 dalla Corte di Assise di Napoli per i reati di associazione di tipo mafioso e omicidi per i quali, semmai, sarebbe stato giustificato il 41 bis, al quale è stato assegnato sei mesi fa. Così, il detenuto descrive il suo caso nella lettera inviata a Radicali Italiani a cui allega copia di sentenze e posizione giuridica: "Credo di essere l'unico in tutta Italia a stare in 41 bis con reati per i quali dovrei stare in un circuito normale. Per l'unico reato che sto scontando [art. 74 e altro, ndr], quando ero giudicabile ho avuto gli arresti domiciliari e poi la libertà provvisoria, ora non capisco il perchè, da definitivo, lo devo scontare al 41 bis. Quando sono andato a discutere il 41 bis davanti al Tribunale di Sorveglianza di Perugia il 31 gennaio del 2002 e il mio legale gli ha presentato tanto di sentenza di assoluzione per i reati che lo avrebbero giustificato, il tribunale non ha voluto tenerne conto. Così sto ingiustamente al 41 bis, privato del calore dei miei cari e soprattutto dei miei figli in tenera età. Non sono un mafioso nè un camorrista, ho solo fatto un errore 12 anni fa e lo sto pagando caramente."

Il vetro dello scandalo
I colloqui, uno al mese, si svolgono in un locale di solito molto piccolo, una sorta d'acquario col vetro divisorio fino al soffitto, telecamera, citofono per parlare coi parenti. Le sale "colloqui", quanto a dimensioni vanno dalle più grandi, nel carcere di Tolmezzo, alle più piccole di Viterbo e L'Aquila dove consistono in due "cabine telefoniche" di 1 metro per 1 metro, una dalla parte del detenuto dove più o meno una persona ci sta, l'altra dalla parte dei familiari dove devono fare i turni per parlare al citofono.

Poi ci sono quelle senza vetro divisorio che servono per i dieci minuti di colloquio consentiti coi figli minori di 12 anni: non hanno il vetro fino al soffitto ma un bancone che consente il contatto fisico comunque sottoposto a videoregistrazione da parte di una telecamera. In queste sale si verificano di solito le scene più penose: bambini in tenera età che - staccati dalla madre che non può accompagnarli - piangono, urlano, scappano dal padre che non hanno mai visto o non riconoscono più dopo tanti anni. Sono diffusi i casi di figli minori di detenuti in 41 bis che sono sottoposti a trattamenti psicoterapeutici.

Il vetro divisorio è il problema su cui tutti i detenuti si sono soffermati. "La nostra protesta civile è per abbracciare i nostri figli. Il vetro divisorio è una tortura psicologica, ci sono mezzi alternativi, telecamere, microfoni e quant'altro. Se lo mantengono è solo per farci pentire, ma il pentimento coercitivo non è genuino", hanno dichiarato molti detenuti. Pur di avere un minimo contatto coi propri cari, un detenuto è arrivato a proporre: "Possono farci mettere solo le mani attraverso due buchi praticati nel vetro come avviene in certi laboratori per i ricercatori che devono trattare sostanze pericolose". Sostanze pericolose, non è detto a caso: nei decreti ministeriali di assegnazione al 41 bis, i familiari e la loro visita sono chiaramente visti come la fonte principale del pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica.

Sui colloqui con o senza vetro è illuminante un episodio riportato nella Relazione del Procuratore Generale della Corte d'Appello di Caltanissetta per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2000 (15 gennaio 2000). Tra le operazioni di polizia giudiziaria che hanno avuto successo nella relazione si cita il fatto che: "In data 21/01/1999 ancora la Squadra Mobile eseguiva un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Paolello Antonio e Tascone Leonardo in ordine ai delitti di associazione per delinquere di tipo mafioso e tentata evasione. Il provvedimento scaturiva dall'esito di mirate indagini che, sulla base di videoregistrazione dei colloqui in carcere tra il detenuto Paolello e il nipote Tascone nonché di intercettazioni ambientali, avevano portato ad accertare un piano di fuga del primo da eseguire con l'impiego delle armi anche a costo di commettere una strage durante una delle tante sue traduzioni per partecipare a udienze processuali". Dalla notizia si evince che i colloqui coi familiari possono essere videoregistrati e costituire fonte di informazione utile per attività investigative e per prevenire reati... Con buona pace del vetro divisorio!

