Pena come merce o lavoro come dono
«la
cosa strana è che non sappiamo molto sul rimanente 99% (o 90% o 70%)
degli eventi penalizzabili che non sono stati penalizzati. Una conseguenza
di ciò è che tali eventi non figurano nei dibattiti pubblici sulla
giustizia penale, dato che quest'ultima è basata su una conoscenza
pubblica e non privata. Attualmente siamo tutti abbastanza a conoscenza -
una conoscenza privata - delle cose che possono essere penalizzate e non
lo sono, ma non abbiamo una conoscenza pubblica di questi fatti e nessun
codice di linguaggio concordato all'interno del quale possano essere
discussi. Per questa ragione, non si trovano sul tavolo dei dibattiti». Per
piccoli episodi sgradevoli molti considerano il ricorso alla giustizia un
«inutile fastidio in più». (In caso di piccolo furto, la denuncia non
è fatta per il suo risvolto penale che può avvenire d'ufficio, ma per il
diritto civile al rimborso del danno da parte dell'assicurazione). Ma in
Olanda c'è già qualcosa in più: donne molestate sessualmente,
incoraggiate da abolizionisti e femministe, abbandonano il diritto penale
e si rivolgono al diritto civile ottenendo che il molestatore non possa più
frequentare la loro stessa zona abituale. I due tipi di casi hanno
qualcosa in comune. Nel primo il soggetto passivo di un'esperienza
sgradevole non vuol viverne una seconda che lo vedrà, appunto, di nuovo
passivo. Nell'esempio olandese la vittima trova invece una soluzione in
cui non è più passiva. Al di fuori della giustizia penale e
dell'astratto piacere della vendetta, ha trovato un'alternativa che non la
vede più espropriata del proprio conflitto: nella giustizia penale
invece, essa potrebbe fare solo da testimone. 12.
La mancata contemplazione delle alternative già esistenti alla giustizia
penale non è altro che il riflesso di un'altra mancata contemplazione
indotta dalla cultura dell'Uomo Economico: il non sapere che la maggior
parte delle nostre vite si svolge, ancora
oggi, al di fuori di ogni dimensione economica, fuori dal criterio
utilitarista; e che la stessa vicenda economica si svolgeva fino a non
troppi secoli fa soprattutto al di fuori del mercato al quale venivano
anzi posti precisi limiti. 13.
Finché l'umanità conosceva un'economia motivata dalla sussistenza,
l'economia svolgeva un ruolo secondario nella vita delle persone. Il «bene»
era asservito al legame sociale. Grosso modo con la prima rivoluzione
industriale, l'economia asservita al principio del guadagno si generalizza
in Occidente dando luogo alla società mercantile: ora è il legame ad
essere asservito al bene, e si generalizza di conseguenza anche la pena
detentiva come seconda faccia della stessa medaglia. 14.
La distruzione della socialità crea però una dipendenza assoluta dal
reddito monetario e non tutti possono averne uno nei modi consentiti. Da
qui nasce la criminalità, che perciò non è affatto una semplice
questione economica ma, anzitutto, l'esito di una distruzione sociale, la
possibile reazione di un processo di spersonalizzazione. La distruzione di
socialità è una violenta operazione culturale che crea una mancanza di
punti di riferimento, ossia un vuoto culturale che a sua volta spinge il
singolo ad affermarsi come individuo in quell'unica libertà consentita
dal mercato, la libertà del consumo, dove si può fare a meno dei legami
sociali per vivere e basta appunto procurarsi un reddito monetario. La
società di mercato finisce per creare un rapporto inversamente
proporzionale tra «persona» e «individuo»... 15.
Due sono gli strumenti che hanno asservito il lavoro al guadagno, creando
povertà e pena moderna: la fame e la violenza. «Fu nella prima metà del
sedicesimo secolo che i poveri apparvero per la prima volta in
Inghilterra: essi si misero in evidenza come individui staccati dal feudo
"o da qualunque superiore feudale" e la loro graduale
trasformazione in una classe di liberi lavoratori fu il risultato
combinato della feroce persecuzione contro il vagabondaggio e della
promozione dell'industria domestica che fu potentemente sostenuta da una
continua espansione del commercio estero» (Polanyi). In tutte le vicende
dei popoli o delle classi, lo sfruttamento economico non precede ma segue
la disgregazione culturale dell'ambiente sociale delle vittime di turno. 16.
Il dono è la spontanea risposta umana al dolore; la pena è il dono
mancato. 17.
Il penitenziario è il luogo in cui, a partire dall'evento individuato e
isolato come crimine, si costruisce la nuova cultura adeguata ad esso. Il
delitto, evento sgradevole per una vittima, è il sintomo di una
distruzione ambientale già avvenuta. Ma ora, date una persona e un
crimine, si deve fabbricare il criminale: qui interviene il sistema
penale. Goffman, al quale dobbiamo tra l'altro la definizione di «istituzioni
totali» per indicare le comunità chiuse in cui si vuol modificare
autoritariamente la personalità, cita in Asylums
vari casi (ripresi da altri autori) che dimostrano questa tesi: 18.
