1.
Del
corpo
1.
La parola "abolizionismo" nasce in America nella lotta contro lo
schiavismo; oggi essa qualifica un movimento inteso a realizzare una
giustizia senza prigioni e, più in generale, una società che superi
l'idea stessa di pena. Gli abolizionisti americani ritengono che la lotta
iniziata perché non ci fosse schiavitù sarà conclusa quando non ci sarà
più reclusione (Gallo - Ruggiero).
Anche
se Henry Thoreau non scrisse praticamente nulla sulle prigioni ma, contro
lo schiavismo, una famosa Apologia
per John Brown, egli è forse il primo e miglior interprete di una
concezione generale dell'abolizionismo. In Disobbedienza
civile (1849), afferma:
«È
con vero entusiasmo che accetto il motto: "Il governo migliore è
quello che governa meno"; mi piacerebbe vederlo messo in pratica, il
più rapidamente e sistematicamente possibile. In effetti, esso si riduce
a questo, alla fine (e anche in ciò io credo fermamente): "Il
miglior governo è quello che non governa affatto"; noi riusciremo a
ottenerlo quando saremo abbastanza maturi».
Secondo
Thoreau, quanto più si è «maturi» tanto meno serve l'autorità, ovvero
quanto più c'è coscienza tanto meno c'è bisogno di legge. In una
concezione più ridotta, senza neppure dover essere abolizionisti verso la
giustizia penale, potremmo parafrasarlo in questo modo: «La giustizia
migliore è quella che incarcera meno...»; l'abolizionista moderato
aggiungerebbe: «...e la miglior giustizia è quella che non incarcera
affatto»; e l'abolizionista radicale: «la miglior giustizia è quella
che non conosce castigo».
Ma
esiste la maturità auspicata da Thoreau? Fino a non molto tempo fa simili
concetti potevano essere compresi in un linguaggio comune sia ai
sostenitori dell'autorità e delle leggi, sia a coloro che ritenevano i
tempi maturi per la concessione di una maggior dose di libertà
individuali: per tutti il carcere era un male, necessario secondo gli
autoritari, ridimensionabile secondo i liberali; lo stato della giustizia
era tanto più sano quanto meno c'era bisogno di ricorrere alla
reclusione.
Poi
avvenne qualcosa. Se ne ebbe l'eco molto tardi.
2.
In un giorno dei primi anni '90 odo alla Tv il ministro di giustizia
Martelli, del partito socialista, presentare come un progresso sociale
l'aumento del numero di detenuti in Italia, anche se non eravamo ancora al
livello ideale del paese guida della civiltà: gli Stati Uniti d'America.
Rimango così stupito che lì per lì credo di non aver udito bene.
L'indomani, tutti i giornali riportano la notizia: senza stupore.
Poco
dopo il ministro conclude ingloriosamente la sua carriera con l'accusa di
essere corrotto; con lui sparisce anche il partito socialista italiano,
abbattuto per via giudiziaria prima ancora che dalla coscienza politica
dei cittadini votanti. Al ministro tuttavia sopravvive un famigerato
decreto da lui firmato insieme a un ministro democristiano, Scotti -
anch'egli con la carriera poi stroncata per motivi giudiziari -: un
decreto che, aggiungendosi a un altro riguardante il consumo di droghe (Jervolino-Vassalli)
ha fatto raddoppiare in un paio d'anni la popolazione carceraria grazie al
ricorso alla custodia cautelare e che con vari altri provvedimenti ha
peggiorato le condizioni di vita in cella.
Trovo
emblematico il caso dell'ex ministro Martelli: quando si arriva a
esprimere un'idea singolare come la sua, non c'è da stupirsi se egli
stesso, poco tempo dopo, resta vittima della giustizia. Una simile idea,
infatti, non può che essere l'indice del punto di crisi raggiunto dal
sistema penale e dalla storia carceraria: il punto in cui è iniziata la
catastrofe di una curva la cui ascesa è cominciata alla fine del '700.
Tutto ciò è indubbiamente molto pericoloso; è però anche da stimolo
per una maggior comprensione delle tesi abolizioniste onde reagire ai
pericoli.
Nel
1994, pur senza esaltare la cosa come un grande progresso ma solo come un
doveroso adeguamento civile, il vice-direttore generale delle carceri
afferma che bisogna costruire più prigioni perché così facendo ci si
mette in linea con i paesi più moderni (come gli USA). La nuova teoria
scientifica viene ripresa dal leader dei magistrati che hanno combattuto
la corruzione nel mondo della politica e degli affari, il procuratore capo
di Milano Borrelli:
«Malgrado
l'incremento dell'ultimo anno, siamo ancora al di sotto della media di
altri paesi dello stesso livello socio-economico (...) Piuttosto che
mettere sulle strade i delinquenti, sarebbe opportuno costruire altre
carceri, possibilmente senza rubarci sopra» (La
Stampa, 18/7/94).
Dall'infantile
esaltazione di Martelli siamo passati a una matura concezione scientifica,
a una teoria del progresso sociale esattamente opposta a quella
ottocentesca: ora sappiamo che lo sviluppo socio-economico aumenta il
disagio sociale. Perciò il nuovo progresso si misurerà con l'aumento
delle misure repressive..., abbandonando l'ingenuo ottimismo ottocentesco.
3.
Se c'è qualcosa che ossessiona il linguaggio penale, è la necessità di
presentarsi sempre in termini scientifici: oggettivi, misurabili. Se c'è
qualcosa che si può dimostrare scientificamente nella realtà di questi
decenni, è invece proprio l'assoluta elasticità del grado
d'incarcerazione rispetto al tasso di criminalità da paese a paese, quali
che siano le economie dei singoli paesi. È quel che per esempio dimostra
Nils Christie, abolizionista, professore di criminologia all'università
di Oslo, in Abolire le pene?
(1981), uno dei pochi libri abolizionisti tradotti in italiano (Ed. Gruppo
Abele, Torino, 1985).
Nell'Europa
del Nord, il paese con meno reclusi rispetto alla popolazione, quando uscì
il libro, era l'Olanda: «... un piccolo paese, altamente
industrializzato, con gravi problemi di minoranze, di droga e di
criminalità, situato proprio nel cuore dell'Europa, l'Olanda, con meno di
26 reclusi ogni 100 mila abitanti, la metà della percentuale norvegese, e
l'equivalente di quella islandese: eppure l'Islanda, sia storicamente che
geograficamente, è molto più simile alla Norvegia». Nel 1979 l'URSS era
uno dei paesi con più incarcerati al mondo (660 ogni 100 mila abitanti);
si potrebbe darne la colpa semplicemente al regime politico, ma ecco che
in Germania orientale e in Cecoslovacchia il numero dei reclusi era invece
molto basso.
La
storia di questo secolo in Europa, comunque, con l'eccezione dell'Urss di
Stalin e della Germania nazista, ha teso a far diminuire il numero dei
reclusi. La preoccupante inversione di tendenza degli ultimi anni trova la
sua analogia con la prima metà dell'Ottocento, quando l'uso della
detenzione come pena diventa praticamente la pena principale, così
segnando l'atto di nascita del carcere moderno, il penitenziario. Ancora
nel 1870, in Italia, su 27 milioni di abitanti c'erano 70 mila reclusi;
attualmente sono intorno ai 50 mila, su poco più di 50 milioni di
abitanti. Aumentare la popolazione reclusa, storicamente significa tentare
di tornare indietro di un secolo.
