2.
Della
mente
24.
In genere è difficile cogliere la dinamica psicologica che porta alla
fine della personalità autonoma del recluso. È stato più facile capire
ciò nei campi di concentramento nazisti dove tutto era reso più chiaro e
visibile dall'immediata minaccia di eliminazione fisica: è quanto ha
studiato direttamente da internato Bruno Bettelheim e descritto poi in
"Il cuore vigile", traendo questa importante lezione su quella
che chiamò «l'ultima libertà»:
«Tuttavia,
per sopravvivere come uomini e non come cadaveri viventi, come esseri
umani ancora degni di questo nome, anche se degradati e umiliati, si
doveva prima e sopra di ogni cosa essere costantemente consapevoli
dell'esistenza di un limite invalicabile, per ognuno diverso, oltre il
quale si doveva resistere all'oppressore, anche se ciò significava
rischiare la propria vita o addirittura perderla. Si doveva cioè essere
sempre consapevoli che sopravvivere al prezzo di oltrepassare questo
limite avrebbe significato restare attaccati a una vita totalmente
svuotata di senso, sopravvivere non con una dignità sminuita, ma del
tutto senza dignità. Questo limite differiva da persona a persona, e la
sua posizione variava per ognuno col passare del tempo».
In
carcere il rischio dell'eliminazione fisica immediata di Dachau o
Buchenwald è sostituito dalla lunghezza della pena oppure dall'incentivo:
il premio che corrompe chi ne gode e diventa motivo di punizione sottile
per chi non lo insegue. (In fondo, il campo di concentramento nazista sta
al carcere come questi alla società: l'individuo vi viene costretto a
vivere a tappe accelerate e perciò violente il cammino seguito dalla
società negli ultimi tre secoli).
25.
Il prigioniero si ribella contro ciò che sente assurdo, proprio contro
quelle imposizioni che gli sembrano «folli» e perciò tanto più
umilianti da accettare. Ben presto però si accorge di essere puntualmente
perdente in questo scontro. Potrà allora accettare la sconfitta
permanente e il costo che ne deriva come prezzo della dignità secondo il
noto ragionamento implicito in ogni battaglia di principio: l'importante
non è vincere ma resistere. Anche in questo caso un compromesso tra la
propria coscienza e il comportamento esteriore è inevitabile in certe
situazioni, giacché quel che ognuno ritiene giusto fare per reagire
dipende comunque più dal contesto collettivo in cui si trova che dalla
propria volontà; ma ognuno allora, a seconda della sua storia, della sua
cultura e del suo carattere decide dentro di sé qual è la soglia del
cedimento oltre la quale la sua dignità è messa in pericolo. Si deve
accettare un certo grado di scissione tra il fare e il pensare, tra realtà
esteriore e interiore per difendere quest'ultima; essendo grandi le
differenze di mentalità tra gli individui, questo accentua la difficoltà
di trovare un equilibrio personale nei compromessi. Il caso più singolare
che ricordi è quello di un musulmano molto religioso. Oltre che straniero
e di religione diversa dai più, non era né un "comune" né un
"politico" ma un marittimo capitato per caso e da innocente
nelle emergenze giudiziarie dei primi anni '80, ritrovandosi
improvvisamente sospettato di terrorismo internazionale. Il suo concetto
di dignità coincideva grosso modo con quello di virilità e perciò
trovava particolarmente umiliante spogliarsi e fare le flessioni per il
controllo anale da nudo durante certe perquisizioni. Essendo innocente
aspettava pure con ansia che un giudice venisse ad ascoltarlo. Ma
quest'ultimo non arrivava mai e perciò il detenuto smise di cibarsi per
sollecitarne la venuta; ma ecco che quando finalmente il giudice arriva
egli scopre che è una donna. «Neanche un uomo mi hanno portato!» disse,
e tornò subito indietro sconvolto dall'idea che una donna potesse esser
giudice, rifiutando l'incontro tanto atteso.
26.
Ma, a parte il relativo isolamento del senso della dignità per ciascun
individuo (fatto in sé naturale e positivo dato che è rivelatore
dell'unicità degli individui e, pertanto, del carattere insopprimibile
del bisogno di libertà per gli esseri umani), abbiamo tutti a che fare
con una difficoltà ancora più grande, questa volta sociale, di natura
culturale e indubbiamente negativa: non siamo stati educati a vivere a
lungo le contraddizioni. Una tale capacità, ovvero la resistenza
interiore, richiede una forte modestia, un'accettazione cosciente dei
propri limiti che cozza puntualmente con l'individualismo di cui i più
vengono imbevuti fin da bambini. Può succedere allora che per esorcizzare
la paura il cosciente compromesso sul comportamento si trasferisca pian
piano in un compromesso della coscienza, spostando la soglia
dell'invalicabile. È l'inizio della caduta sul cammino della
disumanizzazione.
Descriverò
ora questa eventuale caduta in modo inevitabilmente astratto. Descriverò
cioè i meccanismi che da un punto di vista ideale portano spesso un
individuo a disumanizzarsi ma che, per fortuna, incontrano nella realtà
delle resistenze, un andamento tutt'altro che lineare: si cade nel primo
pezzo di percorso, ci si risolleva nel secondo...
27.
