5.
Della storia:
falsa verità e storie vere
65.
L'abolizionismo, per avere una prospettiva, non deve perdersi in tali
meandri e dovrà ricordare quel che viene sistematicamente trascurato da
ogni tendenza liberalizzante: l'aspetto ideologico
della politica penale. Le obiezioni fatte sul piano della "razionalità"
non portano a nessun luogo. Ideologico è tutto ciò che riguarda la
soggettività delle persone, che porta alle loro menti. Qui è il cuore
del sistema penale. Per liberarsi dal carcere, bisognerà liberarsi del
sistema penale e perciò va superata anzitutto la sua ideologia, va
riscoperta e difesa la soggettività umana.
All'apparato
giudiziario non importa tanto quel che si è fatto, quanto come la si
pensa. Nell'evoluzione della pena la sofferenza, abbiamo detto, si è
spostata sempre di più dai visibili livelli della sua applicazione sul
corpo - com'era nel supplizio - ai livelli sempre meno visibili della
mente, i quali non per questo sono meno atroci. Se la prigione dei corpi
si modifica, lo fa per favorire lo sviluppo di una prigione delle menti
che ha successo nella società attuale molto più di quanto non si
immagini. Il risultato è una realtà infernale per chi ha la sventura di
subire anche la prigione fisica.
66. La
prima questione che ci si deve porre è, apparentemente, di pura
filosofia: quale rapporto esiste tra verità e libertà?
Quasi
tutti i filosofi e le anime belle in genere ci risponderanno che solo un
amore appassionato per la verità porta alla libertà. La verità è
dunque la condizione per la libertà.
Il carcere
ci dimostra che è vero il contrario.
Il
pensiero abolizionista dovrà assumere l'assioma: per raggiungere
qualsiasi verità, ci vuole libertà come per i fiori ci vuole terra.
Ricordiamoci
della regola stabilita da Napoleone, la necessità di una «direzione
monarchica dell'energia dei ricordi». Tribunali e trattamenti carcerari
hanno sempre teso a costruire il senso
della storia: attraverso il leggero costante ritardo nella
comprensione dei tempi storici, il sistema penale, immensa e lenta
macchina burocratica, è fatto apposta. Se lo scopo non è di migliorare
l'umanità ma di ammansirla ad un potere, addomesticandola in una
disciplina, questo ritardo è utile.
Dai tavoli
di tortura alle leggi premiali si cerca di far sì che una verità
addomesticata sia la condizione per ottenere la libertà, o almeno la fine
della sofferenza più intensa. Il meccanismo si è perfezionato e,
rendendosi più subdolo, si è esteso.
67.
L'anima del carcere è la tortura; il carcere è il raffinato derivato
della tortura per ottenere una personalità spezzata; in concreto: una
volontà annichilita che fornisce la «verità» voluta, ovvero la verità giudiziaria.
La tortura
è un rito primitivo per ottenere la confessione, la quale non coincide
affatto con la verità tout court,
bensì con la pretesa che il torturato interpreti la verità dei fatti
come ammissione di una colpa, ossia come una rinuncia alla propria volontà
interpretativa dei fatti, come un'assunzione del senso della storia
fornito dagli accusatori.
La rottura
della personalità così ottenuta è molto più importante della verità
dei fatti in sé, alla quale si rinuncia spesso e volentieri.
Il rito
accusatorio non si è mai spostato dal baricentro che è l'istituto della
confessione. Ma mentre la tortura si poneva, nel tempo, prima della confessione e come supplizio concentrato, la prigione si
pone come supplizio diluito nel tempo, dopo
la confessione, realizzando meglio ancora lo scopo che ha in comune con la
tortura: la fine della personalità.
«Il
carcere, nella migliore delle ipotesi è chirurgia
morale che, nelle parole di Nietzsche, non può migliorare l'uomo, può
ammansirlo; ci sarebbe da temere se rendesse vendicativi, malvagi,
"ma fortunatamente il più delle volte rende stupidi"» (Gallo -
Ruggiero).
Orbene, la
verità giudiziaria è la verità addomesticata, e viene fornita dalle
coscienze prigioniere, rendendo sempre più esteso quando non eterno
l'imprigionamento dei corpi delle coscienze ancora libere. Vediamone le
conseguenze; sono sempre state sottovalutate. Diventare
"stupidi" non sempre significa essere innocui, come forse poteva
ancora credere Nietzsche.
68. La
storia, si è già detto, è sempre quella narrata dai vincitori.
Bisognerebbe aggiungere e precisare che i suoi scrittori sono spesso
reclutati fra gli sconfitti o i transfughi, i quali in tal modo si
trasformano in uomini vinti. A quanto pare, la lezione fornita dall'uomo
vinto è alla base della nostre memorie. E oggi, per tanti aspetti, è
come se ci trovassimo in una situazione fondativa, analoga a quella dei
primi secoli della nostra era.
