L'abolizionismo è uno sguardo
3.
L'unico vantaggio portato dalla Gozzini è che vi sono meno violenze tra
detenuti. Ma questo obiettivo si raggiungerebbe ugualmente con un
automatismo dei benefici, soppressi in caso di reato compiuto in carcere,
com'è l'aggressione di un compagno.
Pene
più alte, discrezionalità totale, aumento della sofferenza psichica
legata sia alle umiliazioni da pretesa collaborazione che all'incertezza della pena, raddoppiamento del numero dei prigionieri «classici»
dopo l'invenzione delle pene
alternative portate dalla legge Gozzini!: questo è il caso del sistema
penale italiano, un caso di «perversione positivista» che è arrivato
alla pretesa di cambiare la classe dirigente italiana; un'illusione certo,
ma che è servita tuttavia a diminuire le libertà. L'Italia è un paese
dove non è difficile incontrare gente reclusa da 30 anni, o venire a
sapere che un uomo di 84 anni è fuggito per bere un bicchiere coi suoi
vecchi amici al bar ed è stato ripreso. Quanto ai suicidi e ai decessi in
carcere, non fanno più notizia.
Il
cinismo dei modelli neo-classici, invece, non ha ancora esasperato
emergenze, dissociazioni, pentitismi. Per il detenuto la pena è una sorta
di temporanea condanna a morte: è messo fuori circolazione. Più che
all'anima del detenuto l'ideologia classica mira a quella dei liberi
cittadini con la deterrenza. Perciò i primi due obiettivi da raggiungere
in Italia sono l'europeizzazione delle pene e meno amore omicida per i
detenuti...
L'intero
movimento abolizionista dovrebbe assumere come esempio il caso italiano
per riflettere su se stesso, per capire più in profondità l'anima del
sistema penale, le sue perversioni. Questa riflessione potrebbe aiutare a
inventare una politica dell'abolizionismo che in Italia dovrebbe anzitutto
ottenere, all'interno dell'attuale sistema, pene europee, meno carcere
invisibile dentro e fuori i penitenziari, meno diritto penale.
4.
La politica abolizionista è un rovesciamento della politica tradizionale.
Per quanto i suoi obiettivi possano incrociarsi con il «riduzionismo
penale» dei riformatori, essa crea anche le condizioni culturali e
sociali di un mondo autoorganizzato al di fuori della logica punitiva, una
realtà sociale informale da porre in alternativa alla pena.
5.
C'è oggi una sola scienza legittima per analizzare l'evento sociale, una
sola scienza che svolge un ruolo di base per tutte le altre: è
l'economia. Lo sguardo egoista e meschino nato per risolvere gli affari
del mercante è diventato lo sguardo che tutto deve comprendere e
spiegare. Sociologia, psicologia ecc. sono succursali dell'economia. Gli
esseri umani finiscono per unirsi o per dividersi nei loro scopi solo in
superficie, sempre estranei fra loro nella sostanza, diventando sempre più
incapaci di spiegarsi il perché d'ogni cosa che non sia riconducibile a
un "utile".
L'Uomo
Economico può ragionare solo a partire da ciò che può vedere
nell'altro, mai da se stesso. Questa è la sua prima legge. Così è
diventato uno sconosciuto a se stesso.
L'esperienza
del dolore non può essere vista dallo sguardo "economico" perché
per sua natura non può essere ricondotta a quella legge. Il dolore, s'è
già detto, è un fatto personale, si può conoscere il proprio, non
quello dell'altro: si può partire solo da se stessi. Perciò la nostra
non può essere che una società fondata sulla rimozione del dolore,
guidata da un edonismo teso alla ricerca di una felicità ridotta alla
folle presunzione che l'essere umano possa liberarsi del dolore. Del
dolore non si riconosce più la funzione necessaria, funzione che ci dota
di un senso della realtà percepibile oltre la coscienza acquisita, che ci
porta dunque a capire il prossimo a partire da quello che proviamo noi
stessi per primi. L'effetto di questa rimozione è disastroso: centuplica
il dolore «degli altri», cioè di tutti e finisce per accentuare la
sofferenza dell'Io, resosi incapace di affrontare il suo dolore. Inoltre,
la logica penale non incontra freni e segna un vero e proprio
corto-circuito della ragione quando, come abbiamo visto con alcuni esempi,
porta ad agire di fatto secondo il principio: faccio agli altri ciò che
non voglio sapere di me.
6.
«Proletari del dolore, unitevi!» dice il malato terminale nel romanzo già
citato di Gustafsson; una parola d'ordine che è un controsenso per la
società attuale. Esiste sì a volte una solidarietà di coloro che
soffrono, ma è finora quella delle vittime, una religione del lamento,
non una protesta. Non è ancora il saper riconoscere la propria condizione
in base alla fatica e al dolore come nuovo criterio per riconoscersi con
altri in «classe» che superi i criteri economicisti che continuano a
dominare. I «proletari del dolore» sono una sfida alla sofferenza, una
dignità dell'esperienza intima del dolore, un rovesciamento dello sguardo
degli hominis oeconomici,
rovesciamento resosi indifferente ai beni che questi ci propongono di
conquistare - confusi come sono tra ben-essere e ben-avere.