La falsa coscienza è essenzialmente un far di necessità virtù, una
graduale rimozione della coscienza del conflitto, e della positività
della sua esistenza all'interno della coscienza. La perdita
dell'equilibrio interiore è una sorta di peccato d'orgoglio; si diventa
incapaci di riconoscere i propri limiti e capaci invece di mentire a se
stessi. L'individuo costruisce allora una falsa unità - falsa perché
impossibile - tra coscienza e comportamento. Egli si rappresenta così un
mondo sempre più fantastico, in una spirale solipsista che credo simile a
quella del paranoico, dove gli altri diventano sempre più irreali o
surreali, sempre più "strumenti" o "ostacoli". Il
confine tra fantasticheria e realtà si fa sottile e confuso, come quello
fra bugia e autoinganno. Per esempio avviene spesso che tra una cella e
l'altra il desiderio di qualcuno diventi una «voce» la quale per altri
diventerà notizia sicura da diffondere fino a diventare illusione
collettiva. In tutte le carceri di tutti i tempi e paesi si è sempre in
attesa di un qualche progetto di clemenza o di un evento che farà
comunque cambiar le cose in meglio. Il bisogno di speranze diventa un
atteggiamento "infantile", una attesa che affida ad altri il
proprio avvenire rendendo sempre più labili i confini tra la fantasia e
la realtà.
Ci
vorrebbero molti volumi (o, meglio, romanzi) per descrivere le mille
diverse forme che può assumere il processo dell'alienazione (o
allucinazione) egocentrica. Vedremo un tipo eccessivamente megalomane che
racconta fandonie sul suo sempre più glorioso passato, l'altro che
all'opposto è eccessivamente vittimista; ma nei due casi abbiamo a che
fare con una regressione infantile, infantile perché
deresponsabilizzante, deresponsabilizzante perché autogiustificante: essa
porta infatti il soggetto a trovare in sé una coerenza che può
prescindere sempre più dal comportamento rendendosene conto sempre meno.
Il primo, infatti, si autorappresenta come uno cui si deve molto perché
è bravo, il secondo è uno che non deve niente a nessuno perché ha
ricevuto solo del male. E via via che il recluso si allontana dal senso
della realtà, ci accorgeremo che a ciò corrisponde l'accettazione della
realtà imposta dal carcere. Mentre la mente costruisce un nuovo universo
egocentrico, il comportamento diventa penosamente "realistico".
Il recluso si va «accasando»; la sua visione è un'accettazione delle
regole imposte del luogo e perciò egli deve entrare in uno stato di
"malafede" - come lo definì Sartre nell'Essere
e il nulla: capacità di mentire a se stessi -, per convincersi che
non è cambiato. Questa scissione ormai mentale e non comportamentale è
un'accettazione dei "valori" indotti dal carcere in chi è da
questa parte della barricata: è, per così dire, il punto di vista della
guardia e della società benpensante inseritasi nella posizione del
detenuto. È una sorta di aberrazione ottica che consente al soggetto di
non riconoscersi completamente in quel che è diventato, ma anzi di
considerarsi in parte un furbo che sa muoversi in territorio ostile. In
nome di questa nuova intelligenza il detenuto può diventare alla fine un
sostenitore della pax carceraria
e delle sue quotidiane ingiustizie magari più dell'agente di custodia. I kapò
sono figure ben note nella storia dei campi di concentramento nazisti, ma
la ricerca del premio che consente di abbreviare la pena scatena oggi
ancor di più dell'annientamento fisico la formazione di «zone grigie»,
come le chiamò Primo Levi, non solo per la sua natura più vantaggiosa ma
anche perché il sistema è più soffice: non richiede un intervento
violento verso il prossimo bensì un agire per se stessi fatto soprattutto
di cecità verso il prossimo, di indifferenza sempre più meccanica, con
margini di autogiustificazione molto ampi.
28.
La zona grigia, voglio sostenere, si forma anzitutto nella mente, risulta
opaca alla stessa coscienza. Sul piano pratico essa dà luogo a un
atteggiamento contraddittorio, spesso opposto a quello che sarà il
risultato finale, rivolgendosi magari aggressivamente contro
l'istituzione, in uno spirito convulso di protesta confusa. Di sicuro
tuttavia si affaccia uno strano conformismo. In taluni punti, l'emarginato
comincia a somigliare nei suoi ragionamenti al benestante, il ribelle al
benpensante. C'è un irrigidimento che si traduce in moralismo
intollerante verso altri detenuti, l'assunzione di un codice interno che
si «contrappone» a quello ufficiale ma che, pure, gli va somigliando.
Ecco che costui ce l'ha con i "drogati" in modo particolare (e
magari è un trafficante di droga), quest'altro scopre che ce l'ha su con
"negri" e "marocchini" (e magari è emigrato anch'egli
dal Sud al Nord Italia). Il conformista ha bisogno di distinguersi da
qualcuno che possa mettere al di sotto di lui per sentirsi più simile a
chi è sopra di lui. È noto che spesso, in chi proviene dalla malavita,
c'è un certo disprezzo per gli autori di certi delitti non di malavita:
non solo verso stupratori di donne e bambini, ma anche in parte per
uccisori dei propri familiari (per fortuna, su questo "nuovo
reato" in espansione, con molte contraddizioni fra carcerati che
segnano il fallimento di questa nuova aggiunta all'elenco dei reietti). La
repulsione per questi delitti è ovviamente ben comprensibile, ma dietro a
essa c'è anche un rifiuto di capire le origini di conflitti che non siano
i propri, del proprio ambiente, riducendoli a delitti senza ragioni,
ovvero a puri «reati» da punire, esattamente come fanno i magistrati;
come se in tal caso, dunque, la punizione servisse a qualcosa. È una
bella trappola: il riconoscimento di un principio di utilità del castigo
in alcuni casi, proprio quelli in cui - dalla guerra dei sessi dovuta al
maschilismo ai conflitti familiari dovuti all'accrescersi
dell'incomprensione fra generazioni - è invece evidentissimo il carattere
sociale del dramma, la necessità di affrontare una questione culturale
complessa che nessuna legge potrà mai risolvere. Così la prigione
diventa una soluzione giusta in sé, una realtà del tutto naturale:
ovviamente solo per certe questioni e per altri, non per se stessi
rispetto a cui si scoprirà invece che l'autorità giudicante si è
dimostrata troppo severa.