La storia
degli eretici, per esempio, ci è stata raccontata soprattutto dai loro
grandi nemici, gli eresiologi, e sulla visione di costoro si è fondata
l'ortodossia; ma bisogna ricordare che la maggior parte di questi
eresiologi furono degli eretici o dei pagani pentiti come l'ex manicheo
sant'Agostino, così diventato potente vescovo di Cartagine, o l'ex pagano
sant'Ireneo vescovo di Lione, autore di un testo - Contro
le eresie - d'importanza fondamentale per la storia dell'ortodossia
cristiana. Si potrà ricordare lo storico degli ebrei Flavio Giuseppe.
Egli e i suoi compagni rimasero accerchiati dai romani e decisero di
suicidarsi per non consegnarsi al nemico. Per ultimo rimase proprio
Giuseppe; cambiò idea, passò dalla parte dei romani e si mise a scrivere
la storia degli ebrei... per i romani, benignamente trattato
dall'imperatore Vespasiano e aggiungendosi il nome Flavio. Si potrebbero
fare esempi all'infinito. Andiamo però a tempi recenti.
I detenuti
politici per la lotta armata degli anni '70 sono un esempio lampante di
questa vecchia storia; sul loro caso, anzi, è stata fabbricata la matrice
di un meccanismo che ha provocato un cambiamento catastrofico per la
condizione di tutti. La verità giudiziaria ha finito per opporsi alla
verità cercando sempre complotti e misteri, è diventata un'ipoteca che
ne differisce la realizzazione. E su questa ipoteca è stata via via
costruita una nuova società lealizzatrice e proibizionista in cui
fortissimo è il potere dei giudici perché è proprio esso a costruire il
senso della storia. A riscrivere
la storia, tuttavia, di nuovo come ai tempi di Vespasiano per gli ebrei,
non è stato il giudice, ma un complesso meccanismo culturale che ha visto
alla sua base proprio l'imputato. L'imputato è l'«ostaggio» della
storia, è il fornitore di una verità addomesticata in cambio della quale
ottiene dei privilegi rispetto a chi difende la libertà di coscienza.
69. Coloro
che vogliono fare dei dibattiti storici finché ci sono ancora degli
imputati, cioè quando ancora un conflitto viene trattato come reato su
gente in carne ed ossa, diventano gli involontari aiutanti dei giudici.
In un
tempo rapidissimo, il numero dei detenuti d'ogni genere è più che
raddoppiato; è aumentato il numero di cittadini che si sentono in libertà
condizionata, come se dovessero dimostrare ad ogni passo la loro
innocenza. Tanto che perfino l'ex presidente della Repubblica Cossiga si
disse «pentito» e osservò giustamente:
«Siamo al
culto della delazione, alla canonizzazione dei collaboratori di giustizia.
E in parte è colpa mia. Le confesserò una cosa: ogni sera io recito un
atto di dolore per aver contribuito, negli anni Settanta, alla diffusione
di questo modo di fare giustizia (...) Sa, sto pensando di presentare un
disegno di legge per cambiare le cose: prendo le regole dell'Inquisizione
di Torquemada e le traduco in italiano moderno. Ci sono più garanzie in
quelle che nel nostro codice di procedura penale...» (La
Stampa, 19/4/95).
Il fatto
che simili affermazioni vengano «da destra» non deve stupire. Nuove
indagini giudiziarie, infatti, vogliono ricostruire quel che è avvenuto
nei passati decenni ben al di là della vicenda del «terrorismo di
sinistra». Dopo l'inchiesta sul rapporto tra affari e politica tutt'ora
in corso - Tangentopoli - si sta ora indagando anche sulle «trame»
attuate a destra. È tutto il conflitto degli anni '70 che passa al vaglio
(deformante) della lente giudiziaria, con assenso quando non entusiasmo a
sinistra, dal PDS a "Rifondazione comunista" al
"manifesto" fino ad alcune mamme del centro sociale Leoncavallo.
La critica ai giudici è sempre consistita nel dire che essi non
indagavano mai sui potenti ma solo sui poveri. E, con questo vittimismo,
si è sempre finito per esaltare il ruolo del giudice e la funzione della
galera.
Questo è
indubbiamente un modo povero, riduttivo di rivedere la storia. Ma è anche
un piccolo bluff. Quel che la magistratura è andata «scoprendo» era già
saputo e risaputo nella sua sostanza, scritto e urlato dall'estrema
sinistra degli anni '70, tant'è che ci fu chi ritenne di dover ricorrere
alla lotta armata per porsi all'altezza di tutte quelle lotte armate
terroristiche condotte in quegli anni da vari potentati in connivenza con
settori dello Stato. E bisognerebbe essere proprio degli ingenui per
credere che i magistrati non avessero potuto sapere, come la sinistra
ufficiale e ufficiosa d'allora, o che «la gente» abbia oggi dimenticato
perché nessuno gli ripete la storia... Eppure capita ancora oggi di
vedere articoli di sinistra indignati, scandalizzati nello scoprire ciò
che i magistrati rivelano... Questa indignazione serve a celebrare il rito
della Religione del Lamento: la Vittima, compiacendosi della propria
impotenza, aspira ad accusare dopo essersi sentita accusata. Sotto sotto
il sacerdote di questo rito vuole invertire i ruoli invece di metterli in
discussione e perciò chiede ancora di ricostruire la storia alla stessa
maniera dei giudici.