I
marxisti tedeschi per esempio, per molto tempo non vollero accettare
l'idea che i proletari «economici» potessero essere nazisti oltre che
comunisti o socialdemocratici. Ebbero torto, come si sa, e con questa
affermazione non intendo ovviamente affatto negare l'esistenza della lotta
fra le classi ma la sua visione superficiale, economicista e, in sostanza,
falsa. Il mio è il tentativo di considerare con maggiore acume quel che
c'è di diverso nel mondo degli esclusi, dei «vinti» perché solo lì è
la vera alternativa. Il movimento operaio nacque come denuncia della
sofferenza legata alla fatica portata dall'avvento del lavoro salariato.
La fatica è un'altra esperienza intima affine al dolore, come questo ai
confini del dicibile. I bioritmi dell'individuo, l'intelligenza impiegata
in quel che faceva subirono una espropriazione ad opera di quella
cristallizzazione di un piano dispotico che sono le macchine. La fatica
aumentò per effetto di questo esproprio, divenne simile al dolore e
provocò una grande sofferenza dalla quale nacque una nuova epoca della
ribellione sociale. Nel gioco, nell'impresa sportiva, in un lavoro fatto
per i propri cari possiamo vedere riversarsi una quantità di sforzo
maggiore che in molti lavori parcellizzati. Eppure quella fatica è come
rigenerante, non dà luogo ad alcuna sofferenza bensì piuttosto a
un'esperienza gioiosa; dal punto di vista utilitaristico, queste fatiche
non si possono spiegare: sono gratuite, fanno parte dello spirito del dono
e non dell'economia. Il movimento operaio nacque per il rispetto
dell'esperienza intima legata alla fatica e la lotta contro la sofferenza
era perciò indistinguibile dalla difesa della dignità. Ma in epoca
tayloristica le organizzazioni del movimento operaio assunsero il punto di
vista «economico» fino ad abbracciare completamente il criterio
dell'utile. Il "comunismo" diventò il diritto di tutti ad avere
quel che avevano i borghesi e non più di essere
diversi da loro in una società diversa. Le rappresentanze del movimento
operaio non si distinsero più dai partiti borghesi, le cosiddette società
socialiste furono il regime di un capitalismo di stato difficilmente
distinguibile dall'esperienza fascista. Si è innescata quella spirale che
ha portato a decretare la cosiddetta fine del comunismo.
7.
L'utilitarismo è l'estremizzazione della logica economica. Il suo
campione fu Bentham, il quale fu anche non a caso il dottor Stranamore che
inventò il "Panopticon", fabbrica-prigione con un sistema di
controllo in cui il controllore vede senza esser visto. Ancora oggi
struttura architettonica di molte prigioni, il "Panopticon"
resta comunque valido nel suo principio anche in ogni nuova edificazione
carceraria che non segua quei criteri architettonici, rivelatisi poi non
così efficaci. Magari uno spioncino sul muro del cesso si rivela
altrettanto funzionale: ed è quel che è stato fatto.
Qui,
nello spioncino di un cesso, è chiarissimo il nesso fra utilitarismo e
tentativo di eliminare totalmente l'esperienza intima dell'individuo, è
chiaro il nesso esistente fra punto di vista economico e totalitarismo. La
trasparenza che bisogna sempre cercar di raggiungere tra le esperienze
interiore ed esteriore viene risolta cercando di sradicare la prima,
attraverso «l'essere visti senza vedere».
8.
Ma nonostante lo spioncino applicato perfino al gabinetto, quando ragiono
sui miei dolori-pene di carcerato, posso avvicinarmi alla comprensione di
quel che attraversa un malato di tumore. A sua volta, un super borghese
colpito da stato tumorale può fare delle riflessioni su se stesso che lo
portino ad una maggiore comprensione (meno utilitarista) del mondo e perciò
degli altri (la letteratura autobiografica al riguardo non manca, non starò
a citarla). Il dolore non esorcizzato mette in discussione i confini
dell'acquisito, l'egoismo ed esalta insieme la dignità del singolo e la
lotta alla sofferenza, oggi spesso inutile sovrappiù che moltiplica il
dolore umano oltre l'inevitabile.
La
rimozione del dolore riduce le ideologie a maschere della falsa coscienza.
9.
In carcere, dove tutto arriva più facilmente all'estremo, nei primi anni
'90, al massimo del regime premiale, si è visto persino un'arma estrema
come lo sciopero della fame diventare strumento della dissociazione
mentale, momento di spettacolo.