29.
C'è sempre come una nota stonata in questi codici dei carcerati. Quando
stabiliscono esclusioni di persone che non siano semplicemente e solo le
spie, vi è un realismo maggiore di quello del re.
Ora,
tutto ciò che appare esagerato, o pacchiano, al limite della comicità è
tale, ci spiegava Bergson nella sua analisi sulle fonti del riso, perché
non ha il crisma dell'autenticità ma quello dell'imitazione: il movimento
meccanico del non-vivente che ripete quello del vivente. Chi si muove come
una macchietta, cioè come una macchinetta, non viene preso sul serio e
perciò può suscitare il riso. È proprio questa meccanicità alla base
dei codici di comportamento che a volte si formano negli ambienti reclusi,
dando però luogo a gerarchie e subculture le cui dinamiche possono essere
infernali.
Molta
produzione letteraria, cinematografica o televisiva si spreca per
descrivere queste «esagerazioni comportamentali», esaltandole o
deprecandole o facendone oggetto di satira su cui ridere. Tutti hanno
letto o visto modi di fare «da boss», attribuendoli alla presunta
naturalezza d'un certo ambiente illegale quasi che sia, sulla scia delle
teorie di Lombroso, un dato biologico, un immutabile innato carattere
antropologico di certe persone che non può non dar luogo alla formazione
di quell'ambiente. Questa immensa produzione intellettuale suscita ormai
in me una sensazione penosa. Presentando questa particolare subcultura
come un modo di essere «contro» quella ufficiale, ci si sbaglia, non ci
si accorge di descrivere in realtà quello che è il primo passo di un
cedimento umano vissuto e costruito nella realtà oppressiva e
ricattatoria del carcere: non ci si accorge di assistere a un processo
d'imitazione della cultura ufficiale e che da lì condiziona alla fine un
intero strato sociale (rinnovandolo di padre in figlio) costituito da
tutti coloro che devono delinquere per sopravvivere.
30.
Ecco dunque tutto un pensiero che dal giudice al letterato presenta un
risultato - la criminalizzazione dell'individuo - come un dato di
partenza: la criminalità. E che perciò ignora del tutto, così
assolvendolo, il ruolo svolto dal carcere. La maggior parte della vita dei
carcerati viene ignorata: è proprio una lunga e per tanti versi disperata
resistenza contro il cammino qui descritto.
È
infatti la struttura stessa che in ogni suo angolo ti indica che qui la
solidarietà, i sentimenti veri sono un lusso che ti verrà fatto pagar
caro (al contrario della capacità di presentarsi con «buoni»
sentimenti). Lo spazio angusto, sovraffollato della cella o della sezione
amplifica l'effetto negativo della convivenza tra persone diverse per
abitudini o difficoltà da affrontare. La differenza tra una sezione in
cui puoi dormire di notte e un'altra in cui c'è qualcuno che urla è
enorme. La differenza tra l'isolamento completo e la vita di sezione è
maggiore di quella fra prigione e libertà. Così la prima battaglia è su
se stessi, è fatta di pazienza e tolleranza reali verso gli altri (gli «scoppiati»),
di capacità di non trasferire sul prossimo le proprie tensioni. Ma questo
richiede anche una resistenza
costante all'istituzione. Negli anni '70 molte proteste riguardarono i
livelli minimi di autodeterminazione della vita quotidiana, come la
possibilità di decidere in quale cella o sezione andare (mettere insieme
in cella due persone che si odiano significa condannarle all'inferno).
Questo «potere» del carcerato non viene facilmente concesso e dal
fallimento di questi sforzi nascono ovviamente quelle gerarchie e quelle
logiche che sono un «accasarsi» nelle condizioni di dominio imposte
dall'istituzione. Non a caso tutte le proteste degli anni '70 furono
anche, sul fronte interno, una messa in discussione della cultura
imitativa dei codici ufficiali tra i prigionieri fondata sugli «atteggiamenti
da boss», in cui veniva ravvisata una sorta di subgerarchia
dell'istituzione.
A
sconfiggere del tutto sia queste gerarchie che il movimento a esse
alternativo degli anni '60-70 sarà tuttavia la riforma dell'86 con i suoi
premi. Qui ognuno è sempre più isolato nel suo «programma di
trattamento» invece che intruppato in qualche tollerata sottocategoria di
detenuti, è impegnato in una contrattazione di sé che crea una nuova
gerarchia completamente in mano all'amministrazione fondata sui gradi di
benefici-premio che si possono ottenere. Chi ha più strumenti culturali,
più possibilità di trovare lavoro all'esterno eccetera, sarà favorito.
Lo straniero, per esempio, che ha una scarsa padronanza della lingua e
nessuna relazione sociale in grado di procurargli un lavoro all'esterno o
anche solo un recapito in cui godere di una licenza, è praticamente fuori
dalla riforma.