Chi
legga il codice penale vedrà in esso un complesso sistema di misurazione
per l'erogazione delle pene in rapporto alla gravità del reato. Chi
condanna vuol presentare del diritto un metodo di misurazione più preciso
dell'arte della posologia offerta dalla scienza farmacologica. Eppure
resta sempre il fatto, verificabile in qualunque prigione, che a parità
di reato corrisponderanno quasi sempre pene diverse: il periodo in cui si
è svolto il processo, il "clima", la città, il carattere del
giudice ecc. avranno pesato sulla sorte dell'imputato ben più di quei
numeri sul libro. E ciò avviene da sempre e dovunque, come dimostra
un'abbondante letteratura mondiale, specie quella su cui è fondata la
fortuna del romanzo ottocentesco, da Tolstoj a Dostoevskij, da Hugo a
Stendhal a tanti altri. Ma ora i nuovi riti volti a premiare chi collabora
con i giudici, autodenunciandosi o denunciando altri, hanno accentuato la
mancanza di un legame "comprensibile" tra reato e pena a livelli
inimmaginabili per la stessa già allarmata mente ottocentesca. Le cose si
complicano ulteriormente quando dalla fase del giudizio si passa
all'espiazione della sentenza definitiva: in carcere l'imputato vede il
suo comportamento quotidiano al vaglio del tribunale di sorveglianza
coadiuvato dal contributo della direzione, della custodia, degli
educatori, degli psicologi e dei criminologi. Il «trattamento» serve a
usufruire dei benefici previsti dalla legge sull'ordinamento
penitenziario. Qui l'asserita obiettività del metodo di misurazione del
rapporto reato-pena diventa un assoluto labirinto che ogni detenuto
considera alla stregua di una lotteria poiché il giudizio riguarda la
persona e non il reato. Un orgoglioso ladro di biciclette può scontare più
anni di carcere di un omicida che faccia il "pentito". Molti
sono ormai gli individui che si fanno questo conto: «Appena mi beccano,
faccio quello che denuncia gli altri e me la cavo».
4.
Questo esemplare di nuovo delinquente - foss'anche uno solo al mondo - è
la miglior prova del corto-circuito al quale è giunta la storia della
giustizia penale, è l'eco della fine d'ogni presunta coerenza nel
rapporto fra reato e pena fino al punto in cui è il sistema penale a
creare, prima ancora che finisca in carcere!, un nuovo criminale
assolutamente privo di scrupoli, premiato dalla legge quando sarà
arrestato, stipendiato magari dallo Stato e presentato come
cittadino-modello. E lo smascheramento di questa incoerenza del rapporto
pena-reato rivela il carattere di falsa scienza del linguaggio
giuridico-penale, sia quando si presenta (in fase di giudizio) come
farmacopea anti-reato, sia quando si presenta come scienza antropologica e
psicologica anti-reo (in fase penitenziaria). Eppure, nonostante la sua
crisi, anzi proprio nel suo approfondirsi, questo ramo del diritto aumenta
la sua ossessione di volersi presentare come scienza sociale.
Abbiamo
infatti a che fare sì con un presunto linguaggio scientifico, con una
falsa scienza sociale, ma anche con una precisa scienza del linguaggio,
con una raffinata arte della parola dotata di oltre due secoli di storia e
la cui funzione è tutt'altro che arbitraria nella storia della nostra
civiltà, rivelando anzi qui non poca coerenza. Scopo di questa scienza
(del linguaggio) è di oscurare un aspetto della realtà: la sofferenza.
L'oggettività del linguaggio è un gioco di prestigio, uno spettacolo
illusionistico che deve far dimenticare che si interviene sulla
soggettività umana, su qualcosa dunque di opposto a ogni oggettività,
qualcosa di non misurabile in termini quantitativi.
Il
dolore, sottolinea Christie, è una «faccenda personale» e «mai da
nessuna parte si è stabilito che cosa esso sia».
5.
Se l'esperienza del dolore non è definibile e misurabile è perché,
ovviamente, non la si può comunicare, non si può parlarne se non in
termini generici. Nessuno di noi può immaginare veramente ciò che prova
l'altro. Ciò che si sottrae alla parola si sottrae ad ogni scienza
sociale (neppure la medicina ha mai pensato di trovare un'unità di misura
per il dolore fisico).
Qui
sta la scoperta semplice e rivoluzionaria degli abolizionisti. Il diritto
penale non può che essere una falsa scienza poiché si occupa di
"pena" (sofferenza), cioè di qualcosa che si sottrae ad ogni
scienza esatta per la sua stessa natura. La "scienza" penale
serve allora ad altro: a nascondere il dolore che somministra. Il sistema
penale è un modo di infliggere sofferenza che si maschera dietro a delle
cifre che parlano in modo neutro soltanto di libertà tolta.
6.
Da qui deriva la seconda caratteristica del movimento abolizionista:
dovendo contestare una pseudo-scienza in nome di qualcosa che non potrà
mai diventare oggetto di scienza, l'abolizionismo parte da una critica morale.
Così
si spiega N. Christie:
«Per
alcuni anni, tra gli studiosi di scienze sociali il moralismo è stato
considerato un atteggiamento, o quanto meno un'espressione propria dei
difensori dell'ordine e della legalità, sostenitori di sanzioni penali
severe, mentre i loro oppositori sembrava quasi dovessero fluttuare in una
sorta di vuoto privo di valori. Voglio che sia comunque chiaro a tutti che
anch'io sono un moralista. Peggio: sono un "imperialista
morale". Una delle mie premesse fondamentali sarà che è giusto
combattere perché siano ridotte in tutto il mondo le pene che vengono
inflitte. Posso benissimo immaginare le obiezioni a questa posizione. Il
dolore aiuta gli uomini a crescere. L'uomo matura maggiormente - quasi
rinasce - penetra più a fondo i significati, sperimenta meglio la gioia,
quando il dolore scompare, e secondo alcune dottrine religiose, si
avvicina a Dio e al Cielo. Può darsi che alcuni fra noi abbiano
sperimentato questi vantaggi. Ma abbiamo anche sperimentato il contrario:
il dolore che blocca la crescita, che la rallenta, che incattivisce la
gente. In ogni modo: non riesco ad immaginare la possibilità da parte mia
di lottare per far aumentare sulla terra la sofferenza legale che l'uomo
infligge all'uomo. E neppure riesco a trovare alcuna buona ragione per
credere che il livello delle pene comminate oggi sia quello giusto e
naturale. E poiché la questione è importante, ed io mi sento costretto
ad operare una scelta, non vedo quale altra posizione possa essere difesa,
se non quella di lottare affinché la severità delle pene venga ridotta.
Quindi,
una delle regole dovrebbe essere: in caso di dubbio, ci si astenga dal far
soffrire. Un'altra: si infligga la minor pena possibile. Si cerchino
alternative al castigo, non solo castighi alternativi».
7.
L'abolizionista verrà perciò facilmente accusato di avere tutti i
difetti attribuiti generalmente al moralismo: il suo ragionamento - si dirà
- è poco scientifico, le sue affermazioni sono imprecise, manca di una
visione complessiva, di un progetto organico, non offre alternative
eccetera. In particolare, la grande maggioranza dei giuristi solleverà
accuse volte a difendere il proprio ruolo sociale, la scientificità del
proprio lavoro, recalcitranti ad ammettere che si stanno occupando di
qualcosa che non hanno mai provato: la sofferenza
legale.
Ma
è solo l'approccio morale che, appunto per chi non ha mai provato tale
esperienza, può consentire di capire l'evoluzione del sistema penale, la
sua crisi, la possibilità e la necessità di farne a meno.