In un certo senso la società di mercato è una non-società perché
l'economico, lasciato a se stesso, tende a negare radicalmente il sociale
in quanto tale. La comunità prigioniera diventa sistema sociale proprio
resistendo allo staff che dirige l'istituzione totale così come nella
società è la resistenza sociale alle leggi dell'economia a far
sopravvivere la società nei suoi aspetti di comunità umana. Certo la
comunità prigioniera vive una socialità dall'autonomia ambigua, come si
è visto nella prima parte di questo lavoro. L'illegalismo è una
ribellione limitata, utile proprio perché è ambiguo il fine
dell'istituzione totale la quale «prevede» il fallimento del proprio
fine dichiarato a favore di quello occulto, fabbricando cioè «criminali»
là dove c'erano soltanto delle persone che avevano compiuto un atto
definito crimine. E il modo in cui viene fabbricata la presunta «ontologia
del crimine» è singolare dato che favorisce nel detenuto un rifiuto del
mondo esterno all'istituzione: il «cinismo» ricordato dall'obiettore di
coscienza citato da Goffman è l'unico vero punto in cui il prigioniero si
riconcilia profondamente (anche se involontariamente) con l'economia; e si
verifica quando dice: «non devo più nulla a nessuno, visti gli anni che
mi hanno fatto pagare!». Per
questo, come dicevo più sopra, la pena è un dono mancato. La pena non è
un pagamento reale, ma viene vissuta da chi la subisce come un pagamento
che ci assolve da ogni debito. Sono certo, anche se non potrei dimostrarlo
se non con esempi di carattere interpersonale, che una società non
punitiva capace tuttavia di individuare gli autori di eventi sgradevoli
per delle vittime, vincolerebbe l'autore a un maggior grado di
autoresponsabilizzazione, a entrare insomma nel sistema del dono, alla sua
fortissima logica morale. La non punizione fa sentire «in debito», «costringe»
l'autore dell'offesa a interpretare egli stesso il conflitto che ha
portato all'evento sgradevole, e al tempo stesso questo «processo»
avverrà all'interno della propria libertà. Il circuito del dono rompe
l'opposizione obbligo-libertà; è una cultura che sfugge ai canoni di
quella mercantile, smonta i suoi significati tanto da apparirvi come
illogica e che, pure, a quest'ultima resiste da millenni. 19.
Diversamente dai liberi cittadini, la cui morale comune deve ancora e
sempre onorare (almeno apparentemente) l'atteggiamento disinteressato nei
rapporti personali, il carcerato si sentirà formalmente obbligato di far
sopravvivere il sistema del dono solo più nella comunità reclusa, tanto
che è soprattutto questo sistema a contraddistinguere la vita tra i
prigionieri. Non a caso il tradimento è considerato il peggior delitto e
la casistica dei comportamenti considerati «infami» è molto più ampia
che nel mondo degli «altri». Il recluso cioè "non deve" più
nulla agli "altri", al mondo che lo rifiuta. L'ipocrisia che il
mercato ha creato intorno alla «morale comune» qui si rompe dando luogo
a una dualità: la pena crea la schizofrenia di una doppia morale. 20.
La dialettica del debito pagato con la pena, creando criminali, funziona
però solo entro certi limiti numerici determinati dalla storia fin qui
conosciuta del modo di produzione industriale. Tutto va in crisi se
rischiano di dover esserci più prigioni che luoghi di lavoro. Ed è
quello che rischia di succedere. Uno studio del ministero della Giustizia
americano dell'agosto 1995 prevede che «tra qualche anno gli Stati Uniti
potrebbero avere più cittadini condannati che studenti universitari» (Il
manifesto, 11/8/95). 21.
Al punto di vista economico-utilitarista questa umanità immiserita che
ancora sopravvive dovrebbe apparire un mistero. Come fa ad andare avanti
nonostante le povere cifre fornite sul prodotto interno lordo di questo o
quel paese africano, nonostante l'arretratezza delle sue tecnologie? È
evidente che antiche e nuove tradizioni resistono, creano scambi di
servizi e beni tra le persone al di fuori di una logica di mercato. I
nuovi poveri devono imparare l'arte d'aggiustarsi. E questa possibilità
gli sarà in parte lasciata dai governanti e da vari potentati economici,
pena una catastrofe sociale totale visto che è economicamente impossibile
disseminare il territorio di carceri di 10-15 piani. L'esercito di riserva
sta diventando una massa di esseri inutili per il modo di produzione
industriale. 22.
In effetti, in tutto il mondo occidentale l'espandersi in questi ultimi
anni del terzo settore è avvenuto a opera del volontariato ed è stato un
freno contro la catastrofe prodotta dalla terza rivoluzione industriale
con la crisi dello Stato sociale. Catastrofe i cui termini sono così
espressi nell'alternativa presentata da Rifkin: «finanziare
il rafforzamento delle forze di polizia e costruire nuove carceri per
imprigionare la sempre più vasta classe criminale [generata dai processi
di sfaldamento sociale e di anomia], o finanziare forme alternative di
lavoro nel Terzo settore». In
realtà, l'alternativa posta da Rifkin, pur essendo corretta in termini
generali, pecca di semplicità e ottimismo. È infatti possibile assistere
a un potenziamento del Terzo settore e, contemporaneamente, a un
potenziamento del sistema penale che a sua volta produrrà criminalità!
È quello che in Italia abbiamo visto in quest'ultimo quindicennio. 23.
Di per sé, la crescita del Terzo settore indica soltanto un progressivo
superamento del mondo salariale. La dipendenza salariale era indubbiamente
uno dei più potenti vincoli alla cultura del mercato per i subalterni. Ma
nel mondo post-salariale sarà proprio l'invadenza del potere giudiziario
a costruire quei nuovi espliciti ricatti che salario e Stato-provvidenza
non possono più dare nel loro carattere implicito; il centralismo
giudiziario tende a occupare violentemente il posto che fu del vecchio
"moderato" centralismo istituzionale dello Stato-nazione,
continuando ad atomizzare socialmente le persone perché continuino a
ragionare e ad agire da individui isolati che vedano solo nel mercato la
loro libertà. I lavoratori autonomi e professionalmente capaci (dotati di
sapere e di saper fare) creati dalla produzione post-salariale sono una
minoranza privilegiata e al tempo stesso vivono una precarietà economica
ed esistenziale che li fa dipendere dal mercato grazie ad una legislazione
abnorme, creando perciò sovente in loro interessi da piccoli imprenditori
piuttosto che una nuova dignità del lavoratore espressa in attività
alternative alle alienanti finalità del modo di produzione industriale.
Resta dunque diffusa in molti di loro una cultura da Uomo Economico,
ancora indifferente all'esistenza delle pene, incapace di cogliere il
nesso esistente tra prigione e lavoro alienato, spesso anzi sempre più
forcaiola nei suoi esasperati particolarismi. 24.