Il
cambiamento avvenuto è presentato ufficialmente come un grande progresso:
il detenuto sarebbe più libero di prima dalle eventuali prepotenze dei
suoi compagni cattivi. In realtà è soltanto ancora più solo di prima.
Il vecchio ambiente carcerario assicurava un grado maggiore di solidarietà
e di socializzazione persino all'interno delle sue gerarchie interne: alle
quali, comunque, nella pratica, moltissimi si sottraevano; mentre ora è
difficilissimo sottrarsi alla gerarchia istituzionalizzata del premio.
31.
Relazioni sociali imposte che diventano problematiche; relazioni libere
che vengono represse; ogni relazione comunque precaria: oggi sei qui,
domani ti ritrovi trasferito là e, anche se non succederà, ti preparerai
a una simile evenienza dentro di te (negli anni '70 vi furono molti
barricamenti in cella e persino dei sequestri di guardie contro i
trasferimenti punitivi o comunque l'esser trattati come un pacco postale).
«Accasarsi» in carcere non può significare altro che diventare un
asociale autentico, dietro l'apparenza di una socievolezza fatta di
indifferenza, chiudendosi progressivamente in se stessi. Ma, appunto, non
in una solitudine reale perché il carcere è, per sua natura, compagnia
coatta. L'accasarsi è l'elaborazione interiore della solitudine, un
processo di esaltazione dell'Io dove gli altri, da persone, diventano cose
e perciò o strumenti o ostacoli; o meglio ancora, com'è nell'odierna
realtà del mondo premiale, fantasmi che si finge di vedere e in realtà
ignorati.
La
nuova personalità dell'accasato non nasce da un'attiva volontà di
dominio com'è nel sadico, ma dal colmo della rassegnazione prodotta da
mille invisibili ferite; è più devastante del sadismo perché al posto
di un principio attivo c'è l'autospegnimento dell'individuo, una passività
creata da un vuoto di stimoli che ha raggiunto il colmo spezzando l'amore
per la vita.
Il
sadismo, spiega Fromm, è una volontà di potere sul vivente mentre la
distruttività è ormai una forma di necrofilia, amore per la morte:
passività, meccanicità, indifferenza, vuoto. La volontà di possesso
sulla vita del sadismo è sostituita dalla volontà di possesso su cose
inanimate.
32.
Ecco dunque il male che può insorgere in chi, anno dopo anno, viene
addestrato con violenza a dover reprimere egli stesso i propri sentimenti.
È un male che ormai colpisce sempre di più la società moderna, ma che
nell'istituzione carceraria ha trovato da sempre il suo fulcro. Chiamo
questo male «pensiero strumentale». In stato di reclusione nessuno può
esserne del tutto immune, tutto può essere inteso come una sua
manifestazione o come una strenua resistenza a esso e chi, per sua
sfortuna, arriva all'ultimo stadio del male, sarà il perfetto criminale
o, come vedremo, il perfetto «pentito».
33.
Possiamo ora spiegarci meglio l'aspetto meccanico, esagerato di certi
atteggiamenti e gesti: è quel che succede quando i "valori" che
guidano il nostro agire sono, per così dire, di importazione. Il
criminale perfetto, accasatosi in carcere o completamente privo di
scrupoli una volta uscitone, ha creato un vuoto dentro di sé perché ha
dovuto - per sopravvivere nella specificità del suo caso - adottare dei
valori-guida fuori dal contesto in cui sono nati in tutta la loro pienezza
di senso. Il criminale perfetto è una caricatura del padrone, dell'uomo
d'ordine, come un'automobilina giocattolo che ripeta convulsamente i
movimenti di una macchina da corsa. È , ripeto, figura non così
frequente nella popolazione carceraria, ma è esclusivamente alla sua
formazione che tende il carcere, scuola per chi vi capita, marchio per chi
ne esce. Amico del potere perché schiavo dell'avere, mosso unicamente
dalla logica degli «affari» ma costrettovi ad agire senza mediazioni, da
estremista, egli diventa così una figura senz'altro utile: fa poco danno
tanto che può avere complicità nel mondo ufficiale e spesso anzi è
usato per i lavori «sporchi» di poteri forti; e - soprattutto - basta la
sua esistenza a giustificare il controllo poliziesco della popolazione.
Ricordiamo le parole conclusive di Foucault sull'argomento in Sorvegliare
e punire:
«La
delinquenza, con gli agenti occulti che procura, ma anche con la stretta
sorveglianza che autorizza, costituisce un mezzo di perpetuo accertamento
sulla popolazione: un apparato che permette di controllare, attraverso gli
stessi delinquenti, tutto il campo sociale. La delinquenza funziona come
un osservatorio politico. Gli statistici ed i sociologi ne hanno fatto uso
a loro volta, assai più tardi dei poliziotti.
Ma
questa sorveglianza non ha potuto funzionare che accoppiata con la
prigione. Perché questa facilita un controllo degli individui dopo la
liberazione, perché permette il reclutamento degli indicatori e
moltiplica le denunce scambievoli, perché mettendo i condannati gli uni
in contatto con gli altri, precipita l'organizzazione di un ambiente
chiuso su se stesso, ma che è facile controllare: e tutti gli effetti di
disinserimento ch'essa genera (disoccupazione, interdizioni di soggiorno,
residenze obbligate, obbligo di essere a disposizione) aprono facilmente
la possibilità di imporre agli ex detenuti i compiti loro assegnati.