Proprio
questa attesa di indagini è da evitare. Ma per evitarlo bisogna evitare
di essere sempre dei rivelatori di verità nuove che in realtà erano
risapute, anche se a dirle non erano dei giudici.
70. Lo «storicismo»
e la filosofia dei tribunali hanno molti punti in comune. Il più grande
equivoco concettuale creato da queste vicinanze si ha, a mio parere,
nell'uso della parola "amnistia". Ecco un atto abolizionista per
eccellenza che viene assolutamente frainteso a causa della sua etimologia.
Dal greco, il significato letterale di questa parola è «dimenticanza»;
praticamente lo stesso della parola "amnesia": «mancanza di
memoria». E infatti storici e giudici dicono spesso che con l'amnistia si
dà un «colpo di spugna» al passato, ci si mette una «pietra sopra», e
altre amenità del genere. Nella realtà storica, invece, non si capisce
proprio perché, all'estinzione del reato, debba seguire l'estinzione
della memoria...! Ogni amnistia ha sempre voluto dire il contrario di
quanto allude ingannevolmente la sua etimologia tribunalesca; essa è il
primo atto con cui ogni cambiamento politico vuol sottolineare la sua
profondità, la sua autenticità. Dal punto di vista civile, l'amnistia è
l'opposto dell'amnesia: è un'anamnesi civile. Il passato, fino ad allora
dimenticato nelle aule dei tribunali, gettato nelle galere, ne esce per
essere ricordato, per aprirsi alla verità, perché finalmente se ne può parlare
veramente, liberamente. Ogni amnistia non mette a tacere una
contraddizione, ma la sposta in avanti, al livello di una superiore
comprensione, rompendo proprio la rimozione che la parola «reato» aveva
creato rispetto alla parola «conflitto».
71. È
opportuno ricordare che le leggi sul premio alla delazione nascono con un
fortissimo impegno del PCI, in alleanza con il generale Dalla Chiesa che
compì la strage di via Fracchia a Genova (marzo '80) per spingere in quel
senso, in seguito alle indicazioni fornite dal brigatista Patrizio Peci.
Poco più di un anno dopo, un docente dell'università di Padova, Toni
Negri, imputato nell'inchiesta padovana del "7 aprile" e per
questo recluso, dichiara sul settimanale Panorama,
rivolgendosi al magistrato Sica, che anch'egli è al suo fianco nella
lotta alle BR. Nasce allora la dissociazione, l'abiura premiata, che avrà
conseguenze ben più gravi della delazione per la società civile. Mentre
la delazione colpisce solo le organizzazioni armate, l'abiura premiata va
al di là di esse. Non a caso essa avvenne dopo la sconfitta di quelle
organizzazioni; ma questa elementare considerazione non venne fatta e
perciò, ecco che in nome dell'attacco a un moribondo (la lotta armata)
tutti i democratici progressisti sponsorizzarono la dissociazione, il
ritorno dell'abiura. Quasi tutti i militanti dell'organizzazione armata
"Prima Linea", collettivamente, si dissociano. Poi cominciano ad
arrivare i brigatisti. Gli sconti di pena dati in cambio della
collaborazione giudiziaria e dell'abiura sono altissimi; il trattamento in
carcere diversissimo; all'uscita dal carcere si aprono più facilmente le
porte del lavoro, ecc.
Lo Stato,
rappresentato questa volta in prima linea anche da esperti giuridici del
PCI (come Gozzini, dal quale prenderà nome la nuova legge penitenziaria),
avvia una profonda riflessione sul successo di questa operazione
patrocinata da tanti alleati. E nell'ottobre 1986 passa la riforma della
legge penitenziaria, la Gozzini, approvata dal 90% del parlamento. Facendo
perno sulla premialità del trattamento, essa propone per tutti i detenuti
la logica propugnata da e per i dissociati della lotta armata.
72. Con la
Gozzini, si può dire che il più grande risultato raggiunto dal movimento
armato in Italia è ottenuto... dopo la propria sconfitta. Qui molti non
troppo brillanti combattenti troveranno la loro gloria, contribuiranno a
imprimere una grande svolta al paese! Ora infatti è stato creato
compiutamente il meccanismo della prigione delle menti che serve anche ad
aumentare la prigione tradizionale dei corpi. Il meccanismo minaccia
virtualmente ogni cittadino, non solo il detenuto politico, con lealismo e
proibizionismo. Gran parte della classe dirigente italiana conoscerà
presto (con Tangentopoli) l'effetto boomerang della macchina che essa
stessa ha imprudentemente messo in moto. E il «popolo», naturalmente,
partecipa festoso al meccanismo quando esso colpisce la classe dirigente.