Ora, questo fenomeno si è puntualmente verificato nella storia ogni volta
che vi sia stata un'acuta crisi sociale; e si noterà che abolizionismo e
spirito del dono hanno in comune una critica del diritto, il primo perché
contro la pena, il secondo perché «al di là» dei diritti, come si vede
bene nel seguente esempio di Godbout: «Il
figlio, di fronte alla sua porzione di torta, dice alla madre: "La
prendo, è la mia porzione, ne ho il diritto, mi spetta". La madre
risponde: "Hai ragione, ne hai il diritto. Ti chiedo soltanto di
dividere la tua porzione con il tuo amico che è appena arrivato. Lo farai
se vuoi, perché hai il diritto di tenerla tutta per te". In questo
esempio si vede emergere la differenza tra l'apprendistato dei diritti e
l'apprendistato del dono...». C'è
una cultura antica e sotterranea che rispunta in ogni crisi sociale,
sempre repressa eppure mai sopita, che prova a ridare all'umanità questo
apprendistato al di là dei diritti. Nulla è stato più prezioso delle
sue stesse sconfitte: dietro a ogni sconfitta c'è una resistenza, e ogni
resistenza ha ritardato la distruzione, ha impedito la distruzione totale,
ha difeso uomini e donne in carne e ossa, ha mantenuto vive la memoria e
la parziale realtà di una vera comunità umana. «Amazzoni
e baccanti ribelli nella crisi del medioevo greco, animatrici e martiri
delle comunità gnostiche, streghe delle "congreghe" in
espansione dal Quattordicesimo Secolo, sono tutti soggetti che
contrappongono valori libertari a valori gerarchici, inserendosi nella
crisi della civiltà dei palazzi micenei, in quella dell'impero romano e
poi della Chiesa medievale, apprendendo dall'esperienza, rapportandosi ai
valori del tempo, ma sempre proponendo una cultura definita dai tratti
essenziali dell'erotismo non represso e del rapporto di convivenza e non
di dominio con la natura» (Galli). 25.
Questo movimento sociale ribelle, composto da donne e uomini, pur
assumendo forme diverse nella storia, ha ricordato ogni volta il sistema
del dono, ha resistito concretamente contro tutto ciò che, mattone su
mattone, è diventato infine penitenziario: subcastrazione sessuale,
gerarchizzazione esasperata delle relazioni umane, sbarre e cemento che
sostituiscono interamente la natura. Ad ogni libertà del dono scomparsa
è corrisposta una nuova forma di pena che sommandosi alla precedente -
ogni tappa una nuova pietra - è diventata via via la moderna prigione,
perfetto contraltare della disgregazione sociale e culturale del mondo
attuale. I «nuovi» movimenti sociali (ecologici, antinucleari,
femministi...), come quelli «vecchi» (movimento operaio), il
volontariato e l'abolizionismo non possono non compiere il percorso a
ritroso segnato dalla storia che porta alla reclusione; diventando memoria
vivente di quell'altra cultura devono destrutturare, mattone su mattone,
le tappe di questa costruzione punitiva se vogliono uscire ciascuno dal
proprio particolarismo. L'abolizionista deve scoprire la socialità
alternativa al mercato, il movimento sociale vecchio o nuovo deve scoprire
la critica radicale al concetto di pena. I due tipi d'azione, sociale e
abolizionista, dovranno integrarsi a vicenda, recuperando in una politica
comune un altro modo di pensare che è sempre stato la storia sotterranea
del mondo occidentale, scoprendo che dall'altra parte il binomio
mercato-pena è sempre stato indissolubile e che solo cogliendo tale unità
e il suo nocciolo misogino si uscirà dall'esistente. E il miglior esempio
che oggi abbiamo del modo di pensare prodotto da tale unità si ha quando
una persona sessualmente castrata da anni è ormai portata a dire: «contano
solo i soldi, tutto il resto sono balle: illusioni e tradimenti». Nel
caso del «pentito» si va oltre: è egli stesso che disgrega un ambiente
per farlo diventare merce. 26.
La mancata critica abolizionista della pena vanifica grandemente la
portata dei movimenti che vogliono un cambiamento sociale. Con questo
oblio essi lasciano in parte rientrare dalla finestra tutto ciò che
credono di cacciare dalla porta: la distruzione della natura, il sessismo
misogino, la gerarchia, il mercato senza confini e desocializzante. La
dimenticanza di questo punto nel programma dei vari movimenti ha una sola
spiegazione: nasconde il bisogno d'autorità - proveniente dal basso e non
solo dall'alto - di un'umanità malata, disabituata a una pratica della
libertà grazie agli effetti perversi indotti dalla repressione
dell'attrazione naturale fra uomini e donne che si subisce già
nell'educazione dell'infanzia; bisogno che diventa mostruoso monumento a
se stesso con le prigioni e le istituzioni totali in genere. Quanto
all'aver fatto diventare non solo la libertà personale ma anche l'amore
oggetto di premio con le nuove politiche penitenziarie, siamo qui al
sacrilegio, non trovo altre parole per definire un fatto simile. 27.
In Italia non esiste ancora un movimento abolizionista anche se per
fortuna cominciano ad esserci alcuni abolizionisti. Proviamo a vedere
quali difficoltà incontrerà un tale movimento anche solo ad affermarsi
per un dibattito nel paese delle mille emergenze. 28.
Ma c'è da chiedersi rispetto a che cosa si è produttivi o no. 29.
Il sindacalismo, la sinistra in generale, l'ecologismo, persino buona
parte del femminismo si sono finora presentati soprattutto come movimenti
per ottenere dei diritti, dei nuovi diritti, e non per andare al di là
del diritto.
11.
L'abolizionismo ha oggi un'occasione storica: può uscire
dall'utopia-pensiero di un «altro tempo» e diventare utopia concreta,
cioè - secondo l'espressione di Ernst Bloch - un «principio-speranza»
che guidi il nostro presente.
I
tempi delle conquiste dell'utopia concreta non sono facilmente definibili
poiché dipendono da una cultura diversa da quella attuale che cresca dal
basso e renda superfluo quel che oggi appare necessario. Ma, ecco la novità,
la possibilità è resa attuale dalle reazioni spontanee ad alcuni effetti
della terza rivoluzione industriale altrimenti disastrosi.