Prigione e polizia formano un dispositivo gemellato; in coppia assicurano
in tutto il campo degli illegalismi la differenziazione, l'isolamento e
l'utilizzazione di una delinquenza. Negli illegalismi, il sistema
polizia-prigione ritaglia una delinquenza maneggevole. Questa, con la sua
specificità, è un effetto del sistema; ma ne diviene anche un
ingranaggio e uno strumento. In modo che bisognerebbe parlare di un
insieme di cui i tre termini (polizia-prigione-delinquenza) si appoggiano
gli uni sugli altri e formano un circuito che non si è mai interrotto. La
sorveglianza di polizia fornisce alla prigione soggetti che hanno commesso
una infrazione, questa li trasforma in delinquenti, bersagli e ausiliari
dei controlli di polizia che rinviano regolarmente alcuni di loro in
prigione».
34.
L'analisi di Foucault giunge a queste conclusioni sviluppandosi su di un
piano rigorosamente «strutturale». Qui stiamo cercando invece di vedere
cosa succede «dall'interno» e, in sostanza, abbiamo visto che si
costruisce il "delinquente maneggevole" distruggendo la
realtà interiore dell'individuo la quale risulta essere, in una
società come la nostra e particolarmente nelle sue istituzioni totali,
sia l'unica vera arma che l'individuo abbia a disposizione, sia la zona
libera che egli dovrà difendere ad ogni costo per continuare a essere una
persona.
La
stessa terminologia giudiziaria riflette in qualche modo la natura di tale
conflitto nell'etimologia delle parole "delinquente" e
"criminale". Il delinquente è ancora colui che "si sottrae
a" [il dovere], mentre il criminale è colui che è già stato
"vagliato", "cernito". Nel passaggio da un termine
all'altro scompare il riferimento a una soggettività autonoma e
ritroviamo il delinquente maneggevole, anzi maneggiato, di cui parlava
Foucault. La reclusione non combatte la delinquenza ma le dà forma e la
usa. Quanto più il delinquente risulterà maneggevole tanto più aumenterà
la sua criminalità. Tuttavia, si proclamerà sempre di star facendo
l'opposto!
35.
Dato che questo sia il reale conflitto, risulterà particolarmente
difficile farne la storia poiché si svolge su un terreno reso invisibile
dalla storiografia. Il guaio di tutta la storiografia, anche di quella che
vuol essere dalla parte degli oppressi e degli sconfitti è - come hanno
ormai sottolineato in tanti, dal femminismo a Illich - di applicare schemi
interpretativi nati da una concezione aggressiva che può risultare
funzionale nel narrare le vicende dei potenti, ma è del tutto falsante a
proposito dei deboli. Chi voglia ricostruire una storia di donne o di
anziani, per esempio, dove potrà mai trovare le tracce della storia vera,
una storia costituita non certo da cruenti scontri ma soprattutto da mille
episodi pacifici che non hanno avuto l'onore di finire nei documenti
scritti della concezione aggressiva? Li potrà trovare solo nell'eco che
avranno potuto trovare nella voce dei potenti, quando queste donne, questi
vecchi siano finiti nelle loro mani subendo uno scontro, stanati dal loro
modo di vivere. Insomma, spesso la storia degli ultimi è costituita da
eventi, pacifici e non guerreschi, indegni d'essere narrati agli occhi
della Storia, e di cui si può cogliere la traccia solo parzialmente nei
documenti della loro eventuale repressione. Questo contrasto tra la realtà
e la sua rappresentazione raggiunge il colmo nella vicenda dei carcerati,
in questo senso davvero gli ultimi fra gli ultimi.
«Il
conflitto rende paragonabili gli antagonisti fra loro» afferma Illich, ma
qui è il terreno stesso sul quale ti trovi che ti ha già reso
paragonabile ...a priori, e in modo inevitabilmente sfavorevole, prima
ancora di ogni conflitto. Da un lato l'individuo è posto al centro di una
struttura militare, dall'altro per ogni sua esigenza è
"invitato" a esprimerla proprio in termini militari, da
disarmato... Il conflitto può dunque nascere solo come espressione di una
profonda disperazione, come nel caso degli animali ai quali si impedisca
ogni via di fuga.
36.
Malgrado questa falsificazione dello stesso terreno su cui si trovano, si
potrà tuttavia scoprire con stupore che, quando hanno lottato, dal secolo
scorso fino a un recente passato, i carcerati hanno avanzato solitamente
richieste particolarmente elementari agli occhi di una storia con la S
maiuscola. I loro sono obbiettivi da casalinghe, potremmo dire: mangiare
meglio, avere più spazio per muoversi, eccetera. Il paradossale contrasto
tra la piccolezza degli obbiettivi e la disperazione dei momenti di lotta
si è interrotto - come vedremo meglio in seguito - solo nel carcere
premiale, dove si è spesso assistito a delle proteste puramente
simboliche accompagnate da parole ambiziose di riforma: ma nel frattempo,
alla generosità d'un tempo è subentrata purtroppo non poca meschinità.
Infatti, quegli obbiettivi così elementari nella forma sono stati sempre
altissimi nella sostanza per tutto ciò che stava dietro a essi.