73. Ho
fornito esempi antichi e recenti di controllo dell'«energia dei ricordi»,
ma è sempre stato così anche in mezzo. Di Primo Levi s'è già detto che
ha spiegato bene cos'è stata la zona grigia in lager, luogo in cui
l'oppresso si trasforma in oppressore anche solo per sopravvivere qualche
giorno in più del suo compagno. Per i lager tedeschi o l'arcipelago Gulag
tuttavia, si è parlato di solito di kapò reclutati tra i
"comuni" in contrapposizione agli ebrei, ai
"politici". Ma nel lager di Buchenwald anche dei militanti
comunisti si prestano a un ruolo ambiguo e ci vorranno anni prima di
venire a saperlo. Molto più evidenti sono le ambiguità determinate dal
ricatto della pena sotto il fascismo, regime in cui astuzia ed elasticità
contraddistinguono un forte senso del potere. L'uso che il regime fa del
confino porta i militanti di Giustizia e Libertà a definirlo «villeggiatura
dell'antifascismo» e a stabilire il dovere della fuga. Il dirigente del
PCI Giorgio Amendola, grazie alle relazioni della sua famiglia col
ministro Ciano, finisce in una villa su un'isola insieme a sua moglie. Con
franchezza, quando anni dopo il socialista Lelio Basso parlerà in termini
troppo assoluti del totalitarismo fascista, sarà Amendola stesso a
ricordargli che per alcuni anni proprio egli Basso poté tenere uno studio
d'avvocato a Milano, pur essendo noto antifascista.
Anche in
carcere le condizioni di detenzione dei politici all'epoca sono
generalmente migliori di quelle dei comuni. Così fu soprattutto per gli
intellettuali delle prime ondate: a un pessimo trattamento e a varie
provocazioni (aggressioni di comuni reclutati come "infami")
saranno invece sottoposti i militanti proletari arrestati ai tempi della
svolta di ultrasinistra contro il «socialfascismo» (equivalenza tra
socialdemocratici e fascisti stabilita da Stalin nel 1928).
I detenuti
politici trovavano generalmente naturale che il trattamento loro riservato
fosse migliore di quello riservato ai comuni: era un atteggiamento che
faceva parte della cultura dell'epoca e che perciò non poteva mettere in
discussione il carcere in quanto tale. Umberto Terracini si indignò per
esempio di non aver potuto vegliare l'agonia di un politico e che al
moribondo fosse stato posto accanto un comune. Trovava però del tutto
normale passeggiare insieme al direttore del carcere in cortile quando
tutti gli altri reclusi erano chiusi nelle loro celle.
Ciò che
però non era naturale neppure allora era l'opportunismo.
Terracini
trascorse 18 anni in carcere.
Girolamo
Li Causi, anch'egli comunista, ricordava le licenze d'uscita concesse a
molti detenuti antifascisti, e lo diceva con spirito critico.
Teresa
Noce, operaia torinese comunista, non perdonerà mai all'intellettuale
torinese Camilla Ravera di aver accettato d'andare a messa nel carcere di
Perugia. Ai piccoli privilegi concessi a chi andava a messa, corrispondeva
ovviamente, per chi non ci andava, un prezzo da pagare. Ed è perciò che,
a liberazione avvenuta, Camilla Ravera non assunse un ruolo dirigente nel
partito - ci ricorda Teresa Noce nelle sue memorie.
Ben
sessantacinque anni dopo i fatti, nel 1996, presso gli archivi del
ministero dell'interno si ritrova una lettera dell'indubbiamente
bravissimo scrittore Ignazio Silone la quale prova la sua collaborazione
con la polizia fascista, l'OVRA. Silone fu ricattato perché suo fratello
era in carcere. La lettera dichiara la volontà d'interrompere la
collaborazione qualche tempo dopo la morte del fratello in carcere.
74. Certi
ricatti tipici nei confronti della detenzione politica riguardano anche il
mondo della cultura. È in un campo di prigionia tedesco che Sartre
realizza il suo primo lavoro teatrale, e «si vede che la sua opera
piacque ai carcerieri, che non solo lo rimisero in libertà ma gli
consentirono anche, nella Parigi occupata del '43, di rappresentare un suo
dramma, Le Mosche (mouches-mouchards? Nomina sunt consequentia rerum!). E ancor oggi la
paga e il prezzo di certo teatro in carcere sono la libertà e
l'infamia...» (Mario Tuti). Da notare che è sempre Sartre a rendere
famoso lo scrittore Jean Genêt nell'immediato dopoguerra, il quale è
stato sì in carcere come delinquente comune, ma soprattutto era un
"infame", come si dice in gergo carcerario per indicare le spie
e gli abbietti. La sua produzione, a riprova di quanto detto nei capitoli
precedenti sul rapporto misoginia-carcere, è secondo Huxley l'esaltazione
della sessualità elementare in chiave non più innocente com'è in
Lawrence, ma squallida esteticamente e moralmente.
75. Storie
piccole, si potrà dire, vicende meschine che non meritano l'onore della
cronaca e che spesso semmai meritano più comprensione che disprezzo;
comprensione per il «fattore umano», come usa dire. È vero e infatti
qui non voglio parlare di queste cose da moralista. Ma il carcere è pieno
di queste storie, sono gran parte della sua Storia e allora bisognerà pur
parlarne se si vuol parlare di prigioni; bisognerà pur dire che Silvio
Pellico fu un poveraccio, Genêt un infame da quattro soldi. Il carcere e
il sistema penale sono così pieni di queste storie che esse finiscono per
dimostrare che la Storia che ci appare con la S maiuscola, là dove i suoi
conflitti sono inquinati dalla cultura della pena, è il riflesso di tante
trattative svoltesi sottobanco o nell'animo del singolo (nei pensieri de derrière la tête alla
maniera di Pascal). E dunque alla fine il pensiero ufficiale che veniamo a
conoscere di questo o quell'autore è anche la maschera che egli ha dovuto
dare, nella sua coscienza o nel suo inconscio, all'oscuro e sconosciuto
carceriere che lo ha condizionato nei suoi giorni taciuti.