L'utopia
concreta ha infatti ben poco di profetico. È una capacità di vedere con
un nuovo sguardo il presente. Nel nostro caso si tratta anzitutto di
vedere quel che pur essendoci sempre stato non è stato mai visto dai più.
La
pena è il tentativo utopistico-insensato di far soggiacere il dolore alle
leggi dell'economia. Il dolore dell'offensore dovrebbe ripagare la vittima
del dolore ricevuto. Sappiamo che la ricerca dell'offensore riesce solo
nell'1% dei casi perché si fonda sull'idea sbagliata che esista
un'ontologia del crimine mentre ogni caso concreto si rivela diverso
dall'altro sottraendosi a questa astrazione. Ma ciò vuol dire - anche -
che, in una proporzione che può arrivare a 99 casi su 100, «le
alternative alla giustizia penale sono la norma piuttosto che l'eccezione»!
(Hulsman, 1991). Ora però, secondo Hulsman,
Nelle
attività conviviali, nell'economia domestica, insomma nel pianeta dei
rapporti personali si dà «senza contare». E questo pianeta è il
rapporto sociale vero e proprio, il quale vive all'insegna del dono e non
del guadagno. «Il dono non è altro che il sistema dei rapporti sociali
tra le persone», «costituisce il sistema dei rapporti propriamente
sociali in quanto questi sono irriducibili ai rapporti d'interesse
economico o di potere», comprende «ogni prestazione di beni o servizi
effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare
o ricreare il legame sociale tra le persone» (Godbout).
Ma
questo processo non toglie che la base della nostra possibilità di vivere
rimanga nel sistema del dono e non nell'economia di mercato. Il sistema
del dono costituisce un elemento essenziale di ogni società, ivi compresa
la nostra, restando quel «surplus necessario al di là del diritto e
nello stesso tempo condizione dei diritti» (Godbout). Si noti, en passant, che Marx attribuiva al proletariato un ruolo per un
destino dell'umanità al di là del diritto quando affermava di poter
individuare in esso una «classe della società civile che non sia una
classe della società civile, (...) di una sfera che per i suoi dolori
universali possieda un carattere universale e non rivendichi alcun diritto
particolare» (Introduzione a Per la
critica della filosofia del diritto di Hegel).
La
socialità - relazione umana non mercificata - costruisce delle persone,
l'economia degli individui. La persona ha tanta più personalità
(individualità) quanto più sono estese le sue relazioni sociali. Al
contrario, l'individuo si afferma nell'atomizzazione: egli si crea
indipendenza dai vincoli sociali in un processo di spersonalizzazione;
diventa libero nella solitudine ricorrendo a beni e servizi acquistabili
sul mercato quali sostituti del legame sociale; nel mondo della merce,
simulacro del dono, egli non dà né riceve doni, ha dei diritti perché
li paga. Il lavoro per esempio, non sembra più essere ciò che è,
un'interazione tra gli esseri umani e la natura, ma viene presentato e
organizzato come una merce (forza di lavoro) in cambio della quale ci
spetta, «di diritto», un'altra particolarissima merce (o presunta, come
sarebbero anche il lavoro e la terra secondo Polanyi), ossia la moneta.
Per l'uomo primitivo lavorare per ottenere un guadagno sarebbe stato
inconcepibile: il lavoro era fine a se stesso, la sua caratteristica
costante era quella di andare al di là dello stretto necessario (ai
nostri occhi).
La
criminalità è perciò il punto in cui la distruzione della persona per
la sua trasformazione in puro individuo spersonalizzato deve avvenire in
modo violento per impedire una possibile uscita dall'economia (guadagno)
che segni il ritorno della socialità (sussistenza) per vivere.
Il
carattere primariamente culturale (sociale) dell'emarginazione
criminalizzante è oggi particolarmente visibile nei paesi avanzati.
Sempre di più dei nuovi delitti sono compiuti da ragazzi definiti «perbene»,
e si parla magari in questi casi di violenza... gratuita. La realtà dei
tossicomani in regime proibizionista, dei casi di violenza familiare o
interpersonale sfugge all'analisi economicista, risponde a una condizione
esistenziale creata da una sorta di fiera dei sensi connaturata allo
sviluppo della logica di mercato. Le persone ivi implicate spesso non
hanno tanto bisogno di soldi o anzi ne devono spendere tanti, anziché
guadagnarne, proprio ricorrendo all'atto illegale. Lo compiono dunque per
sopravvivere a un vuoto sociale e di senso, per rispondere a questa
esigenza dentro le regole prefissate da un sistema deviato che ha
distrutto nel loro caso ogni autentico legame sociale. Socialità e
mercato, persona e individuo diventano termini antitetici nel mondo
rovesciato della società mercantile. Il fine ricercato nella «via del
male» non è affatto un guadagno, se non come mezzo, ma la versione
deformata di un prestigio, di un'identità, di un riconoscimento sociale
che il sistema del dono non può più dare di fronte alle alienazioni
prodotte dall'Uomo Economico; oppure la rinuncia a tutto questo per un
sostituto artificiale come nel caso dei tossicomani. Il «male» è allora
la soluzione coerente in un mondo deviato dal mercato per continuare a
inseguire ciò che è naturale nell'essere umano: l'immutabilità del suo
essere sociale data la sua natura di essere interamente culturale e non di
animale economico. La funzione del crimine è dunque quella di ricordarci
che un tempo l'economia era asservita alla socialità.
Un'analisi
storico-statistica potrebbe dimostrare che lo sviluppo della pena
detentiva corrisponde alla diminuzione delle zone di sussistenza nella
vita sociale. Il carcere è una forma particolare di... assistenza sociale
in cui lo Stato si sostituisce alla società; la pena è la seconda faccia
dello Stato-provvidenza accanto alla prestazione di servizi. Compito dello
Stato è di sostituire i propri servizi a quelli già offerti dalla
comunità umana affinché il rapporto sociale, espropriato della sua
autonomia capace di dare e ricevere dono, non sia d'ostacolo al mercato.