La
cella, la sezione, il cortile sono organizzati come un garage per una
macchina non più destinata alla circolazione, mentre il detenuto, per una
ragione naturale, cercherà di trasformarli in spazio abitativo: luogo in
cui si svolge gran parte dell'esistenza dell'essere umano, fatto di
abitudini, di relazioni, di simboli. Questa impresa, irrinunciabile perché
impressa nella natura umana, diventa un lavoro di Sisifo che si svolge in
una resistenza per lo più pacifica, sotterranea. Rischia sempre però di
essere distrutta da chi ti vuol ridurre in animale da allevamento o
macchina che deve stare sempre in garage. È allora, e solo allora, che può
nascere una reazione difensiva violenta che corrisponde ai canoni della
storiografia ufficiale, giacché a volte è meglio accettare di essere
vinti piuttosto che non far nulla; e proprio questo è il dramma costante
di tutti gli eventi carcerari che giungono alla ribalta della cronaca,
alla retorica dello spettacolo, alla registrazione della storia. Ma
noteremo lo stesso che di decennio in decennio: l'individuo ha smesso di
essere un numero e viene chiamato per nome; può portare abiti di sua
scelta (malgrado le limitazioni) al posto della tenuta a strisce rimasta
nelle vignette umoristiche; può fumare una sigaretta, bere un bicchiere
di vino, leggersi un giornale non censurato; finché non finisce in certe
sezioni punitive possiede un fornelletto da campeggio con il quale
salvaguarda la sua salute preparando bevande e cibi caldi preparati con
decenza per sé e per qualche amico; il numero delle celle singole
(cubicoli) è nel complesso aumentato rispetto ad alcuni decenni fa,
consentendo un minimo d'intimità...
A
questo punto il paragone tra questi obbiettivi e quelli delle casalinghe
appare tutt'altro che campato per aria. Come il mondo femminile il mondo
incarcerato, anch'esso respinto "ai bordi" dal modo di
produzione industriale, si è sempre trovato a difendere un'attività
minima di sussistenza da una società che si è sempre di più data da fare
per distruggerla assumendola nei suoi «servizi» e, in carcere, in modo
più violento che altrove. Se, infatti, nella lunga storia della società,
tali attività sono state sessuate al femminile e considerate improduttive
per meglio sfruttarle, in carcere esse vengono semplicemente represse,
facendo avvenire in un sol giorno quello che è avvenuto in secoli fuori
dalle mura. La moglie che prepara da mangiare al marito operaio
contribuisce a rendere meno elevato il prezzo della forza di lavoro di
quest'ultimo; mentre il detenuto serve solo se stesso e, anzi, più vuole
gestire in proprio le condizioni di sussistenza più spazio toglie ad
eventuali esperti sulla sua vita.
37.
Tutto ciò che contraddistingue l'economia della sussistenza aveva un
forte riconoscimento nel mondo pre-industriale e ne ha poco oggi perché
è costituito da tutte le attività umane che non hanno prezzo sul
mercato: perché non dovevano averne ieri, perché sono dis-prezzate oggi,
sottratte all'autonomia delle persone. È il caso di dire che ci sono cose
che hanno tanto più valore quanto meno hanno prezzo: segnano il confine
tra la vita concreta degli esseri umani in carne e ossa da una parte (le
«persone») e le astrazioni e la merce dall'altra. La tesi non è
semplicemente romantica; è fondamentale assumerla per capire che queste
attività, questi spazi sociali, le abitudini e la cultura che ne
conseguono sono la realtà esterna di quella realtà interiore di cui si
è detto finora in queste pagine. In questi obbiettivi «casalinghi» si
cela tutto ciò che ha a che fare con il senso della dignità personale,
con i legami di vera solidarietà in una comunità, con il rispetto,
l'amore.
38.
Si arriva così vicino alla questione fondamentale per comprendere
l'obbiettiva fragilità di ogni movimento prigioniero, al perché del
rischio di crollo della personalità nel singolo murato da vivo. Nessuna
misura repressiva potrebbe infatti avere successo in una simile impresa se
non avvenisse su una base di cui si parla sì, ma sempre come se non fosse
la base dell'intero edificio bensì un aspetto tra gli altri... Tabù dei
tabù, non se ne parla come si dovrebbe neanche in pur apprezzabili studi
di denuncia come quelli di Foucault o di Ignatieff; peggio ancora, lo si
ignora quasi del tutto persino nelle proteste dei detenuti, lo si trascura
tra gli abolizionisti. Se in questo capitolo quest'argomento viene dunque
affrontato per ultimo è per meglio dimostrare la sua decisività nel
distruggere la realtà interiore, sperando che un giorno sia il primo ad
essere affrontato quando ci si occupi di critica delle prigioni;
nell'attesa, la critica della prigione e del pensiero punitivo sarà
sempre, a mio parere, viziata alla radice.
Ecco
l'ovvietà (centrale) diventata (periferico) mistero: non si dice mai che
la persona reclusa è, anzitutto, un castrato sessuale o, se si
preferisce, un sub-castrato dato che nessuno lo evira fisicamente. Uso non
a caso il maschile: la detenzione come pena è stata pensata da uomini per
altri uomini; la donna che vi viene sottoposta è considerata un accidente
secondario ancora oggi (e così ogni donna finisce, tra l'altro, per
essere oggetto di doppia violenza poiché non è repressa nel suo genere
come l'uomo ma in un certo senso addirittura ignorata).