Ed è
quindi per carità d'animo che non descriverò episodi di questo
meccanismo per gli ultimi anni, e che ho preferito limitarmi a dare alcuni
minimi esempi risalenti a mezzo secolo fa. Possiamo però ancora dire, per
quanto riguarda ad esempio la storia della lotta armata di sinistra in
Italia, che, contrariamente a quanto affermò la propaganda dei mass
media, i misteri non stanno negli anni in cui si svolse bensì in quel che
si tace degli anni successivi, gli anni della sconfitta e del carcere, dei
cedimenti che portano molti ex militanti a farsi pentiti, abiuranti,
opportunisti per uscire dal carcere dopo che un lungo isolamento dal
prossimo ha finito per spezzare la loro volontà. Impedendo loro di
imparare a cambiare idea veramente, ossia ad oltrepassare le idee di ieri
senza per questo rinnegarsi.
Strada,
questa dell'autorinnegamento, niente affatto obbligata, naturalmente, ma
che pure è quella che prendono puntualmente in molti. Ci sono anche delle
resistenze, ed è questa la lezione fornita dalle memorie di persone prima
citate come Primo Levi, Teresa Noce, Girolamo Li Causi.
E ci sono
state resistenze anche in questi anni tra gli sconfitti della lotta armata
degli anni '70.
Se ne rese
conto anche un militante della generazione antifascista gran nemico del
nuovo fenomeno armato. Giancarlo Pajetta, dirigente del PCI scontò
(solo...) 12 anni di carcere durante il fascismo e venne liberato da
un'amnistia. Pochi mesi prima di morire, nel 1987, disse di esser
favorevole a un superamento dell'«emergenza antiterrorista» e pertanto a
una liberazione dei detenuti. Ma precisò che queste liberazioni dovevano
avvenire senza porre condizioni al singolo, ricordando che il fascismo lo
amnistiò insieme ad altri senza chiedergli in cambio alcuna parola.
Invece, di
parole, la democrazia ne ha richieste molto più del fascismo, e per chi
non ne ha date gli anni da scontare sono diventati ben più di dodici.
76. Ma è
sempre in questi punti delicati che nella storiografia ufficiale la storia
si divide in un macro e in un micro e l'aspetto macro si oppone al micro,
nascondendolo o manipolandolo finché sussiste. Se se ne può parlare, è
sempre molti anni dopo, quando tutto è finito. Perciò nella storia delle
sconfitte politiche ci sono sempre dei sepolti vivi. Gli eresiologi sono
più famosi degli eretici. I sepolti vivi ci sono anche in quest'ultima
vicenda. Per molto tempo non viene ignorata solo la loro battaglia di
coscienza ma persino la loro esistenza di reclusi. Infatti, essendo molta
la pubblicità data ai casi d'abiura e di compromesso, casi in cui la
gente è libera o semilibera, si crede comunemente che tutti siano liberi,
tutti si siano «riciclati» (un po' com'è stato per gli ex democristiani
nel nuovo parlamento). È uno dei grandi bluff che mass media e
politicanti italiani sono specialisti nel costruire. In realtà in Italia
ci sono ancora delle persone (soprattutto di sinistra, ma anche qualche
fascista) che per le vicende degli anni '70 scontano una carcerazione
speciale di 24 ore su 24 da 15 o 22 anni a questa parte. E, si noti bene,
non perché essi propugnino questa o quell'idea e neppure perché vi siano
pericoli che riprenda vita un progetto come quello da loro propugnato
decenni fa, ma perché rifiutano di contrattare le loro idee, cioè, di
fatto, per la loro difesa della dignità umana in generale.
77. Il
"di fatto" è che, da sempre, al detenuto per motivi politici si
pone un problema che non gli consente di «far la commedia» come possono
(giustamente) far tanti "comuni".
Ecco
l'aspetto problematico: il giudice (di sorveglianza) che chieda al
condannato politico, COME VUOLE LA
LEGGE, di individualizzare il proprio caso onde diventare oggetto del
"trattamento", gli chiede DI
FATTO un prezzo più alto che agli altri detenuti (per reati di
diritto comune): poiché è del tutto arbitraria e falsa la separazione
che egli chiede di porre al condannato di fronte a ogni suo coimputato. In
primo luogo c'è infatti da dire un'apparente ovvietà: il detenuto
politico è finito in galera in modo diverso da un detenuto per reati di
diritto comune. Egli è cioè finito dentro per motivi che non sono
diversi da tutti i suoi molti compagni coimputati: il ruolo specifico che
ha svolto ciascuno dipendeva da una volontà collettiva alla quale egli si
limitava a dare la sua disponibilità personale. È dunque nella natura
stessa del reato politico che non vi sia la pura e semplice volontà del
singolo a determinare il suo compimento, ma che questa sua volontà si
ponga come disponibilità verso una volontà collettiva che trascende il
singolo. Questo ha due conseguenze. Primo: da sempre, nella storia
(eccetto oggi...) si è capito che il detenuto politico non compirà più
gli stessi atti di prima quando il contesto nel quale operava sia mutato,
perché il suo agire è stato parte di una soggettività non individuale.