Lo Stato è l'agente dell'asservimento del rapporto sociale alla logica
del mercato; Stato-provvidenza e giustizia penale sono il dono avvelenato
del mercato che prova ad estirpare il vero dono per dare spazio al suo
simulacro, la merce.
«...
se l'internato è accusato di aver commesso un crimine, o qualcosa del
genere, contro la società, il nuovo entrato - benché spesso senza alcun
motivo personale - può giungere a dividere sia il sentimento di colpa del
compagno, che le difese elaborate contro questo suo stesso sentimento. Si
tende a sviluppare un senso di ingiustizia comune a tutti e di amarezza
contro il mondo esterno, il che segna un passo molto importante nella
carriera morale dell'internato. Questa reazione al sentimento di colpa e
di privazione totale risulta forse più chiara nella vita carceraria:
"Secondo
il loro modo di pensare, dopo essere stato soggetto ad un'ingiustizia, ad
una punizione eccessiva o ad un trattamento più degradante di quello
prescritto dalla legge, il colpevole stesso incomincia a giustificare
l'azione compiuta, che non aveva giustificato quando la compiva. Decide
allora di far pagare caro l'ingiusto trattamento subito in prigione e,
alla prima occasione favorevole, di vendicarsi con nuovi crimini.
È
con questa decisione che diventa un criminale".
Un
detenuto obiettore di coscienza, ne dà un esempio simile, riferendo la
sua esperienza personale:
"Un
punto che voglio qui precisare è la strana difficoltà che io stesso ho
nel considerarmi innocente. Mi trovo facilmente portato a convincermi di
essere qui a pagare per i medesimi misfatti di cui sono accusati gli altri
prigionieri e devo talvolta ricordare a me stesso che un governo che crede
veramente nella libertà di coscienza, non dovrebbe mettere gli uomini in
prigione perché abbiano ad imparare a metterla in pratica. L'indignazione
che provo verso la prigione e le sue regole non è quindi l'indignazione
dell'innocente perseguitato o del martire, ma quella del colpevole il
quale sente che la punizione che lo ha colpito va oltre ciò che merita, e
che gli viene inflitta da chi non è certamente privo di colpe.
Quest'ultimo fatto è sentito molto fortemente da tutti i detenuti ed è
l'origine del profondo cinismo che pervade la prigione".
Una
constatazione di carattere più generale è suggerita da due studiosi
dello stesso tipo di istituzioni totali:
"In
un certo senso il sistema sociale degli internati può essere visto come
un sistema che provvede un modo di vita tendente a rendere l'internato
incapace di evitare gli effetti psicologici distruttivi
dell'interiorizzazione e della conversione del rifiuto sociale in rifiuto
di sé.
In
effetti, ciò permette all'internato di rifiutare coloro che l'hanno
rifiutato, più che rifiutare se stesso"».
C'è
sempre una società invisibile costituita sul dono e sul non ricorso alla
pena a far da fondamento - per quanto sfruttato e misconosciuto - alla
società visibile, prigioniera dell'economia e della giustizia penale.
Ma
l'economia di mercato ha conquistato ormai il pianeta realizzando, dice
Latouche, «l'occidentalizzazione del mondo». Egli ritiene che sia ormai
improprio parlare di Terzo Mondo; al suo posto c'è qualcosa di peggio:
una serie di «quarti mondi» disseminati non solo nel Terzo Mondo ma
anche in Occidente.
I
nuovi poveri creati dal carattere strutturale della disoccupazione
tecnologica ammontano già in Europa ad almeno 30 milioni di persone
(destinate ad aumentare), mentre sull'intero pianeta è stata creata una
condizione di miseria mai vista nella storia dell'umanità che tende a
colpire i due terzi di essa.
Gli
economisti provano infatti a correggere l'utilitarismo integrale che li ha
finora guidati. Provano a definire il vasto terreno dell'autoorganizzazione
sociale per la sussistenza come «terzo settore» che si affianca al
mercato e allo stato. È una definizione economica per una realtà che, di
per sé, è economica solo in via secondaria; perciò questa definizione
tende, di fatto, a negare autonomia e potenzialità alternativa alla
socialità umana onde continuare ad asservirla agli altri due settori. Chi
critica l'economia preferisce perciò descrivere questa realtà come «informale»
(Latouche). Nella logica economica invece, le energie sorte dalla
solidarietà dovrebbero tappare i buchi lasciati dalla smobilitazione
dello Stato sociale sul versante della provvidenza onde favorire
l'accumulazione del capitale. Con forti appelli per la valorizzazione
dell'attività non profit si
sono espressi l'ex presidente della Fiat Giovanni Agnelli, l'ex
governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi e quello attuale
Antonio Fazio. Quest'ultimo, ricorda Marco Revelli, «ha dato alle stampe
un agile libretto in cui Razionalità
economica e solidarietà sono tra loro affiancate come valori
complementari, in cui la seconda è chiamata a porre rimedio e a
esercitare controllo sui limiti della prima».
Il
sistema penale ha cercato ed è in parte riuscito a usare il volontariato
come personale per la gestione delle pene alternative anziché per
un'alternativa alla pena. Non basterà limitarsi a incoraggiare la nascita
di nuove forme d'economia per avere meno classe criminale; bisognerà
liberarsi della cultura della pena perché l'esistenza di una classe
criminale non è una questione economica, ripetiamolo, ma una questione
socio-culturale con dei risvolti economici.
La
mancata elaborazione di una cultura oltre la pena contribuisce anzi a
svilire l'informale riducendo il
risorto sistema del dono in carità, rapporto non più reciproco ma
unilaterale in un senso preciso: dall'alto verso il basso; rapporto che
non sfugge alla logica mercantile, ma che anzi la rafforza distruggendo
ogni legame sociale con l'unilateralità del proprio movimento. E il
criminale è spesso una persona che rifiuta la carità perché essa
trasforma persino la dignità in merce, perché essa non conosce
reciprocità dello scambio.