Il
penitenziario è perciò anzitutto
un mondo omosessuato al maschile. Con esso l'antico e poco usato istituto
della prigione si rinnova e si rinvigorisce portando alle estreme
conseguenze una particolare concezione cristiana occidentale, ortodossa e
confessionale, dove punizione e misoginia si erano da tempo strettamente
connesse in un indissolubile binomio che trovò la sua compiuta
espressione nella vita degli eremiti, nella fondazione dei monasteri. Già
nel sesto secolo ricchi vecchi mercanti si ritirarono in convento. Nel
Seicento, vigilia della nascita del penitenziario, tale scelta è uscita
dalla mistica vera e propria, cioè dalla vita separata di chi ricerca
l'estasi della comunione con un Dio separato dagli uomini, si è
laicizzata diffondendosi come modello mondano di comportamento ideale che
può auto-imporsi anche un uomo dalla vita comune: il borghese.
39.
Troveremo una chiara descrizione di questo modo di ragionare nei Pensieri
di Pascal (1670) che lo porta all'estremo. Il punto di partenza è ancora
la misoginia, intesa come paura d'amare:
«Chi
volesse conoscere a fondo la vanità dell'uomo non ha che da considerare
le cause e gli effetti dell'amore. La causa è un non so che (Corneille) e
gli effetti sono spaventevoli» (Frammento
162).
La
sorella di Pascal spiega quale atteggiamento verso il prossimo in genere
derivi poi da simili affermazioni:
«Non
soltanto non aveva attaccamento per gli altri, ma non voleva neppure che
altri lo avessero per lui. Non parlo degli attaccamenti peccaminosi e
pericolosi, perché sarebbe lapalissiano e tutti lo vedono benissimo, ma
parlo delle amicizie più innocenti, il cui godimento costituisce
l'ordinario diletto della società umana. Era questa una delle cose su cui
si sorvegliava più scrupolosamente per non farle nascere e per impedire
che si sviluppassero appena ne aveva qualche sintomo» (Vita
di Pascal scritta dalla sorella Gilberte Périer).
Pascal
è un uomo che si auto-imprigiona per esaltare come massima virtù terrena
la non-ribellione: «era così zelante nell'obbedienza al Re, che si mise
contro tutti al tempo dei torbidi di Parigi» (le barricate durante la
Fronda, 1648-1653). La castità, il ritiro dalla vita mondana, il saluto
all'arrivo della malattia come fortuna non sono sufficienti; perciò,
narra ancora la sorella, egli si costruì una cintura di ferro costellata
di punte per «mettersela a nudo sulla carne tutte le volte che gli
avrebbero annunziato la visita di qualcuno»: «E quando sorgeva in lui lo
spirito della vanità oppure si sentiva preso dal piacere della
conversazione, si dava delle gomitate per raddoppiare la violenza delle
punture e ricordarsi del proprio dovere».
Ma
qui siamo ancora in una fase di transizione, a una libera scelta, benché
ormai in mezzo agli altri dopo quella di star lontano dagli altri del
passato. È nel Settecento che avviene il grande salto; la scelta diventa
imposizione, il pensiero religioso passa il timone alla scienza del
diritto penale, la vicenda umana personale elitaria diventa tecnica,
impersonale e di massa. E la castità diventa castrazione, e un nuovo
luogo di penitenza sarà il penitenziario. Le parole isolamento, cella,
astinenza hanno ora un nuovo significato che, non più legato alla scelta
individuale, avrebbe forse fatto inorridire gli antichi misantropi mistici
e perfino Pascal.
40.
La lunga evoluzione dell'ideologia misogina segue e al tempo stesso
prepara le tappe del cambiamento economico e sociale trovando nel
penitenziario il suo momento coronante, ora strumento di politica sociale
e non solo di auspicabile e volontaria evoluzione personale. La borghesia
sembra avere nella guerra dei sessi il motore dello sviluppo. Proviamo a
vedere infatti le tre fasi del percorso del pensiero mercantile sotto
questo profilo.
All'inizio
del suo cammino l'economia mercantile distrugge i rapporti di sussistenza
e appare la mistica eremitica e misogina proprio in quegli uomini che
disprezzano lo spirito mercantile. Ma via via che l'attività per la
sussistenza viene asservita al principio del guadagno, viene pure sessuata
al femminile e perciò le donne vanno perdendo rispetto per i loro ruoli
nella società: in questa seconda fase la misoginia si va perciò
laicizzando, si trasforma in scelta di uomini che esalteranno sempre di più,
in contrapposizione all'olismo della società tradizionale,
l'individualismo, spirito necessario allo sviluppo della proprietà.
Quando la storia della proprietà giunge a segnare il predominio della
borghesia nella società intera, l'individualismo avrà a sua disposizione
(terza fase) anche una politica penale dello Stato.
Bisogna
ricordare quanto detto all'inizio, e cioè che il diritto penale moderno
si elabora alla sua nascita come difesa della nascente proprietà
borghese. Più precisamente il sistema proprietario diffuso della
borghesia si instaura attaccando sistematicamente gli "usi
civici" che contraddistinguono la società della sussistenza e il
diritto penale andrà punendo quei popolani e quelle popolane che si
ostinano a considerare naturale andare a caccia o a prendere legna in quel
territorio che era demanio, cioè bene di tutti nella percezione d'ognuno,
come l'acqua e l'aria. Così che la cattura di un fagiano finì a volte
per costare più di un omicidio tra poveri... e una nota canzone ci
ricorda quanto fosse pericoloso rubare i cervi nel parco del re.
Il
"diritto" si contrappone all'"uso", il
"penale" al "civico".
La
repressione delle consuetudini e della cultura insite degli "usi
civici" è anche, ovviamente, un immenso attacco ai poteri delle
donne giacché, ora, ogni attività riguardante la riproduzione delle
condizioni immediate di vita viene via via considerata
"improduttiva" e subordinata alla mediazione del lavoro
salariato, considerato produttivo per eccellenza, anche quando produce
"beni" assolutamente inutili a chiunque se non a chi li fa fare.