Secondo: egli, come individuo, trovandosi coinvolto con altri a pari grado
di responsabilità MORALE,
difficilmente potrà accettare, per una ragione di principio, una
soluzione individuale che prescinda da quella collettiva, affidandosi al
"caso", cioè al parere dei singoli giudici nell'analisi del suo
comportamento.
Purtroppo
è invece proprio questo che è avvenuto con molti casi di cedimento
personale durante gli anni '80. Si è così fortemente indebolita la
possibilità di una soluzione politica, senza per questo togliere nessuno
dal labirinto giudiziario costruito dalla logica premiale in Italia con la
legge Gozzini dell'ottobre 86. I benefici concessi ai singoli che ne hanno
fatto richiesta lo hanno semmai complicato costruendo nuovi dedali. E così
non c'è stata vicenda politica delle classi dirigenti che, usando tale
labirinto, non abbia cercato di usare i detenuti politici degli anni '70
come "ostaggi della storia" inventando misteri e complotti sulla
storia del "prima". In sostanza, la prima causa immediata della
sconfitta di un'ipotesi di soluzione politica è dovuta allo stesso
atteggiamento debole, collaborativo e individuale, di molti degli
interessati.
Naturalmente,
va anche detto che le scelte individualistiche di vari detenuti politici,
oltre a essere avvenute dopo molti anni di pena (e senza dichiarazioni di
abiura), sono state motivate dallo "scoraggiamento" provocato
dall'assoluta mancanza di un movimento per la scarcerazione all'esterno.
Fenomeno, questo, di cui qui non si possono analizzare le ragioni perché
dovrei mettermi a fare l'analisi dei limiti della sinistra nel suo
complesso, cosa che richiederebbe un saggio a sé. Limitiamoci a una
(amara) considerazione storica: la resistenza di coscienza è stata e sarà
minoritaria finché non sarà sostenuta da un robusto movimento
abolizionista che, al di là dell'esistenza del carcere, critichi il
sistema penale nel suo cuore, nell'aspetto ideologico rivolto contro la
soggettività umana. Fino ad allora chi resisterà lo farà anzitutto per
se stesso e, in attesa di un tempo che non sembra essere il suo, lo farà
perché non si spenga la speranza di un nuovo tempo per la libertà delle
coscienze.
A riprova
di quest'ultima osservazione posso dire che i detenuti che hanno resistito
su questo ignorato terreno, sono stati ignorati presentandoli come «irriducibili»
sul piano politico, ossia come gente abbarbicatasi ottusamente al proprio
passato, onde presentare l'abiura come la sola vera capacità di cambiare
idea, di evolversi nelle proprie opinioni. Il sistema penale deve stare
ben attento a oscurare il fatto che
78. il
rifiuto di contrattare le proprie idee è un valore positivo in sé, un
elemento prezioso per l'umanità: affinché le idee possano mutare, la
coscienza evolversi, bisognerà sempre usare la propria testa quanto più
possibile, impedire a partire da se stessi la scissione tra il dire e il
fare che è alla base della schizofrenia sociale della nostra civiltà.
79.
Proprio contro questa possibilità si muove l'abiura, creazione di quel
principio inquisitorio che, a partire dal tredicesimo secolo, poggiando
sulla tortura, stabilisce che l'imputato debba parlare
contro se stesso e non già in
propria difesa.
Questa
prassi del rito accusatorio è stata inaugurata sì dalla chiesa contro
gli eretici, ma trova immediata applicazione anche nella giustizia
amministrata dai Comuni italiani del Duecento. Troverà una più che altro
formale, ipocrita battuta d'arresto sotto l'influsso della filosofia
illuminista la quale stabilirà che la parola dell'accusato è in propria
difesa (cfr. Sbriccoli). Ma abbiamo visto che in realtà la sostanza del
rito accusatorio non cambia, si nasconde: avviene la nascita del
penitenziario che si sostituisce all'antica pena del supplizio, ponendosi
dopo invece che prima della confessione. A due secoli di distanza, il
moderno avvento del premio al "pentimento" (confessione più
delazione) e alla "dissociazione" (confessione più abiura),
segna anche la fine del principio formale conquistato dal secolo dei Lumi
sui libri di diritto. E la parola dell'accusato contro se stesso conquista
un elemento di novità rispetto alla rozzezza dei tempi della tortura
fisica. Essendo il premio a sostituire la tortura fisica per ottenere la
confessione, la tortura non riguarda più colui che confessa ma soltanto
colui che non confessa; non è un supplizio fisico ma una prigione più
lunga e più dura riservata alla parola dell'autodifesa.