Vediamo
dunque che proprio il mantenimento della giustizia penale, la sua
accresciuta presenza negli ultimi anni attraverso la politica delle «emergenze»
ha lo scopo di controllare-utilizzare il Terzo settore perché rimanga nei
limiti della funzionalità al mercato. Così, è molto ingenuo ritenere
che lo sviluppo del Terzo settore porti di
per sé a una diminuzione della criminalità, a un'economia «alternativa»
e più in generale a una società più libera. È un'ingenuità
economicista. L'alternativa sociale proposta da Rifkin avrà un senso solo
se accompagnata da una politica oltre la pena, da una critica pratica alla
filosofia delle cosiddette emergenze.
La
critica abolizionista del diritto penale è perciò, contro ogni illusione
economicista, difesa dell'ambiente socio-culturale dalla cui disgregazione
nascono puntualmente mercato, mercificazione globale e criminalità.
D'altronde
il volontariato resta comunque una positiva risposta spontanea ad una
crisi sociale, la molla che dà impulso allo sviluppo del Terzo settore,
quali che siano poi gli interessi trasversali che alienano quest'ultimo.
Ciò che si fa per volontà, non lo si fa per mestiere; e, a parte i casi
di volontariato presunto, qui ritorna indubbiamente il dono al posto del
mercato, mettendo in discussione realtà costruite dalla divisione del
lavoro, rendendo possibili aiuti reciproci tra le persone altrimenti
impossibili.
Godbout
nota che «al centro della sfera domestica si trova la donna. In ogni
tempo ella è stata un simbolo del dono. Nella mitologia greca, la prima
donna si chiama Pandora, che significa "colei che dona tutto"».
Il dono si è rifugiato tra le donne perché, come già si è accennato,
tutte le attività domestiche, conviviali ecc. sono state sessuate al
femminile e condannate alla subalternità in una dinamica storica che ha
sempre visto uniti strettamente misoginia e spirito mercantile. Il mondo
del rapporto sociale vero e proprio coincide perciò con un «principio
femminile» inteso non su una base biologica ma su una base culturale -
inevitabilmente ribelle, dato che è stato costantemente represso. Perciò
possiamo così riassumere la sua storia:
La
pratica delle libertà non può essere rimandata a un secondo tempo, a
dopo il cambiamento sociale. In tal modo ogni mutamento politico, anche
quello apparentemente più radicale, si rivela un falso movimento. Alla
soglia della libertà devono giungere degli esseri umani già auto-educati
alla libertà, socialmente responsabili, e non degli individui risentiti,
a quel punto bisognosi soltanto di una nuova forma d'autorità perché
resi incapaci di guardare in se stessi. In ciò è consistito il limite di
tutte le esperienze rivoluzionarie. E questa capacità introspettiva del
pensiero rimanda a sua volta a una socialità autonoma quale fu quando
probabilmente tutte quelle attività fuori mercato racchiuse nel «principio
femminile» ebbero ben altro spazio nella cultura comune di un tempo ormai
lontanissimo, prima dei cinque o seimila anni di questa civiltà.
Eppure
questo tempo lontano è ancora vivo nella memoria. Per guardare in se
stessi infatti, ancora oggi sappiamo che bisogna andare oltre se stessi, e
questo non è possibile se non si scoprono anzitutto gli altri. (L'autoesiliato
russo Alessandro Herzen, nell'Ottocento, diceva perciò provocatoriamente:
«Il giorno che gli uomini volessero salvare se stessi piuttosto che il
mondo, liberare se stessi piuttosto che l'umanità, quanto farebbero in
realtà per la salvezza del mondo e la liberazione dell'uomo!»). Ma oggi
noi vediamo il riformatore economico promettere libertà per quando vi sarà
una società diversa; vi sono «ecologisti» che vogliono intanto
in galera gli inquinatori, «femministe» che vogliono intanto pene più severe per i molestatori sessuali, «rivoluzionari»
che vogliono intanto prigioni
per i «fascisti» eccetera. La pena dunque potrebbe smettere di esserci
solo quando fossimo tutti perfetti... secondo il punto di vista di questo
o di quello: peccato che sia proprio la pena a fabbricare in gran parte
questa o quella non perfezione umana. La teoria del secondo tempo della
libertà per il mutamento sociale, perciò, quali che siano le complicate
giustificazioni di volta in volta adottate, ha sempre al suo centro la
salvaguardia del sistema penale: perché esso parte dal vuoto
introspettivo e perciò riguarda, a priori, solo l'Altro; perché la
teoria della colpa è il cuore dello Stato incosciente.
In
quello stesso movimento ricostruttore di socialità e riportatore del dono
che è il volontariato, spesso manca la critica della pena, anche qui
rimandata a un secondo tempo la cui scadenza non può non esser
misteriosa.
Così
si ricrea un movimento autoritario - unilaterale, dall'alto verso il basso
- ritenendo di dover prima
trasformare gli altri e non contemporaneamente se stessi, anzitutto se
stessi.
Eppure
basterebbe poco per cambiare strada. Il rapporto sociale è già di per sé
un'alternativa alla pena. La pena non è altro che il suo sostituto più
radicale, quando l'occultamento di una disgregazione sociale deve
diventare totalmente alternativo al dono di cui la merce è diventata il
simulacro. Questo «poco» è un altro sguardo, cioè una rivoluzione
culturale possibile qui e oggi per rendere utili persino le sconfitte,
preziose le resistenze, non impossibili i successi nel lungo processo
dell'autoeducazione alla libertà.
Prima
di tutto un tale movimento non è un programma di politica immediata ma un
diverso approccio alla realtà: perciò deve scontrarsi con l'immaginario
comune.
Concretamente,
sul piano minimo e più immediato, si può dire che vanno in senso
abolizionista solo quelle misure che:
1)
riducano le pene attualmente esistenti e aboliscano l'ergastolo;
2)
si oppongano a un aumento del numero dei detenuti e delle carceri;
3)
favoriscano automatismi, cioè dei meccanismi oggettivi (fondati sulla
quantità di pena scontata) per la concessione di quei benefici oggi
previsti come premi;
4)
considerino gli affetti e la sessualità un diritto e non un beneficio.