In
tutte le concezioni religiose o filosofiche ereditate dal genere umano
esistono alcuni valori morali elementari comuni, detti "morali"
perché non dimostrabili scientificamente, ma comunque apodittici tanto
fanno parte della percezione comune. Si tratta di elementi concettuali così
generici che potremmo definirli universali anziché morali: intendono
realizzare un movimento verso il "bene" e ci si può richiamare
a essi in nome di ideologie diverse, ma tutti vi ubbidiscono verso una
promessa di maggiore felicità della condizione umana, come se questo
scopo mai perfettamente raggiunto sia tuttavia irrinunciabile per la
nostra coscienza, ne faccia parte integrante come struttura
dell'immaginario. A questo scopo si associa generalmente l'immagine di
un'elevazione spirituale dell'essere umano verso dimensioni che le
religioni confessionali ritengono di saper definire mentre fanno parte
dello sconosciuto e della ricerca della verità per altre concezioni
religiose e non. Questa maggiore felicità è comunque, per tutti e in
ultima istanza, una lotta alla sofferenza. Anche le concezioni religiose
confessionali che esaltano la sofferenza devono farlo in nome di
un'"altra vita", così indicando nella dimensione divina il suo
superamento (nel paradiso, per esempio). E in modo paradossale ubbidisce a
questo imperativo morale pure la storia del sistema penale, ignorando di
infliggere sofferenza, o giustificandosi con delle minimizzazioni, o
comunque presentando i propri atti come progressi lungo una linea di minor
sofferenza inflitta, o - soprattutto - nascondendo il proprio operato al
pubblico sguardo nell'invisibile mondo recluso. In parole povere, il
diritto penale è un "media" che manipola il senso della realtà
rispetto a un sistema di pratiche il cui unico scopo è quello di essere
tecnica che infligge sofferenza; un media che - mi si passi il gioco di
parole - fa la commedia nascondendo la sua vera scienza per ubbidire
formalmente a quell'imperativo morale al quale si sottrae nella pratica.
Il più significativo esempio di acrobazia mentale sotto questo profilo mi
sembra quello offerto dal giurista cattolico Carnelutti che definì la
pena un «atto d'amore» dato che a suo parere l'umiliazione e la
sofferenza inducevano al pentimento redentore. Il suo pensiero influì non
poco sui deputati Leone e Moro i quali ebbero un ruolo fondamentale nella
formulazione della filosofia penale della Costituzione della repubblica
italiana.
L'ultimo
provvedimento governativo per le guardie carcerarie propone un eufemismo
linguistico rispetto alla stessa funzione reclusoria: le guardie non sono
più agenti «di custodia» (il che era già un bell'eufemismo dal suono
iperprotettivo verso il recluso), ma di «polizia penitenziaria», ovvero
agenti delle forze dell'ordine posti casualmente in un luogo diverso dalla
strada, un luogo che vorrebbe essere altrettanto neutro. Il cambiamento
linguistico è uno dei risultati laterali ottenuti dalla «smilitarizzazione»
delle guardie carcerarie (cioè del loro conquistato diritto alla
sindacalizzazione, prerogativa dei civili). Recentemente capita spesso al
detenuto di vedere una guardia irritarsi se viene chiamata «guardia».
Pur essendo lì per impedirti di varcare un cancello di cui possiede le
chiavi, il carceriere non vuol sentirsi dire che è stato messo di guardia
nei tuoi confronti. Egli è un agente e basta, concetto neutro. Il
detenuto è praticamente invitato ad aggiornare il suo vocabolario e forse
tra un po', com'è da tempo nell'incomparabile ipocrisia dei paesi di
lingua inglese, dovrà autodefinirsi «ospite» e dire «stanza» per la
sua cella.
8.
Se affermo con tanta sicurezza che l'approccio morale può permettere di
capire realmente l'evoluzione della storia della pena è perché è
l'unico metodo che consente di ricostruire la storia del dolore. Tutto
diventa più chiaro se traduciamo «penale» con la parola «dolorifico»
e «penitenziario» con «dolorificio».
La
reazione umana al dolore, infatti, dipende anzitutto dal senso che si ha
di se stessi - senso che rimanda a una dimensione anch'essa ai confini
dell'esprimibile, tant'è vero che la si definisce con un termine
tipicamente vago come tutti quelli di natura cosiddetta morale: dignità.
Al bambino si dice: «non piangere per quel che ti è successo, ormai sei
grande». Ed ecco che il bambino, in effetti, risentirà meno della
sofferenza a queste parole; ha conquistato... dignità, cioè maggiore
autonomia della propria personalità e, quindi, libertà.
Questa è forse una delle più gratificanti lezioni che i bambini
accettino dagli adulti.
Il
modo migliore di combattere il dolore consiste perciò nell'affrontarlo
con la nostra libertà psichica. Viviamo tuttavia in una società che
ignora abbondantemente una verità così elementare. Nella catena dei
consumi, il corpo viene sempre più spesso narcotizzato con psicofarmaci
per aggirare (illusoriamente) l'esperienza del dolore, per fuggire dalla
sofferenza. Il risultato è una coscienza drogata per un corpo-burattino
consegnato con mille deleghe a mille esperti. L'individuo
supermedicalizzato ritorna a essere un bambino ipersensibile al dolore,
resosi sempre più incapace di affrontare la sofferenza. Così facendo
egli ha costruito una grande gabbia intorno a sé, una prigione nella sua
mente che lo priva di ogni autonomia giacché ogni assistenza è una
dipendenza. Che ci guadagna? Intanto è un ubbidiente consumatore.
Inoltre, Illich (Nemesi medica,
1975) osserva che con lo status di «malato» si ottiene, oltre che
assistenza, impunità. La malattia è un lasciapassare
deresponsabilizzante, una nuova carta dei diritti... Il malato è come un
bambino che deve essere curato e ritenuto incosciente dei propri atti.
Il
detenuto è invece quell'individuo sul quale bisogna attuare questo
processo regressivo contro la sua volontà: perché diventi ubbidiente, si
creeranno in lui stati di dipendenza. Una gabbia esterna gli viene
applicata per distruggere la sua autonomia, per mutilarla in tutti suoi
aspetti:
«Il
detenuto si trova privato di braccia, di gambe, di voce, di decisionalità
autonoma. Tutto l'universo carcerario è articolato per protesi: dallo
scrivano al lavorante sono tutte protesi del corpo detenuto, che ha
bisogno dell'istituzione, delle sue varie figure, per mangiare, spedire
una lettera, mandare un piatto all'amico (...). È come trovarsi
all'improvviso in carrozzella o in un busto di gesso» (Gallo - Ruggiero).
9.
Il carcere è prima di tutto una costante pena fisica poiché in ciò
consiste anzitutto la mancanza di libertà, come si dimentica spesso. La
non-libertà mutila i movimenti del corpo in tutte le attività autonome
della vita quotidiana, crea stati di privazione sensoriale. L'intento è
quello di "trasformare" gli individui in corpi docili, ma in
questo caso, ovviamente, il processo educativo segue una linea opposta a
quella considerata prima nell'esempio del bambino: si ritiene che
procurando sofferenza si disarticoli la riottosità individuale. Davvero
una strana idea questa, rivelatasi tanto fallimentare nella storia della
reclusione, che non la si può spiegare solo ricorrendo alla permanenza di
antiche concezioni pedagogico-punitive ereditate dal cristianesimo
ortodosso dei tempi di S. Agostino e sulla sua scia nel medioevo.