Si instaura perciò un modo di vivere sempre più artificioso dove
scompare quell'autonomia delle persone che la sussistenza in qualche modo
proteggeva. L'uscita dal medioevo, il primo grande atto della
modernizzazione che generalizzerà il modo di produzione industriale è
quella ondata di roghi che per 150 anni attraversa l'Europa, conosciuta
come «caccia alle streghe» perché colpisce soprattutto donne,
espropriandole di funzioni rispettate fino allora come per esempio l'arte
della medicina popolare ora considerata stregoneria. Al tempo stesso,
giacché raggiunge anche certi uomini, gli stregoni, questa caccia non si
limita a sostituire con degli "esperti" medici maschi ciò che
era popolare, ma sessua ancor di più al femminile per renderle secondarie
quelle attività fino allora considerate primarie: nutrire, accudire,
eccetera.
La
misoginia è quindi storicamente un cemento ideologico importantissimo per
la trasformazione di un complesso di attività ora completamente
femminilizzate in «lavoro ombra» del lavoro salariato.
41.
Infine, 150 anni di roghi sono anche 150 anni di Inquisizione dove il
chierico affina e potenzia il ruolo del magistrato. Su questo versante il
compito è di stanare la realtà interiore per distruggerla insieme
all'individuo o per trasformarla qualora l'individuo rinunci alla sua
dignità con la confessione e l'abiura.
42.
Misoginia e opera di distruzione della realtà interiore acquisita
rimangono perciò come matrici del penitenziario, ne costituiscono per così
dire il DNA, consentendogli di riprodurre nella sua struttura e nelle sue
funzioni le condizioni che inducono l'individuo a ripercorrere nella sua
mente quei 150 anni di storia.
La
detenzione come pena è il prezzo che anche il maschio paga per il
disvalore subito dalle attività socialmente utili, consegnate al
disprezzo del lavoro-ombra o delegate con alto prezzo sociale agli
"esperti"; inoltre egli è indotto
a compiere quel percorso mentale che Pascal, invece, deduceva.
43.
La distruzione della realtà interiore acquisita è un'elaborazione
culturale della solitudine imposta. Colpendo il rapporto fra uomini e
donne, punto cardine di tutti i rapporti sociali, si provoca
nell'individuo un processo di esaltazione dell'Io, una fine del pensiero
introspettivo, dato che è soprattutto nella scelta d'amore che invece lo
si mette in discussione più che altrove, in tutti, anche in chi non
possieda ideali che abbraccino il prossimo nella sua interezza; e anzi può
succedere che dietro a questo «amore ideale» possa ormai nascondersi una
visione astratta dell'amore, maschera ulteriore di un Io esaltato. Là
dove un sentimento cade, tuttavia, non si crea affatto un vuoto ma un
risentimento, una rabbiosa sfiducia. Che cosa diventi l'Io in condizioni
siffatte ci viene ancora lucidamente spiegato dall'auto-recluso Pascal in
quell'eccezionale fase di transizione alla mente attuale che è il
Seicento, quando perciò tale mente nasceva ma era ancora capace di non
mentire a se stessa:
«...
l'"io" possiede due qualità: è ingiusto in sé, in quanto si
fa centro di tutto; è spiacevole agli altri, in quanto li vuole
asservire; infatti ogni "io" è il nemico e vorrebbe essere il
tiranno di tutti gli altri».
Ora,
se questo è l'Io reso ipertrofico da una costruzione culturale che non
viene riconosciuta e messa in discussione, si finisce per credere di dover
attribuire le caratteristiche di questo «iper-io» alla natura umana, a
una dote di istinti come per gli animali. La conclusione non potrà che
essere quella creduta anche da Pascal: «Tutti gli uomini si odiano naturalmente»
[sottolineatura mia]. In un ambiente dove si creda che tutti si odino per
motivi naturali e perciò inevitabili, ci si potrà chiudere in se stessi
o al contrario agire senza scrupoli, ma diventerà per tutti altrettanto
«naturale» sviluppare una doppiezza fatta di riserve mentali e secondi
fini, quelle pensées de derrière
la tête che Pascal rivendicava come il suo vero pensiero e fecero
perciò parlare giustamente di «machiavellismo pascaliano».
Bruno
Bettelheim ha affermato nel già citato suo libro:
«Quando
il controllo esterno, in una forma o nell'altra, raggiunge finalmente
l'intimità dei rapporti sessuali, come avvenne nello Stato di massa di
Hitler, all'individuo non viene lasciato quasi nulla di personale, di
diverso, di unico. Quando la vita sessuale dell'uomo è regolata da
controlli esterni, come il suo lavoro o il suo modo di divertirsi, egli ha
definitivamente e completamente perduto ogni autonomia personale; il poco
di identità che gli rimane può solo risiedere nel suo atteggiamento
interiore verso una tale evirazione».
Sotto
questo profilo il carcere è lo «stato di massa hitleriano» presente
nella società attuale da sempre, un angolo che permea di sé la società
intera con conseguenze tanto pericolose perché ignorate o fraintese dai
più. Nelle situazioni di dominio totale si dà la possibilità di
distruggere e trasformare la realtà interiore di una persona in senso
criminogeno. A questo tende ogni potere. In carcere resiste a questa
pressione solo chi sa difendere forti legami d'amore e d'amicizia.