C'è poi chi ci mette del suo
Oltre alle limitazioni scritte nel decreto del ministro e che valgono per tutti i detenuti in 41 bis, c'è poi il valore aggiunto limitante che è a discrezione del singolo direttore del carcere: la lista della spesa consentita varia da sezione a sezione; a Spoleto sono pericolosi i fagioli, a Parma le uova, a Terni i sigari (anche se fumati all'aria). In un carcere è consentito il walkman per studiare l'inglese in altri no. In uno i libri non pesano nel conto dei dieci chili mensili consentiti per i pacchi dalla famiglia, ad Ascoli fanno peso. A L'Aquila è consentito indossare una giacca imbottita e trapuntata durante l'inverno, privilegio che non possono avere i detenuti a Viterbo e a Novara, però in cambio a Novara come pure a Cuneo, a discrezione del Tribunale di Sorveglianza, ai detenuti possono essere concessi fino a 4 pacchi al mese dalla famiglia e a Parma addirittura 4 colloqui. Nelle sezioni del 41 bis, i detenuti non possono frequentare corsi scolastici, si può studiare solo per proprio conto e l'unico intermediario coi professori è un educatore, che però si fa vedere raramente. Ciononostante, non sono rari i casi di detenuti che si sono diplomati in 41 bis o hanno conseguito una laurea o la stanno conseguendo.

La salute in 41 bis
La cura della salute di questi detenuti è un optional ed è affidata al buon cuore di operatori penitenziari, spesso gli stessi agenti, piuttosto che alla presenza di un presidio sanitario efficace. Non sono rari i casi di detenuti infartuati, colpiti da ictus, operati di cancro, di paralizzati o costretti sulla sedia a rotelle che non hanno il "piantone" in cella o non l'hanno avuto nemmeno pochi giorni dopo l'operazione.

Leonardo Vitale, 47 anni (anche se ne dimostra 70), operato per un tumore al cervello il 31 luglio 1999 all'Ospedale S. Camillo di Roma, è stato dimesso il 7 agosto e dopo sette giorni messo in una cella dell'Area Riservata della sezione 41 bis del carcere di Viterbo, dove è tuttora, da solo e con grandi difficoltà a usare il cesso alla turca. Antonino Geraci, 85 anni, da 86 chili che pesava nel '92 quando è entrato in carcere, direttamente al 41 bis, ora ne pesa 57. È nel cosiddetto centro clinico della sezione 41 bis di Secondigliano, quasi cieco, sempre a letto o sulla sedia a rotelle, non va all'aria da più di un anno e non ha il piantone. Lo aiuta un compagno di cella, Francesco Loiacono, che del piantone avrebbe bisogno lui stesso, con i suoi tre infarti già avuti e il cuore al 65% necrotico, e che invece è costretto a imboccare l'altro per farlo mangiare e accompagnarlo al cesso per fargli fare i bisogni.

Da denuncia penale è la situazione nel Centro Diagnostico Terapeutico del Carcere di Parma dove vi sono anche 4 detenuti in 41 bis, ai quali per non fargli avere contatti con i detenuti "normali" tengono la blindata chiusa dalla mattina alla sera e gliela aprono di notte (insomma, tutto al contrario). Uno di questi è Marcello Gambuzza, in carcere da 5 anni, è sempre stato nel circuito normale, ma da un mese è in 41 bis. Entrato in carcere già sulla sedia a rotelle per un colpo d'arma da fuoco che lo ha colpito al midollo spinale e lo ha paralizzato dalla quarta vertebra in giù, è costretto a letto, non ha un piantone e il medico lo vede solo quando lui ne fa richiesta. Le lenzuola sono lerce e sul letto ne ha un paio pulite che però lui non può cambiarsi da solo e possono essere cambiate solo da un altro detenuto che può entrare nella cella quando lui non c'è. Ha un catetere per raccogliere le urine oppure per svuotare la vescica si deve far aiutare da una guardia a salire sulla sedia a rotelle e farsi accompagnare al bagno dove la sedia non entra e allora lui scarica l'urina nel bidè. Stessa storia per un altro detenuto, Giovanni Alfano, anche lui costretto sulla sedia a rotelle a seguito di un'ischemia cerebrale: entrato in carcere 5 anni fa che pesava 105 chili, ora ne pesa 50 a causa di una anoressia ipocondriaca; da 3 anni e mezzo in 41 bis, di cui 3 nel cosiddetto centro clinico di Parma.

Luigi Giuliano, detenuto a L'Aquila dopo 3 anni di isolamento a Parma, si era costituito (anche se nei fascicoli risulta arrestato dalle forze dell'ordine) e dopo 20 giorni era già in 41 bis. Nel '98, per motivi di salute, il ministero gli ha attenuato il regime duro e il 12 giugno del 2002 gli ha revocato il regime attenuato. Tra le varie patologie ha anche un fegato da trapiantare, ma non è seguito dal punto di vista medico.

Le donne in 41 bis
Le donne in 41 bis sono tre, tutte detenute nel carcere di Rebibbia. Una, Maria Buompastore, di Montescaglioso (Matera), è in carcere da 4 anni, in 41 bis dal 31 gennaio 2001. Condannata in primo grado insieme a suo marito, anche lui in 41 bis, a 22 anni di carcere, ha tre bambini di cui uno malato di leucemia. Un'altra è Erminia Giuliano, di Napoli, arrestata nel dicembre 2000 e in 41 bis dal maggio 2002, è ancora in custodia cautelare. Nessun precedente penale, è in attesa del primo grado e in due anni non ha fatto ancora nessuna udienza processuale, mentre per sei volte in due anni è cambiato il collegio giudicante. La terza e ultima donna in 41 bis è Teresa De Luca, di Napoli, condannata a 8 anni in appello per traffico di droga e poi andata definitiva, è stata arrestata nel dicembre 2000 per associazione camorristica e messa in 41 bis nel gennaio del 2000. "Mi hanno arrestato per far pentire mio figlio [Antonio Bossa De Luca, anche lui in 41 bis a Parma, in condizioni gravi di salute, ndr]", ha dichiarato. Ha altri quattro figli, tra cui uno che è diventato balbuziente da quando l'ha vista in carcere la prima volta che vi era finita nel '98.