Ritengo
che per S. Agostino ci fosse poca differenza tra un bambino e un
delinquente. La religiosità di tipo confessionale vede la
"carne" come parte cattiva dell'uomo. La punizione inflitta alla
carne allontana la parte peggiore e favorisce la liberazione della parte
spirituale. Né il bambino né il reo sono innocenti: l'innocenza va
conquistata. Il bambino va picchiato quand'è necessario, il reo va
torturato per accertare la verità. La sofferenza inflitta alle carni
favorisce la salvezza dell'essere umano in questo mondo o nell'altro (per
chi merita la morte). Abbiamo a che fare con un modo di pensare in cui la
detenzione non è ancora considerata una pena, mentre lo è il dolore
fisico. L'eventuale segregazione è perciò custodia cautelare in attesa
della pena vera e propria che sarà supplizio. Si insegue un ideale di
salvezza all'interno di un sistema di valori in cui il credente libera il
miscredente dalle forze malefiche, cerca di favorire la sua crescita.
Questo
sistema di valori scompare quando sarà la detenzione stessa a diventare
l'unica pena formalmente prevista. Ora la virtù non è connessa a un'idea
di crescita spirituale, ma a una pura e semplice obbedienza alle regole
esistenti. Al di là della retorica, nei fatti non c'è più
un'indicazione in positivo, non si deve «crescere», ma semplicemente «non
trasgredire». Ma la mente umana segue il percorso di quel bambino che
impara a non piangere; di fronte alla violenza subita in carcere prova a
reagire resistendo, acuendo il senso di sé, ricorrendo alla libertà
mentale. Ed è contro questa naturale reazione umana che si deve
scatenare, allora, la seconda forma di violenza dell'istituzione penale,
ancora più afflittiva della prima: la violenza psichica.
10.
Il recluso viene colpito, oltre che nei movimenti fisici della vita
quotidiana e nei suoi sensi, anche nella parola (la «comunicazione»,
come si dice oggi in lingua robotica) e negli affetti (nei sentimenti, cioè
nell'amore come si diceva una volta). Ed è questo secondo tipo di
violenza che è andato sempre più aumentando per far fronte agli
inevitabili fallimenti del primo tipo, in una spirale sempre più
distruttiva che tuttavia si è ammantata di parole sempre più umanitarie
(«rieducare», «recuperare»).
11.
Di fronte a tutta questa violenza alcuni osservatori finiscono per
ritenere che la detenzione non abbia poi tutta quella pretesa accampata di
trasformare gli individui; il carcere sarebbe in sostanza un immondezzaio
dove buttare i rifiuti umani, un dimenticatoio sociale. Questi osservatori
confondono però il risultato con l'intenzione. Personalmente, per
esempio, preferirei essere considerato un essere inutile da buttare nel
dimenticatoio: ciò mi risparmierebbe tutto quel sovrappiù di inutile
sofferenza che mi viene inflitto per "trasformarmi" in nome
dell'umanità.
Se
siamo da buttar via, basterebbe tenerci in una zona confinata rispetto
all'esterno da alti muri di cinta, all'interno della quale potremmo
vivere, nei limiti della situazione, un po' di più come tutti gli altri,
senza tutte quelle mutilazioni fisiche, morali e affettive che si devono
subire in carcere. Davvero il recluso sarebbe privato soltanto della
libertà fisica, davvero il carcere sarebbe semplicemente una nuova
versione, seppure asfittica, dell'esilio e della deportazione, antiche
misure in cui in qualche modo la dignità delle persone era ancora
salvaguardata, dove pur soffrendo la miseria un uomo e una donna per
esempio potevano provare a vivere assieme amandosi (qualcuno avrà letto
il romanzo Manon Lescaut), senza
dover rendere conto di ogni loro gesto a qualcuno. Una tale ipotesi, tra
l'altro, non costerebbe nulla ai cittadini normali che pagano le tasse:
gli esclusi si procurerebbero loro stessi da vivere. Ma il carcere ha
fatto sparire anche l'esilio.
12.
Ci troviamo dunque di fronte a una contraddizione: tanti sforzi costosi
(per i liberi cittadini) e tante sofferenze (per i detenuti) che vanno
sempre incontro a un fallimento rispetto ai fini dichiarati dal diritto
penale (far diminuire il crimine). Come spiegare questa apparente assurdità?
Proviamo
a riassumere la catena logica allusa dal dolorificio: la sofferenza è
mutilazione di possibilità autonome; la mutilazione crea dipendenza; la
dipendenza crea ubbidienza, ovvero un modo di comportarsi ritenuto
accettabile dalla società. Questa logica risulterà pure assurda rispetto
all'essere umano il quale segue invece l'esempio anzidetto del bambino che
cresce; ma se si va a vedere un po' meglio si scopre che è una logica
identica all'atteggiamento assunto dagli umani verso gli animali da
addestrare per l'uso domestico. Gli animali, non dotati di
"coscienza" (intesa qui come quella coscienza della propria
esistenza che avremmo acquisito a partire dalla consapevolezza della
nostra mortalità), reagiscono alla punizione ubbidendo. La logica
detentiva ignora che l'essere umano reagisce col suo pensiero, con la sua
libertà mentale, ricorrendo al suo senso della dignità oppure
all'astuzia, alla sfida o alla finzione, alla ribellione cosciente o alla
capacità di ritagliarsi uno spazio nell'abito di criminale che gli è
stato cucito addosso. Il criminale, infatti, alla fine esiste: è
costruito alla lunga proprio dal codice penale ed è colui che accetta i
valori della società per muoversi al loro interno, accettandone il
sistema pur dovendo ricorrere all'illegalismo. È una persona che,
esattamente come chi accetta il contratto del lavoro salariato, rinuncia
alla rivolta sociale per non rinunciare a sopravvivere, prestandosi al
ruolo del capro espiatorio per la sua attività fuori contratto, il suo
lavoro extra-legale.
È
quindi chiaro che il pensiero penale può nascere solo da una classe
dominante che abbia una mentalità razzista verso le classi inferiori. Il
detenuto non è più una persona che debba crescere, di cui si debba
risvegliare e liberare l'anima tramite il dolore come all'epoca dei
supplizi della carne, ma una bestia che deve imparare a stare al suo
posto. La detenzione è il tentativo di organizzare questa regressione.
Questo
«razzismo di classe» troverà addirittura una sua compiuta espressione
nell'invenzione di una nuova scienza, la criminologia. Per quel dottor
Stranamore ottocentesco che fu Lombroso, chi compie un reato è un tipo
umano particolare: il criminale, individuo biologicamente tarato. Lombroso
spiega la natura umana fin nella sua struttura biologica a partire dagli
articoli del codice penale! Questa tesi giustifica il trattamento
riservato al criminale come cura riservata a un particolare tipo di
malato. L'ideale umanistico così è salvo, con una terapia che trova gli
elementi di fondo della sua diagnosi nel... libro della legge e i suoi
riscontri nell'aspetto fisico del reo. Oggi è vero che nessuno si azzarda
più a fornire spiegazioni biologico-razziste per interpretarci, ma
l'invenzione della figura del criminale e la criminologia sussistono: il
biologismo rozzo di Lombroso è via via sostituito dall'antropologia
criminale, dalla criminologia psicologica, da quella sociologica, in un
cammino dove il tarato primitivo è diventato un moderno deviante. Plus
ça change, plus c'est la même chose.
13.