Non
bisogna invece farsi illusioni sul resto, su tutti quei dibattiti animati
dai riformatori sulle cosiddette misure alternative. Riassumiamo infatti
quanto è stato detto fin qui:
Nell'ultimo
quindicennio, in tutta Europa, negli Stati Uniti e anche nell'ex Unione
Sovietica (a parte la parentesi dell'89) si è assistito a una
spettacolare espansione del carcere. Aumentano sia i detenuti che le
lunghe pene, peggiorano le condizioni di vita. Le presunte misure
alternative sono state subito utilizzate come delle aggiunte alla pena
detentiva, allargando il sistema penale, allungando le pene, colpendo
inoltre la libertà di pensiero con la creazione di meccanismi
inquisitoriali che non sono più di competenza solo dei giudici ma hanno
cooptato un variegato panorama di figure sociali: psicologi, assistenti
sociali, pseudo-volontari, sacerdoti, giornalisti, politici, ecc. La legge
penitenziaria è diventata un non dichiarato quarto grado di giudizio, un
nuovo processo quotidiano e della stessa vita quotidiana che inizia dopo
la definitiva conferma della condanna della Corte di Cassazione (terzo
grado). Quanto a quelle figlie del proibizionismo italiano che sono le
comunità di recupero dei tossicomani, sono delle prigioni mascherate
fondate sul «pentitismo». Come se tutto questo non bastasse, oggi, in
Italia, per accelerare i processi, si propone paradossalmente un ulteriore
aumento del potere burocratico (del pubblico ministero come al solito)
stabilendo l'istituto del «patteggiamento» della pena: incoraggiando la
confessione, chi ha soldi e buoni avvocati può ottenere forti sconti.
Risarcimenti e lavoro non sono qui il sostituto della pena detentiva, ma
posti in alternativa a essa e solo qualora si accetti di essere rei
confessi. Insomma, le vie d'uscita si sono rivelate tutte un nuovo
labirinto.
L'ultimo
quindicennio dimostra più che mai che il sistema penale fabbrica
delinquenza ed emarginazione, queste essendo la principale giustificazione
per l'esistenza di un'autorità statale sulla vita di tutti. Lo Stato si
fonda sulla punizione; la punizione si giustifica con la teoria della
prevenzione generale: il presunto potere dissuasivo della punizione
difenderebbe i cittadini. Ogni cittadino perbene è quindi la presunta o
potenziale vittima del reo.
Ma
in quest'ultimo quindicennio sorgono altre due novità che possono
favorire la comprensione del grande bluff, e cioè che lo Stato fabbrica
esso stesso ciò da cui in realtà non ti difende:
1.
Pur rimanendo classista nelle sue forme, la punizione comincia a lambire
penalmente strati sociali privilegiati finora puniti solo civilmente e
amministrativamente. Naturalmente, questi strati tendono a ristabilire un
rigido doppio diritto (impunità per loro, severità per i poveri), ma è
sempre più difficile ristabilirlo via via che la società diventa «complessa».
Ci vorrebbe un «multi-diritto», ma allora il diritto perderebbe la sua
forma astratta, forma che è la sua sostanza... Si vedano a questo
proposito le contraddizioni spesso singolari di un movimento politico come
Forza Italia e del suo leader Berlusconi: si protesta per esempio contro
uno «stato di polizia» ma si critica chi vuol ridiscutere i poteri dei
Carabinieri.
2.
Lo Stato sociale è in crisi perché diventano sempre più costose le sue
funzioni, dall'assistenza medica alla punizione carceraria, a causa di una
specializzazione e moltiplicazione dei ruoli sociali favorite dallo
sviluppo tecnologico. Favorendo lo sviluppo della divisione sociale del
lavoro in rivoli sempre più artificiosi, la tecnologia espropria il
singolo individuo di capacità e autonomia e in questo senso potenzia il
ruolo dello Stato quale sostituto dell'autoorganizzazione umana; ma al
tempo stesso tutto ciò diventa controproduttivo. Occuparsi dell'aids di
Tizio o di come punire il criminale Caio diventa il «pretesto» per
mantenere una miriade di esperti e controllori inseriti in strutture
sempre più labirintiche e costose. Per l'aids ci vogliono tanti di quei
miliardi, all'interno di questa concezione ipertecnologica della medicina,
che bisogna escludere a priori tutti i poveri (l'intero Terzo Mondo, ad
esempio) da ogni possibilità di cura. E, naturalmente, anche il carcere
è diventato costosissimo. C'è chi dice che "per" (cioè
"su") ogni recluso ci vogliano 600.000 lire di spesa al giorno,
mentre un operaio guadagna mediamente 1.400.000 lire al mese! Così un
sacerdote torinese si è piazzato un giorno davanti al carcere delle
Vallette con un simbolico cappio al collo per protestare contro l'ennesimo
suicidio di un tossicodipendente in cella, e dicendo: «Sei mesi di
prigione per il furto di un'autoradio, alla società costano 108 milioni.
Assurdo» (La Stampa, 13/10/96).
Non
so se la cifra indicata dal sacerdote sia esatta, ma non si può forse
anche dire che la società paga 108 milioni proprio per spingere quel
giovane al suicidio? La spesa, assurda dal punto di vista economico, è
servita tuttavia, nel lungo processo storico accennato in queste pagine, a
costruire interessi e mestieri in un'infinita catena di ruoli
deresponsabilizzanti nell'amministrazione della sofferenza e della morte.
Lo spreco economico è un risparmio psicologico che permette di dire: «non
l'abbiamo ucciso noi, si è ammazzato da solo», «è morto di malattia»
eccetera.
Le
vie d'uscita dall'assurdità economica sono perciò teoricamente due: si
può ritornare alle esecuzioni sommarie visibili (per strada, come già
consentono parzialmente alcune leggi d'ordine pubblico; in sbrigative
pubbliche sentenze come vorrebbe il governatore dello stato di New York
ecc.); oppure si può cominciare a ragionare in termini abolizionisti, in
questo caso scontrandosi con gli interessi materiali, morali e simbolici
nascosti e sedimentati dietro a quei 108 milioni per sei mesi di prigione.