La gabbia procedurale
Oltre che nella cella da 41 bis, i detenuti sono prigionieri anche di una sorta di "gabbia procedurale" dalla quale non riescono ad uscire se non per mezzo del pentimento: la proroga semestrale dei decreti, spesso sempre gli stessi e basati sulle note informative degli organi di polizia, non consente loro di ricorrere in Cassazione perchè i tribunali di Sorveglianza rispondono ai loro reclami quando ormai il decreto è stato "rinnovato" e per la Suprema Corte viene meno l'interesse a prendere in esame il loro ricorso. Sicchè, si contano sulle dita di una mano i casi di detenuti che hanno visto il loro reclamo accolto da un Tribunale di Sorveglianza o un ricorso accolto dalla Cassazione, nell'uno o nell'altro caso risolvendosi in una 'vittoria di Pirro' per il detenuto perchè nel frattempo un "nuovo" decreto ministeriale ha azzerato tutto. "Siamo - ha detto un detenuto - in una sorta di gioco dell'oca nel quale si riparte sempre e inesorabilmente dal punto di partenza".

Le videoconferenze
Molti sono i detenuti condannati in processi fondati sul "sentito dire" dei pentiti dai quali la possibilità di difendersi si è drasticamente ridotta da quando è stato inaugurato il sistema delle videoconferenze. "Prima del 41 bis - ci ha detto un detenuto - ho vinto molti processi, poi con le videoconferenze ho cominciato a perderli, perchè è impossibile difendersi, non riesco a far fare al mio avvocato una domanda a chi mi accusa che il pentito se ne è già andato. Il 41 bis serve a produrre pentiti da cui non ci si può difendere per via delle videoconferenze: è un circolo vizioso, ma perfetto per chi accusa". Le stesse modalità tecniche di comunicazione e possibilità di ascolto e comprensione tramite i collegamenti in videoconferenza, sono tali da non assicurare agli imputati di mafia una effettiva possibilità di difendersi. Ne è un esempio clamoroso proprio il cosiddetto "proclama" di Leoluca Bagarella. Nessuno ha potuto ascoltare cosa ha detto realmente Bagarella quel giorno eppure - forse, grazie a questo - si è potuta aprire la fiera delle interpretazioni "autentiche": messaggio in codice, ricatto politico, annuncio di guerre di mafia.

41 bis e diritti umani
È incredibile come tutti siano allineati e coperti sulla necessità di mantenere questo regime di 41 bis e come nessuno veda nell'applicazione di condizioni di pena così inumane e degradanti un rischio di morte e un degrado, innanzitutto, del nostro stato di diritto e del nostro senso di umanità. E chi parla di stato di diritto, di Costituzione, di rispetto dei diritti umani anche nei confronti dei capi mafiosi, viene considerato un garantista ingenuo se non un utile idiota. Qui in discussione non è chi sono, cosa hanno fatto o cosa potranno fare questi detenuti, in discussione è chi siamo noi - noi stato, noi società civile -, cosa facciamo e cosa rischiamo di divenire se noi non riconoscessimo al peggiore degli assassini quei diritti umani fondamentali che lui ha negato alle sue vittime. È proprio di fronte a casi estremi di emergenza ed efferatezza che si misura la forza di uno stato, e la forza sta innanzitutto nel diritto, nel limite cioè che stabiliamo di porre (e che serve) a noi stessi, al nostro sacrosanto senso di giustizia, di rivalsa, di legittima difesa.

Porre l'aggressore in condizione di non nuocere, di non minacciare più la nostra vita, la nostra sicurezza, è obiettivo prioritario anche nostro. Ma dopo aver visitato le sezioni del 41 bis e riscontrato alcune storie di detenuti lì rinchiusi, ci chiediamo se lo Stato italiano stia realizzando questo obiettivo o non stia invece vendicandosi di fatti orribili, con ciò arrecando un danno inutile a sè stesso e andando verso una deriva pericolosa della propria civiltà.

Il giro "cella-a-cella" del 41 bis diventerà a breve un libro bianco sulla detenzione speciale in Italia che metteremo a disposizione del parlamento italiano che a settembre dovrà esaminare le proposte di proroga e/o di stabilizzazione del "carcere duro" e che presenteremo anche agli organismi europei e internazionali preposti al controllo e alla tutela dei diritti umani fondamentali dai quali chiederemo di essere auditi.