Grazie a questo nuovo umanesimo positivista borghese si prova a spiegare
l'avvento del carcere moderno come progresso umanitario portato dal secolo
dei lumi. Non è forse vero che la detenzione come pena infligge meno
sofferenza delle fustigazioni, delle ruote, dei roghi e dei patiboli?
Questa
tesi, ormai facente parte del senso comune, è falsa.
L'uso
del carcere contemporaneo nasce da tutt'altre motivazioni e la spiegazione
"progressista" fornita dai giuristi è una giustificazione a
posteriori. Da studi storici come quelli di Foucault e Ignatieff è
possibile ricavare una visione diversa.
14.
L'uso della detenzione come pena principale viene sancito in Inghilterra
nel Penitentiary Act del 1779,
si ritrova pochi anni dopo in Francia già nel primo codice
rivoluzionario, s'affaccia nel granducato di Toscana eccetera. Dovunque,
in Europa e negli Stati Uniti, la novità si verifica in quegli anni. Il
carcere moderno nasce quasi improvvisamente come soluzione di fatto a una
crisi della giustizia giunta ormai alla paralisi.
La
pena che andava dal supplizio al patibolo era stata concepita in
situazioni storiche dove si pensava più ai crimini di sangue che a quelli
contro la proprietà. Poi giunse il tempo in cui il bene di un possidente
divenne più importante della vita di una persona. Con la crescita della
borghesia, l'industrializzazione da un lato e la crisi del vecchio sistema
agricolo dall'altro creano una sovrappopolazione sempre più vasta,
composta di vagabondi e mendici, che va a costituire quell'esercito di
disoccupati altrimenti detto esercito industriale di riserva (Marx); anzi
di riserva e pure di ricatto poiché la sua sventurata sorte serve a
convincere l'operaio industriale ad accettare il contratto del lavoro
salariato come il male minore. Questo cammino del capitalismo industriale
sviluppa anche il proprio spirito: l'ossessione borghese in difesa del
patrimonio. Una legiferazione sempre più abnorme reprime l'offesa alla
proprietà secondo una concezione della pena ereditata tuttavia ancora dal
passato. Il risultato è una severità sanguinaria anche per la
repressione dei reati non di sangue. In Inghilterra, in Francia tra la
fine del Seicento e la seconda metà del Settecento aumentano le condanne
a morte. Avviene allora un fatto strano: quel popolo che fino a poco tempo
prima considerava le pubbliche esecuzioni occasioni di festa, ora le va
sempre più contestando. Come se non bastasse, la severità ottiene un
effetto opposto ai propri intenti: se si rischia molto a commettere un
reato di poco conto, tanto vale commetterne uno grave: aumentano perciò
gli omicidi. Inoltre, essendoci troppa gente da punire, tutta quella
severità, tanto più di fronte alla crescente contestazione popolare dei
suoi atti sanguinosi, finisce per diventare sempre più inefficace
all'atto pratico, inattuabile. Cominciano dunque ad apparire
occasionalmente pene detentive quali commutazioni di originarie condanne a
morte. Lo stesso significato va attribuito all'uso massiccio della
deportazione. E nel 1775, con l'indipendenza americana, l'Inghilterra si
ritrova improvvisamente a non avere più dove deportare i suoi
condannati...
Usare
l'imprigionamento come condanna è perciò gioco-forza per non rinunciare
a voler punire un più elevato numero di persone rispetto al passato. È
quel che avviene nei fatti, giorno per giorno, e non in base a una teoria
illuminata, creando una realtà di cui alla fine si prenderà atto: la
prigione riesce a punire di più. Tutto questo è chiaro per esempio nel
libretto di Cesare Beccaria Dei
delitti e delle pene:
«...
i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli esseri umani».
Il
problema è quello di riuscire sempre e ancora a colpire spaventando e di
trovare perciò i nuovi modi che consentano di realizzare tale scopo su un
gran numero di persone diventate sovrappopolazione; con buona pace per i
buoni sentimenti che la retorica giuridica ha attribuito a Beccaria. E,
infatti, all'inizio dell'Ottocento vi saranno carceri riempite così
all'inverosimile da riuscire a creare più devastazione umana delle
vecchie pene corporali. Ci sono duecentomila detenuti in Inghilterra. Il
sovraffollamento, le pessime condizioni igieniche e alimentari che ne
derivano scatenano epidemie mortali le quali, in alcuni casi, fuoriescono
dalle carceri fino a raggiungere, una volta, in occasione di un processo,
gli stessi giudici. Indubbiamente, in questa fase, rispetto al vecchio
sistema il carcere rischia di garantire sofferenza maggiore su un più
alto numero di persone e anche più morte. Ci vorrà tempo, fino alla
seconda metà dell'Ottocento, prima che legislatori e giudici si rendano
conto di aver instaurato un meccanismo che rischia di andare incontro agli
stessi difetti del precedente. La graduale diminuzione della popolazione
reclusa è storia dell'ultimo secolo, che si interrompe solo negli
ultimissimi anni come sintomo di quella nuova crisi dell'intero sistema
penale di cui si accennava all'inizio di queste pagine.
15.
Che lezione possiamo trarre da questa dinamica degli ultimi due secoli di
storia penitenziaria? Certamente, che tutti i discorsi riformistici e
umanitari sono una falsa giustificazione data a posteriori. Resta sempre,
però, quella volontà di punire con più efficienza terroristica un'area
sempre più vasta di persone, volontà così ben espressa da Beccaria: «spaventare
gli animi umani».
L'esempio
che meglio chiarisce questo duplice processo (utopia della parola,
distopia dell'atto) è la costante ingloriosa fine dei primi progetti che
volevano trasformare i reclusi in bravi lavoratori. Il lavoro non c'era -
dato che si trattava anzi di controllare una sovrappopolazione - e restava
la disciplina del lavoro girando... a vuoto: le persone imitavano i gesti
del lavoro produttivo, accumulavano pari stanchezza per macinare... aria
alla ruota o per battere inutilmente un martello sull'incudine.
La
pena detentiva risponde a un principio economico
in una politica di deterrenza, cerca di ottenere gli stessi risultati
attribuiti alla pena corporale con sforzi minori e su scala maggiore. Da
un lato la segregazione separa il reo dalla comunità come l'antico bando
e la deportazione, dall'altro la vita reclusa ripercorre a lungo e in
misura diluita la sofferenza breve e intensa del supplizio medievale. Il
meccanismo si è reso meno visibile, essendo affidato all'anonimia della
struttura carceraria, al carattere impersonale dei suoi regolamenti e
funzioni, al lavorìo del tempo.
Ma
ci si sentirà lo stesso dire che, "tuttavia",
"comunque", ci sono ora meno violenza e meno morti... saranno sì
colpiti più delinquenti, ma in modo meno duro. Qui bisogna intendersi.