80. L'aver
risancito formalmente l'antico principio sotteso alla tortura - la parola
contro se stessi - ha aperto una voragine che dimostra ancora una volta
come la macchina burocratica non si fermi mai da sola perché non è
semplicemente al servizio di una classe, pur servendola, ma mira a essere
il suo ceto dominante se lasciata a se stessa.
Indubbiamente,
la società attuale deve andare verso una seria riforma di tutte le
istituzioni che hanno regolato il vivere fino ad oggi. Lo deve fare per
rinnovare le forme del dominio dell'Uomo sull'Uomo su cui si fonda. Lo si
dovrà fare a maggior ragione se si vuole essere più liberi. Ma nei due
casi ciò non potrà avvenire per via giudiziaria. Il «diritto premiale»
ha costruito invece proprio questo paradosso. Il sistema penale si
sostituisce alla politica con il rischio, tutt'ora non spento, di voler
instaurare uno Stato etico neo-confessionale: reazione alla crisi dello
Stato-nazione, controriforma nata dal suo seno. Comunque andranno le cose
nel futuro, quel che è già avvenuto ha creato un abbozzo di subculture,
una nuova... etica (cioè un'antietica) che ha avuto profonde conseguenze.
Tant'è
che proprio una delle persone accusate di essere state tra i fautori di
questo processo, il deputato e ex magistrato Luciano Violante, dichiarava
preoccupato fin dal luglio 1993:
«La
magistratura sta effettuando un cambio del sistema politico. "Mani
Pulite" durerà finché non ci sarà un nuovo Parlamento. Se non
facciamo in fretta le riforme, la macchina giudiziaria va avanti e si
carica sempre più di un ruolo politico che non le compete» (La
Stampa 6/5/96).
Chiamato
«rivoluzione» dalla consueta idiozia di alcuni mass media
irresponsabili, questo straripamento del sistema penale finisce per
spaventare gran parte della borghesia (che si ritrova incriminata) e crea
preoccupazione persino in settori della magistratura (a riprova di quanto
sia riduttivo far coincidere il sistema penale con uno solo dei suoi
elementi, il penitenziario, o la macchina giudiziaria ecc.). Il
procuratore di Roma Michele Coiro così commenta una battuta del suo
collega di Milano Borrelli (secondo il quale illegittime erano le
scarcerazioni, non gli ordini d'arresto):
«Una
battuta, per carità, che però dava idea dell'atmosfera che a Milano si
era diffusa, con tanti imprenditori che facevano la fila davanti alla
Procura per confessare, nel timore della carcerazione». Secondo Coiro,
infatti, «in molti casi la custodia cautelare sembrava volta non solo al
fine dell'ammissione delle responsabilità proprie, ma di quelle altrui,
visto il ricorrere della motivazione, nei provvedimenti di scarcerazione,
"ha confessato, non è più pericoloso"». La conclusione di
Coiro è: «Se un equilibrio di potere corrotto ha dovuto lasciare il
campo, non è cambiato nulla nell'ordinamento, e assai poco nei meccanismi
di selezione della classe politica. Né tanto meno si è modificato
l'equilibrio di forze economiche che di quel potere corrotto era
connivente» (La Stampa,
9/5/96).
Si
potrebbe aggiungere che neppure il penitenziario è servito a diminuire la
necessità del ricorso al crimine comune negli ultimi due secoli... Ma
indubbiamente bisogna ammettere che il nuovo trionfo del principio
inquisitorio, consentendo di colpire ceti sociali non abituati a
rispondere ai magistrati, crea in questi ceti un effetto a catena, le
famose file per andare a confessare prima ancora di esser stati
chiamati... E molte confessioni diventando "pentimenti"
(delazioni), creano valanghe in un circolo infernale che si potrà
risolvere solo con una soluzione politica. Simili file non si sono mai
viste tra i poveracci, i delinquenti. In effetti l'uomo borghese odierno
si dimostra di una fragilità preoccupante per la difesa della dignità
umana, a parte qualche encomiabile caso, finito tuttavia drammaticamente
col suicidio o con l'esito mortale di una improvvisa malattia
psicosomatica. C'è anche da notare che, pur avendo conosciuto il carcere,
e la solidarietà degli altri detenuti (i delinquenti prima creduti mostri
crudeli), e le pessime condizioni in cui ci si vive - e non solo per
alcuni giorni! -, la maggior parte di loro non si è peritata di farsi
venire un impulso di solidarietà per il mondo che ha intravisto.
81. Tra la
delinquenza comune, la figura del criminale assoluto (come dicevo
all'inizio di queste pagine) è nata davvero, solo che non va cercata là
dove l'ha collocata il sistema penale, tra i sepolti vivi dalle
lunghissime pene. La sua personalità si è identificata totalmente con il
sistema e gode perciò di massima impunità. Anche se non è il caso di
indicare dei nomi, è più che ovvio come ormai tanti ragionino in questi
termini: provo a compiere il tal reato, se mi va male sono pronto a
pentirmi. Qualcuno l'ha pure già confessato al giudice, una volta che gli
è andata male. D'altronde i giudici lo riconoscono e l'accettano. Il
tribunale della libertà di Venezia revoca l'ordinanza di custodia
cautelare emessa per un pentito dalla corte d'assise il 7 luglio 1994,
affermando che il pentimento del soggetto «è conseguenza non già di una
conversione morale, ma di un preciso calcolo di convenienza» (La
Stampa, 23/4/96). Sembra evidente che secondo i giudici la ragione
morale è più fragile, meno affidabile della ragione calcolata.