Nei
due casi, il vero problema non è economico... E l'abolizionismo, perciò,
proprio per questo non sarà un preciso programma di politica immediata ma
una cultura che sappia ogni volta favorire, sul piano concreto, ogni spostamento
d'attenzione dal reo alla vittima (Christie, Mathiesen). Solo così
sarà possibile individuare nel lavoro il sostituto del carcere e non più
l'umiliante alternativa posta accanto ad esso per chi confessa in taluni
casi, com'è oggi. Impegnato in un lavoro socialmente utile, il ladro
d'autoradio avrebbe meno bisogno di rubare e potrebbe risarcire la società
del valore dell'autoradio grazie all'esistenza di un fondo per le vittime
delle aggressioni e per la creazione di lavori socialmente utili. Ma
questo fondo diventerebbe un'assicurazione sulla vita per tutti i
cittadini aggrediti e dunque possiamo già immaginare le obiezioni delle
assicurazioni private al riguardo... Il semplice risarcimento di
un'autoradio a una vittima reale sposta, anzi minaccia di sconquassare,
un'intera montagna: presuppone il progressivo passaggio della società
dalla punizione alla solidarietà, dalla pena alla compassione, dalla
merce al dono, dall'obbedienza alla libertà, dall'unilateralità
maschilista all'unità dei princìpi maschile e femminile...
Nel
vittimismo contrapposto ad ogni seria "vittimologia", la vittima
è una figura tanto esaltata dalla retorica punitiva, quanto ignorata
nella sostanza. È la figura astratta con cui deve identificarsi il buon
cittadino e non più la vittima reale. E così la vittima finisce per
essere il presunto cittadino produttivo minacciato dal cosiddetto
individuo improduttivo. Tutti i valori impliciti che portano alla necessità
di ignorare la vittima reale trovano allora il loro perno in due teorie:
la pena come sistema di prevenzione generale e la teoria che definisce la
produttività.
Il
paradosso della pena come prevenzione generale è il seguente (Mathiesen):
la minaccia della punizione è un'idea ritenuta valida (ed elaborata) da
chi non ricorre al reato contro chi vi ricorrerà, nonostante la minaccia.
Costui infatti non si trova nella condizione dei più, ma in una
situazione problematica tale da dar luogo all'azione definita criminale.
La minaccia della punizione sostituisce l'analisi di una situazione, è la
condizione per un dialogo fra sordi, un modo storico di definire chi è
asociale. Oggi l'asociale, il diverso, il potenziale criminale è il
non-produttivo.
Chi
va a far la spesa, chi trasforma in cibo un prodotto acquistato non è
considerato produttivo. Lo è invece chi, in cambio della propria
prestazione, ottiene un salario con il quale poter acquistare ciò che
verrà usato e consumato. Si è considerati produttivi rispetto al valore
di scambio e non rispetto al valore d'uso. Il produttivo di oggi è in
realtà il mediatore tra il vero produttore (di valori d'uso) e chi ne
trae profitto. Chi sfrutta il prossimo o produce armi o veleni chimici può
sentirsi a posto con la sua coscienza ignorando il contributo dato dai
marginali alla riproduzione delle condizioni immediate della vita, spesso
maggiore del suo, lui che magari la distrugge, producendo sì, a sua
volta, ma rispetto al profitto. Il pregiudizio produttivista contro il
marginale e la teoria della prevenzione si alimentano a vicenda: perché
è proprio elaborando un trattamento contro l'altro, il marginale, che
posso definire positivamente me stesso, non aver bisogno di riflettere su
quel che faccio...
L'aspetto
tragico è che questo meccanismo ha finito indirettamente per inquinare
anche i movimenti di liberazione sociale, ingabbiando in qualche modo
anche oppressi ed emarginati. Ed è questa la difficoltà maggiore per la
battaglia abolizionista: la critica dell'esistente è un ovvio punto di
partenza, ma qui si tratta di dover anzitutto diventare coscienza critica
dei movimenti che vogliono una società migliore.
Di
fatto, ogni movimento tende così a difendere un suo ideale di socialità
ed è perciò come se confidasse che non vi sarà più bisogno di
reprimere il diverso, l'asociale solo quando questo ideale si sarà
realizzato, perché allora non vi saranno più le stesse condizioni e
perciò non vi saranno più dei diversi, ma intanto... intanto si crea una
zona di silenzio, di fatalismo, di imbarazzo verso quello che bisogna fare
dei diversi oggi.
L'errore
grave che si crea in questa zona d'ombra è di ignorare che non tutto il
male vien per nuocere: momenti di asocialità vi saranno sempre, anche
nella più liberata delle società. A meno di non negare quella legge di
natura che è il mutamento, bisognerà riconoscere che ci sarà sempre
un'asocialità, magari molto diversa nelle sue forme da quella di oggi, a
indicarci i limiti della nostra
socialità, un limite nostro quindi, che dovremo comprendere per
migliorare l'esistente. Così come d'altronde ogni follia rivela il limite
della nostra ragione.
Da
questo mancato riconoscimento deriva l'agire lungo la linea del diritto
che farà diventare il movimento liberante simil-produttivista e
vittimista. I nuovi diritti da rivendicare diventano cioè un'aspirazione
ad allargare il numero dei reati, criticando il doppio diritto creato dal
privilegio invece di "dereatizzare" il conflitto. Alla fine di
questa strada il movimento di liberazione si è fatto giudice e si è
ridotto a costituzione di potere. L'idea del cambiamento in cui si cade è
di credere che il prossimo sia da liberare invece di mettere ognuno in
condizione di autoliberarsi. Si è cristallizzata la propria idea, finendo
per cercare di imporla invece di confrontarla costantemente con
l'evoluzione della realtà. Il presunto liberatore si sostituisce al
cambiamento invece di esserne il cosciente partecipe, si muove sempre di
più contro e non per
qualcosa.
Mettere
in discussione qui ed ora questa dinamica di elusione del confronto con la
diversità, essere quindi abolizionisti, può contribuire a eliminare
l'apparente eterna maledizione subita/voluta da tutti i movimenti che
finora hanno voluto migliorare il presente. L'abolizionismo toglie alibi,
mette ognuno davanti a se stesso, alla sua resistenza a uscire dalla
logica punitiva.