Essendo la detenzione meno spettacolare della pena corporale, morire in
carcere di malattia o di suicidio non è certo considerato una condanna a
morte dal senso comune dato che anche fuori si muore spesso così. Il più
delle volte un simile evento non finisce neppure in un trafiletto di
cronaca locale a meno che non vi sia una ondata di suicidi come succede a
volte. Ma ogni detenuto sa che è il modo in cui si muore a far sì che la morte sia o meno
una condanna. La morte in carcere è una sentenza nascosta; ci rivela
semplicemente che il carcere ha modificato, rispetto alla pena corporale,
il tipo di deterrenza verso la società, ma fa altrettanto danno alle sue
vittime. Verso i cittadini "normali" la funzione deterrente
della pena è stata sostituita in questi due secoli dall'esorcizzazione
del "diverso". Tre secoli fa il buon cittadino doveva essere
spaventato dallo spettacolo del dolore inflitto al reo; oggi dovrebbe
esser spaventato da quella gogna che è la qualifica di
"delinquente" appioppata dal mass media e che diventa un marchio
infamante dalle conseguenze emarginanti. Il criminale, il terrorista, il
mafioso, il drogato sono un altro mondo, al di là di quello comune perché
dalle motivazioni oscure, "mostruose". La deterrenza
(spaventare) patrocinata ancora da Beccaria, al di là di un certo livello
di visibilità, com'è nel supplizio, si è rivelata controproducente: il
lavoratore che accetta il contratto da salariato, per quanto spaventato
dal trattamento che subirebbe qualora trasgredisse, finisce per
solidarizzare con il suppliziato quando il tormento inflitto va al di là
della sua sensibilità morale. Il media, inventando la figura
dell'individuo portato al crimine «di per sé» invece di esservi portato
da conoscibili condizioni, crea indifferenza se non repulsione verso
questa nuova figura sempre più misteriosa di mostro.
La
pubblica esecuzione terrorizza ma non necessariamente desolidarizza. Il
carcere spaventa di meno, ma desolidarizza di più. La segregazione rende
misterioso il segregato e sconosciuto, ignorato il suo supplizio. Così
che la nuova deterrenza non vuole più suscitare sentimenti umani: il
cittadino non deve aver paura di dover soffrire come un ladro colto in
fallo, deve temere di doversi vergognare d'essere considerato un ladro.
Non si deve spaventare per ciò che vede ma si deve vergognare per ciò
che non vede. Si è così creato uno «spirito forcaiolo» nella
cosiddetta opinione pubblica fondato su singolari equivoci, frutto più di
una disumana e ignorante indifferenza che di un odio vero e proprio verso
ciò che si conosce.
16.
Il primo equivoco consiste nel credere che tanti delitti sono compiuti da
gente uscita dal carcere e che perciò tutto si possa risolvere con pene
più dure e lunghe: «Li liberano appena arrestati!». Si ignora che la
maggior parte dei delitti è opera di sconosciuti e che le pene (almeno in
Italia, rispetto a quelle europee) sono in realtà molto lunghe,
trasformando il recluso in capro espiatorio, figura da demonizzare. Il
luogo comune sul pianeta reso misterioso della criminalità ritiene che
l'"alieno" sia ben conosciuto e che solo il lassismo
dell'istituzione carceraria e dei giudici spieghi la sua libertà d'agire.
L'equivoco è puntualmente rafforzato da alcune campagne della polizia o
giornalistiche contro la liberazione dei detenuti poiché in tal modo si
copre l'insuccesso delle indagini nella ricerca dei colpevoli. In genere
queste campagne trovano politici compiacenti che varano subito progetti
volti a peggiorare la condizione di vita dei detenuti, i quali magari
stanno scontando la pena da oltre un decennio... e si ritrovano
improvvisamente trasferiti in una sezione speciale (è quel che ha fatto
l'ineffabile Martelli). Negli Stati Uniti molti uomini politici fondano la
loro carriera su promesse di pena di morte.
17.
Il secondo equivoco, ovviamente connesso al primo, molto diffuso, è di
credere che «il carcere è un albergo. Quelli hanno persino la
televisione...».
Per
questo, grande è lo stupore dei borghesi che hanno la sfortuna di finire
in cella (ora che nella crisi del sistema penale questo è il fatto nuovo
che succede e succederà sempre di più per molto tempo ancora).
Nonostante ci stiano poco tempo (essendo lo scopo solo quello di metterli
alla gogna come ladri), essi scoprono una crudeltà del sistema
assolutamente insospettata e da questo stupore sono nate spesso reazioni
drammatiche, e a volte una sincera indignazione di fronte alla scoperta.
Un perito di tribunale esperto di armi finisce in prigione. Ha lavorato
per decenni al fianco dei magistrati, eppure proprio lui, quando esce dal
carcere dopo qualche mese, si dice stupito di come non vi sia un maggior
numero di suicidi in cella. Il presidente dell'ENI Gabriele Cagliari si
suicida lasciando una lettera in cui più che parlare del proprio caso
denuncia fortemente l'intero sistema di maltrattamento penale volto a
trasformare l'individuo in un «infame». Il presentatore televisivo Enzo
Tortora dirà che è stata la sua vicenda giudiziaria ad avergli provocato
il tumore che di lì a poco lo ucciderà.
La
reazione drammatica di queste due persone che non avevano previsto il
carcere nel loro orizzonte di vita non è affatto derivata da un provar
vergogna o dal sentirsi falliti, come successe ad alcuni uomini d'affari
nella crisi del '29 e forse ad alcuni altri suicidi provocati da
"Tangentopoli". Essi non si sono sentiti dei colpevoli, Cagliari
perché agiva all'interno di un «sistema», Tortora perché subiva le
false accuse di cosiddetti pentiti. Nelle loro parole denunciavano la
giustizia penale al di là del loro caso personale, in nome della dignità
umana, nell'interesse di tutti. Invece di provar vergogna per essere stati
affiancati ai "ladri", si sono sentiti solidali con essi. È un
fatto nuovo estremamente significativo poiché il carcere degli ultimi due
secoli ha invece organizzato la verità di quel vecchio adagio: «Occhio
che non vede, cuore che non duole». La forza del suo pur assurdo
meccanismo sta, giova ripeterlo, nell'essere deresponsabilizzante,
diversamente dalla vista di una pubblica esecuzione: il cittadino sente
alieno il criminale, il funzionario si sente lontano dal boia.
18.
La morte in carcere o da esso provocata è l'eco di una vasta questione.
Dopo la violenza fisica indiretta esercitata dalla struttura e dai suoi
regolamenti, dopo quella psichica, esiste un terzo tipo di violenza, non
più strutturale: quella psico-fisica diretta. La si potrebbe definire
come abuso, arbitrio, ma questi sono termini che alludono a forti
responsabilità personali al di fuori della legge e perciò alla fine
risultano falsanti, riduttivi e soprattutto colpevolizzanti verso
l'individuo con la stessa concezione nata dal diritto penale. È forse
allora più giusto parlare di «follia del sistema».
Mentre
il detenuto è sottoposto a una rigida e poco sensata disciplina (dato che
gira «a vuoto»), la principale caratteristica della vita carceraria è
di «non funzionare mai», di presentarsi come una sregolatezza costante.
Una
richiesta che si perde (e per tutto bisogna far richiesta, la «domandina»,
l'«istanza» ecc.), una lettera consegnata in ritardo (e qui la lettera
è parola, affetti), un ostacolo burocratico per il colloquio (che è
l'evento più importante), un'attesa snervante per ogni cosa (e si è
sempre in attesa di qualcosa) specie in materia sanitaria, il cibo passato
dall'amministrazione mai decente e quello che ordini a tue spese manca di
questo o quel prodotto elementare e ti insospettiscono i prezzi, ciò che
era permesso in quel carcere o oggi vietato in questo o domani. L'elenco
sarebbe interminabile. Ad ogni passo, tutto ti dice: la regola vale solo
per te, su di te c'è un potere che è tale proprio perché è fuori da
ogni regola.
Questa
inefficienza eretta a unica regola è una delle cause principali, tra
l'altro, del degrado ambientale che si nota praticamente in ogni carcere
sotto il profilo igienico e alimentare, del fiorire di speculazioni che
periodicamente produce qualche scandaletto presto dimenticato.