Del resto,
fra gli imputati sottoposti al carcere duro (art. 41 bis) è alto il
numero di quelli che si pentono fra le nuove generazioni. Radio carcere
sostiene che in essi ricorra un dato biografico: hanno consumato cocaina.
Patire l'astinenza aiuta a prendere la decisione di collaborare.
Il
pentitismo è diventato il principale strumento d'indagine degli organi
inquirenti. Ha snaturato i processi, i quali tra l'altro tendono a
diventare «maxiprocessi», catene di montaggio dove sparisce ogni
possibile ruolo della difesa, se non altro di fronte alle montagne di
carta che l'avvocato dovrebbe leggere in un tempo brevissimo. Il processo
si appiattisce sul ruolo dell'accusa, ossia della coppia pubblico
ministero-accusatore pentito. Il difensore del pentito è, a questo punto,
una pura appendice del pubblico ministero tenuta in piedi come omaggio
formale al passato.
La
questione è risolvibile in un unico modo: facendo scomparire questa
strana figura insieme testimone e imputata, e quindi obbiettivamente interessata a fornire accuse. Battaglia non facile
perché è indubbio che, facilitando il lavoro dell'accusa, la figura
dell'imputato-testimone viene aiutata e difesa in tutti i modi da una
parte della magistratura che di pari passo diventa sempre meno capace di
svolgere il proprio lavoro secondo tradizione. Magistrati di fresca nomina
e avvocati incapaci fanno carriera in fretta. Tanto che avvengono non
poche forzature. Mi limito a citare un caso già reso pubblico dai
giornali (seppure con la consueta poca pubblicità). Si tratta
dell'intervento di un'avvocatessa a un convegno dell'Associazione
nazionale giudici per i minorenni:
«L'avvocatessa
Valenti ha "catturato" la platea quando ha raccontato che, dopo
il pentimento nel 1992 di ..., che fu sottoposto al "programma di
protezione" riservato ai pentiti, nella famiglia la vita non fu più
la stessa. La moglie ebbe paura, una gran paura e preferì tornare a casa
dai suoi portando con sé le bambine. I giudici però, per due volte, le
ordinarono di sottostare al "programma di protezione" facendole
presente che, in caso contrario, le sarebbero state sottratte le bimbe. La
donna, allora, accettò e da tempo è tornata a vivere con il marito, pur
di tenere con sé le figlie, lontano da Palermo, sottostando al
"programma". Secondo l'avvocatessa Valenti, tuttavia, non vi è
alcuna norma di legge che imponga a un genitore di accettare le misure di
sicurezza riservate ai pentiti, pena la decadenza della patria potestà»
(La Stampa, 26/4/96).
Un'alta
tipica forzatura consiste nello spargere la voce che Tizio è in odor di
pentimento. Di fronte al terrore di ritrovarsi in carcere buttato nella
fossa dei leoni, o di subire rappresaglie sui propri familiari, si spera
così che il Tizio in questione si metta ad accusare il prossimo. Ogni
lettore di giornali o utente televisivo ha letto o udito decine di volte
la presunta notizia sul presumibile crollo di qualche condannato. Poi però
non ha più avuto conferma della notizia, o se ha potuto, è stato molto
tempo dopo... (Nello spettacolo il vero diventa un momento del falso -
Debord).
82. Con
questi metodi ci si sta ancora illudendo di far diminuire la criminalità?
O esiste piuttosto una sorta di nuova cognizione, più disincantata:
aumentare il proprio potere (politico) controllando la criminalità?
In un suo
recente romanzo, Il direttore di
notte, John le Carré immagina che questa nuova cognizione sia ormai
la logica delle spie. Dopo i cambiamenti avvenuti ad Est, le spie sono
costrette ad occuparsi di criminalità a livello internazionale invece che
della guerra fredda, e allora così afferma uno spiocrate:
«Mi era
sembrato di capire che un furfante, una volta identificato, fosse più
utile alla società se lasciato a piede libero. Infatti, fin quando è
fuori e in giro, si può fare di lui ciò che si vuole: identificare i
suoi complici, identificare i loro complici, ascoltare, sorvegliare. Ma
una volta che lo si è rinchiuso, bisogna ricominciare da capo lo stesso
gioco con un'altra persona. A meno che lei non pensi di poter estinguere
del tutto questa cosa. Ma qui non lo pensa nessuno, vero? Non in questa
stanza».
Una parte
della magistratura, la logica del sistema penale nel suo complesso pare
proprio stiano imitando i servizi segreti post-guerra fredda nello
scenario immaginato da Le Carré: per la riproduzione artificiosa di un
gioco che faccia sopravvivere le pedine dello Stato-nazione in crisi.