È
opportuno ricordare che la vera
lotta non violenta è probabilmente la più "eroica" fra tutte.
La lotta armata è più facile a realizzarsi dato che in essa, ancora, si
difende il proprio corpo. Ma quando si arriva al punto di usare come unica
arma la propria vita (o morte), diventano necessari un sereno coraggio e
un'elevatezza spirituale che sono di pochi. Proprio per questo, però,
quei pochi hanno un effetto "devastante" sull'avversario: hanno
sviluppato una tale capacità comunicativa della forza interiore da
risultare disarmanti, impongono un rispetto di sé senza pari.
Il
vero sciopero della fame, insomma, non è neanche una vera e propria
lotta, una protesta: è un'affermazione estrema del proprio modo d'essere,
della propria persona, del Sé più che di sé, della propria dignità, in
circostanze dove il compromesso si riveli impossibile. È dunque poco
generalizzabile a livello di massa e proprio qui sta la sua grande forza
quando sorge. Esce infatti dalla cultura di una civiltà fondatasi sul
mito dell'Io e, perciò, da ogni logica politica intesa in senso stretto
(della "rappresentazione", dell'atto dimostrativo) e apre varchi
di luce nell'inconscio collettivo invece di rinnovare i suoi limiti. A
livello "di massa" è dunque possibile una seconda forma di
lotta, una protesta vera e propria, in un certo senso... iniziatica
rispetto alla prima che è al di là dello stesso concetto di protesta:
parlo della non-collaborazione.
Nel
carcere si è sviluppato per un certo periodo un gran pasticcio.
Ricorrendo a dei digiuni si è imitata la prima forma per raggiungere e
fare l'opposto rispetto alla seconda! Lo sciopero della fame è stato
ritualizzato, svuotato d'ogni contenuto e perciò di efficacia,
inflazionato in una pratica che ormai il più delle volte meritava un solo
nome: simulazione. Poiché spesso (e fin qui pazienza, si capisce) il
digiuno non è più stato soltanto un atto dimostrativo
(con scadenza prefissata di x giorni, simbolico, senza uno scopo cui
venisse legato), ma è diventato pure falso: il rifiuto del carrello col
cibo dell'amministrazione non significava digiuno, e si crearono persino
le consuete ingiustizie fra chi aveva tanto e chi poco cibo in cella. Lo
sciopero allora "riuscì" dove c'era tanto da mangiare e fallì
nelle sezioni più povere dove si rischiava di fare sul serio la fame se
non si prendeva il cibo dal carrello.
Non
c'è dunque da stupirsi se un tipo di lotta così tipicamente delicata e
soggettiva, necessariamente legata a una totale libertà di coscienza
individuale (e perciò tradizionalmente praticata da poche persone molto
determinate), sia stata quella volta proposta come cosa da fare in massa,
come «dovere» per delle migliaia, a chi aveva 20 o 50 anni, e così via.
Interpretare uno sciopero della fame come un'astensione dalla produzione
(che tutti possono fare) significa ridurre la visione della persona a
quella di una macchina. Il risultato è lo svuotamento di significato di
uno strumento prezioso, di un atto estremo (direi quasi sacro nella storia
delle prigioni).
Ma
quale fu allora il vero scopo di quegli scioperi di massa? È semplice:
offrire di sé una visione vittimistica, di "buoni", come se lo
scopo di migliorare le proprie condizioni (ottenendo più premi) potesse
essere raggiunto attraverso una commozione della controparte (la società,
l'autorità, il mass media). È una visione molto ingenua delle cose,
irresponsabilmente indotta dalla TV e dai giornali: apparire come notizia
là sopra vuol dire essere, eccetera.
Il
corrispettivo di tutto ciò è stato la coda per il premio. Solo che
quanta più coda c'è, tanto più aumenta la discriminazione,
l'ingiustizia. E quali rapporti reali possano instaurarsi fra detenuti
lungo questa linea suicida, è facile immaginare. Per fortuna, devo dire
che c'è sempre una buona dose di saggio scetticismo fra non pochi
carcerati e perciò, dopo un po' di tempo non si sentì più parlare di
scioperi della fame di massa...
Ricordo
che in questi ultimi decenni molti prigionieri (per lo più politici) sono
morti in seguito a degli scioperi della fame: in Germania, nel Regno Unito
(militanti irlandesi), in Turchia. Quando si arriva alla questione
essenziale, il senso della propria vita, ci si accorge che si tratta della
propria «dignità», concetto che racchiude tutto ciò che è opposto
all'utilitarismo e che, nella sua concretezza, riguarda la capacità di attraversare
il dolore superando la
sofferenza.
10. Lottando per l'abolizione del dolorificio legale, il movimento abolizionista non realizzerà la «felicità», ma potrà consentire all'umanità intera di ridare un senso all'esperienza intima del dolore: è una necessità ormai urgente contro la crisi della ragione.