Soprattutto, è il correttivo che va a integrare gli eventuali limiti di
efficacia degli altri due tipi di violenza strutturale. Questo intervento
rende precaria ogni tua piccola conquista nella vita quotidiana, ogni tuo
aggiustamento. Magari ti sei costruita una mensolina di cartone per
sistemarci le tue carabattole e nessuno ti dice nulla per mesi; ma un
giorno, all'ennesima perquisizione, scopri che era vietata e l'hanno
distrutta. Negli anni le «circolari», gli «ordini di servizio» si sono
accumulati, accavallati, negati a vicenda e rendono possibile qualunque
decisione.
Quando
sei condannato a una lunga pena, se non impari a sviluppare un solenne
distacco da questi meccanismi, un certo qual autismo (auto-ritiro dal
mondo), ti ritroverai perduto in un conflitto senza fine su terreni sempre
più miseri e in una spirale sempre più surreale che ti allontana dal
mondo vero fino ad avvicinarti ai confini della follia. Allora, in quel
ghetto mentale, avrai aggiunto una prigione della mente alla prigione del
corpo; proprio ribellandoti ti sei costruito involontariamente la fine
della tua libertà mentale.
19.
Primo episodio. Un detenuto con disturbi mentali ha distrutto un giorno i
tavoli della sala della «socialità» perché da tempo non ottiene
risposta a una sua richiesta. La direzione chiude in cella per punizione
tutti i detenuti della sezione e ingiunge loro di pagare i danni. La
rappresaglia viene ritenuta ingiusta e in un esposto firmato da tutti, i
detenuti proclamano la loro innocenza. L'ingiunzione a pagare viene
ritirata. Pochi giorni dopo avviene una perquisizione. In ogni cella
vengono rilevati danni alle pareti a causa dei manifesti o delle
fotografie che ognuno vi ha appeso. La somma da pagare coincide con quella
stabilita per ripagare i danni avvenuti nella sala della socialità.
I
detenuti accettano di pagare. Preferiscono pagare il diritto di non
diventare carcerieri dei propri compagni.
Secondo
episodio. Tra la seconda metà degli anni '70 e i primi anni '80, c'era un
direttore la cui regola era che a ogni paio di sì alle richieste dei
detenuti dovesse seguire un no. Questi provavano a regolarsi di
conseguenza. Alla terza richiesta, se per esempio si voleva acquistare
della carne e il bisogno era di un chilo, si faceva richiesta per due
chili; il direttore l'avrebbe dimezzata e si sarebbe avuto la quantità
voluta. Ma anche il direttore era consapevole di questa astuzia e ogni
tanto faceva lo scherzo di dire «sì» alla richiesta per la quale era
atteso un «no».
Episodio
classico-generico. L'esasperazione di qualche giovane detenuto per
l'accumulo di tensione creato da questi mille piccoli o grandi episodi, a
questo punto magari interpretati come persecuzione «personale», suscita
magari a sua volta l'esasperazione delle guardie di fronte a chi «non sa
stare al suo posto» e non vuol capire il «regolamento». Quello
risponde. Gli altri lo sbattono in cella d'isolamento. Quello si ribella
ancora. E allora ecco che magari si piglia le botte.
Non
sono pochi i vecchi detenuti che hanno conosciuto i pestaggi in qualche
occasione di protesta collettiva o personale. Alle spalle della riforma
del 1975 c'è gente che ha subito condanne anche di 10 anni per rivolta.
Ma da quando c'è la nuova legge penitenziaria del 1986 (la Gozzini),
credo che nel complesso i pestaggi siano diminuiti. Ora esiste il «rapporto»
della guardia in base al quale il consiglio di disciplina potrà punirti
intervenendo sul tuo diritto alle telefonate, colloqui, socialità
eccetera. Ma soprattutto, andando l'episodio della punizione a finire nel
tuo fascicolo, il tribunale di sorveglianza ne terrà conto per valutare
se la tua personalità è migliorata o no. Il permesso premio, i giorni di
liberazione anticipata, la concessione della semilibertà eccetera, sono
benefici premiali che possono esserti tolti sulla base di quei rapporti.
Ciò significa che una parola «sbagliata» a una guardia viene a volte
pagata con 45 giorni di libertà in meno, cioè con un mese e mezzo di
galera... Su questo argomento si potrebbe ormai scrivere un romanzo
paradossale. Il premio sancisce per legge il regno della non-legge, il
modo in cui il carcere si rende completamente autonomo dal mondo di coloro
che hanno giudicato, il momento in cui ci si occupa del delinquente a
prescindere dal reato. Il reato era un pretesto per trattare la persona.
Ora
però il sovraffollamento, la presenza di soggetti psicologicamente più
fragili come succede fra alcuni tossicomani, la presenza di stranieri,
l'aumento di malati gravi sono tutti fattori che rischiano di far
aumentare anche il ricorso alla violenza classica a suon di botte accanto
a quella "non-violenta" della Gozzini...
20.
In carcere non ci può essere riforma che non si dica per migliorare la
condizione umana e che in realtà non crei nuove forme di violenza e di
arbitrio che vanno ad aggiungersi alle vecchie le quali rimarranno sempre
nel sottofondo, pronte a riemergere al minimo segno. Non può che essere
così per una presunta miglioria apportata sulla base avvelenata della
privazione della libertà. Ogni rimedio si rivela nuovo veleno. Tutto
diventa immediatamente nuova forma di discriminazione che non cancella la
vecchia ma vi si aggiunge. E alla fine ci si deve accorgere che la
violenza complessiva esercitata sugli individui non è diminuita poi di
tanto rispetto all'epoca pre-carceraria: si è resa meno visibile alla
società rendendo quest'ultima più indifferente alla sofferenza altrui.
È aumentata la banalità del male.
Non
ci sono soluzioni a questo processo: il carcere è irriformabile. La pena
si modifica, certo: ma solo nelle sue maschere.
Esistono
indubbiamente spazi maggiori o minori di vivibilità a seconda dei periodi
storici, ma non dipendono dalle riforme bensì dalla solidarietà dei
movimenti sociali verso il mondo delle prigioni, dalla ricchezza del
movimento stesso dei detenuti. Si crea allora una realtà che aggira la
legge, la supera di fatto. Senza questa resistenza alla «riforma»,
saremmo nel regno del terrore assoluto, non ci sarebbe nessun mai alcun
miglioramento...
21.
Questa «riforma» sarà invece sempre surreale, una parola umoristica.
Alla
base di ogni politica delle pene esiste infatti una politica anche verso
chi la elabora o la applica. La frase «Perdonali, non sanno quel che
fanno» già fu detta non a caso sul patibolo; risulta ancora più fondata
verso chi applica la pena detentiva o il burocrate in genere. E ciò resta
vero anche per la guardia carceraria che pure è a contatto col detenuto e
dunque, all'apparenza, dovrebbe vedere di più quel che fa. Ma essa,
anzitutto, reagisce come il medico o l'infermiere che non deve spaventarsi
o commuoversi di fronte al sangue del paziente. Quand'anche non provasse
per conto proprio, per tale esigenza professionale, a distaccarsi
nell'"impersonale", il modo stesso in cui è organizzata la sua
professione rende la guardia indifferente. Le cose sono messe in modo che
non possano costruirsi facilmente dei rapporti personali fra guardie e
reclusi fino al punto in cui:
«Di
fronte ad un ordine "ritenuto palesemente illegittimo",
l'appartenente al corpo deve fare rilevare la circostanza al superiore ma
è tenuto a dare esecuzione all'ordine se questo è rinnovato per iscritto
ovvero, in situazioni di pericolo e di urgenza, se l'ordine medesimo è
rinnovato anche oralmente, salvo il dovere del superiore di darne conferma
scritta al termine del servizio» (Canepa - Merlo, Manuale
di diritto penitenziario).
E
più si va in su nelle gerarchie del dolorificio più il mondo di cui ci
si occupa diventa lontano. Fino all'uomo politico che fa la legge e al
giurista che lo consiglia. Lì, proprio, non si sa più di cosa ci si sta
occupando poiché gli aspetti più importanti della sofferenza oggi,
quelli psichici, sono quelli di cui si parla di meno dovunque. E l'aspetto
più importante della sofferenza psichica, la negazione dell'amore, è
quello di cui non si parla proprio, come se fosse un tabù, tant'è che -
alla fine - è ciò di cui parla meno persino il recluso (Al massimo si
arriverà a parlare di esigenze fisiologico-sessuali!).
Il
risultato finale è che tutto ciò di cui si discute animatamente riguardo
alle pene è - puntualmente! - inversamente proporzionale alla sua reale
importanza. Si parte sempre dalla coda e ogni volta per strada si
dimentica quale sia lo scopo del gran parlare: Perché far soffrire?
Davvero non esistono altre vie per esercitare controllo sociale? anzi,
davvero se ne esercita qualcuna così facendo? davvero l'essere umano è
condannato a questa animalità privata però di innocenza come è negli
animali? Funziona realmente la deterrenza terroristica teorizzata da
Beccaria?
Tutto
è organizzato per non porsi queste domande e trova il suo perno proprio
in quella che ho chiamato «follia del sistema»: il punto più alto della
legalità è proprio l'uscita dalla legalità.
22.
La legalità è assicurata dal monopolio della violenza da parte dello
Stato e la più alta e solenne espressione di questo potere è la
possibilità dello Stato di privare l'individuo della sua libertà. Ma
ecco che proprio qui si forma un sottopotere statale che si sottrae a ogni
concetto di legalità con la sua sregolatezza. Assistiamo allora al
fenomeno quasi comico di un'evoluzione delle teorie dei giuristi volta
sempre a ripetersi per negare la propria impotenza: si lamentano i limiti
posti alla legalità dello Stato dall'autonomia ancora presente
nell'autorità penitenziaria, si propone una nuova riforma che è una
denuncia del fallimento della precedente...
Ecco
le parole che ritroviamo a commento della riforma del 1986 (la «Gozzini»)
nel già citato Manuale di
Canepa e Merlo:
«L'aspetto
dell'attività del magistrato di sorveglianza rimasta purtroppo in ombra
per la mancanza di adeguati strumenti giuridici ed anche per una certa
inadeguatezza di mentalità del magistrato in genere, è quella, a
carattere amministrativo, di controllo della legalità dell'esecuzione
delle pene all'interno degli istituti. Questa carenza di una più
pregnante presenza all'interno delle strutture penitenziarie ha spesso
comportato l'attenuazione di quella funzione di stimolo anche nei
confronti dell'Amministrazione ministeriale che, probabilmente, il
legislatore del 1975 si attendeva. Nel contempo, l'attuazione degli
strumenti nuovi ed applicabili in via giurisdizionale o comunque con atti
formali (permessi, liberazione anticipata, misure alternative) ha, di
fatto, ottenuto il risultato di azzerare o, in ogni caso, di attenuare
grandemente la spinta alla protesta dei detenuti offrendo, in tal modo,
all'Amministrazione la possibilità di mascherare le gravi e perduranti
carenze delle strutture e dell'organizzazione».
È
una denuncia? Sì, ed è anche forte perché riconosce che con la riforma
si è ottenuto persino un maggior silenzio dei detenuti che favorisce
l'illegalità del sistema. Ma questa stessa denuncia dei due autori è
ambiguamente controbilanciata dalle seguenti affermazioni di Giovanni
Conso nella sua Introduzione allo stesso Manuale
(settembre 1987):
«Il
dramma appena conclusosi a Porto Azzurro [un tentativo fallito d'evasione,
ndr] ha dimostrato che le smagliature non sono nelle norme a disposizione
degli uffici di sorveglianza. La riforma "tiene". A difenderla
sono stati tutti gli altri detenuti: proprio per "non perderla",
nessuna solidarietà, durante gli otto lunghi giorni dell'attesa, è
venuta da parte loro; vi è stata, anzi, la diffusa impressione di una
crescente ostilità verso i rivoltosi. Del resto, alla fin fine, l'anelito
a non veder sfumare per sempre la possibilità di fruire, prima o poi, di
qualche beneficio previsto dalla riforma dev'essere stato uno dei motivi,
se non il vero motivo, che ha riportato gli stessi rivoltosi a far uso
della ragione inizialmente smarrita».
L'ex
ministro della giustizia Conso sembra ignorare che l'ostilità dei
detenuti verso la tentata evasione deriva dal timore di rappresaglie il
cui carattere indiscriminato e di massa è uno dei principali strumenti
dell'autonomia "illegale" del sistema penitenziario. Colpendo
tutti quando succede qualcosa (in questo caso, per esempio, meno premi per
tutti) si vuol ottenere e spesso si ottiene che alcuni facciano la spia
per evitare quei disordini che potranno compromettere i loro benefici.
Fare una rappresaglia sugli innocenti non è esattamente il massimo della
legalità ma piuttosto una consuetudine delle guerre. Eppure in carcere è
la normalità, così come fa parte della consuetudine delle campagne
giornalistiche per la difesa dell'ordine pubblico, presentandosi qui come
doverosa «prevenzione». Nell'estate 1995 alcuni pregiudicati malati di
AIDS, privi di lavoro e assistenza, compiono delle rapine in banca.
Immediatamente si propone di abolire la legge che ha stabilito
l'incompatibilità della privazione della libertà con lo stato di malato
di AIDS: dimenticando di precisare che solo 20 su oltre 2000 malati
pregiudicati sono ricorsi ad atti illegali per nutrirsi.
I
commenti critici contro l'autonomia del carcere sono tanto costanti quanto
ambigui, sospesi come sono nel limbo della teoria giuridica, dove li si può
ritrovare magari accompagnati da elogi sulle stesse conseguenze che
quell'autonomia crea. Del resto, il giudice torinese Fassone in un suo
libro pubblicato nel 1980 per esempio, faceva gli stessi commenti dei
giudici Canepa e Merlo a proposito della riforma del 1975, nata dopo 28
anni di discussione. Mezzo secolo prima, il ministro di giustizia del
regime fascista Rocco istituiva i poteri del giudice di sorveglianza
proprio per limitare quelli dell'autorità penitenziaria sulla sorte dei
condannati con sentenza definitiva affinché non venissero smarriti nel
labirinto carcerario dopo un trasferimento... Ma ancora più in là nel
tempo è lo stesso penitenziario moderno che in Inghilterra, alla fine del
Settecento, giustifica il suo atto di nascita sull'eco suscitata dalla
denuncia del primo riformatore, John Howard, sugli abusi della legalità
riscontrati nelle prigioni (The State of the Prisons in England and Wales, 1777)...
23.
Il fatto è che in questa autonomia illegale sta il vero scopo del sistema
penale, tanto da costituire il vertice inevitabile e minaccioso della
legalità fondata sulla pena. Il potere «totale» di un sistema sulla
vita di un individuo serve a spezzare la sua volontà, a trasformarlo in
un docile strumento. Ogni potere teso a trasformare l'individuo mira perciò
a essere totale.