10.

Una nota personale
 

Il lettore si sarà reso conto che, pur dichiarandomi abolizionista, ho citato uno scarno materiale di pochi autori abolizionisti. Le altre citazioni, poi, hanno spesso un carattere che potrà apparire disparato agli occhi di uno studioso di professione. È difficile procurarsi in carcere una seria bibliografia. Alla fine si finisce per leggere i libri che ci piacciono fra quelli che ci capitano. Chi dal carcere volesse presentare uno studio da professionista, cioè un lavoro sociologico di «secondo grado» che rielabori il materiale fornito dal «profano», dovrebbe aspettare molti anni questo o quel testo e perciò alla fine dovrebbe rinunciarvi se è dotato di buon senso. C'è chi si iscrive alle università: ma per iscriversi ci vogliono soldi, una cultura di base riconosciuta da diplomi, e il tutto per fare poi - almeno in parte - quel che richiede un'impostazione accademica. Non avendo titoli né soldi né tempo da perdere, non mi sono disperato per tutto questo; anzi, diciamo pure che nella mia mente ho trasformato la necessità in virtù, considerando la mia condizione un privilegio per offrire un saggio di sociologia «profana» (cioè di primo grado) che, al tempo stesso, non si privasse del piacere di compiere delle riflessioni più generali, di solito riservate agli studiosi di secondo grado. Diciannove anni trascorsi in cella sono in fondo un materiale sul quale vale la pena riflettere, ed è questo il libro non citato al quale ho attinto di più. Se non altro come terapia per continuare a sopportare gli anni che ancora dovrò trascorrere da recluso.
D'altra parte anche lo studioso di professione incontrerà difficoltà insormontabili quando vorrà avvicinarsi al carcere. Da qui proviene soprattutto silenzio. Ogni testimonianza è inevitabilmente una denuncia e la denuncia espone a rischi. Mancheranno perciò molte testimonianze, e quelle che ci saranno potranno essere spesso mezze verità, perfino a volte menzogne per difendere l'anonimato. Può dunque essere utile che un detenuto faccia delle considerazioni sociologiche sulla propria situazione invece di fornire le solite memorie personali (inevitabilmente autocensurate, magari piene di taciuti giorni) se si vuole uscire da una condizione in cui il non-dialogo tra l'interessato e l'esperto è la norma. 

Ci sono infine in queste pagine dei limiti voluti. Non ho voluto rispondere in modo organico ad alcune affermazioni che considero dei luoghi comuni.
1. L'omosessualità. Si dice spesso che il carcere è pieno d'omosessuali dato che non ci possono essere rapporti fra i due sessi. È la tesi di tutti coloro che più di tutti hanno interiorizzato il sistema penale, il cui sottofondo misogino si rivela parecchio proprio in questo luogo comune. Per costoro evidentemente il rapporto uomo-donna è un fatto senza ragioni particolari, l'essenziale è «trovare un buco». Mi sono rifiutato di confutare una simile tesi, che risulta offensiva per tutti, eterosessuali e omosessuali.
2. La gravità dell'omicidio. Il sostenitore democratico della pena spiega che essa è inevitabile di fronte a un fatto grave e dalle conseguenze irreversibili qual è l'omicidio. Questo luogo comune, nell'ambito della storia del sistema penale è una falsità assoluta quasi dalla notte dei tempi. Da quando poi esiste la proprietà privata, il reato più grave è sempre stato di fatto quello contro il patrimonio. E da quando esiste il pentitismo il reato più grave è la non-contrattazione della coscienza. Non contano più i fatti, ma le opinioni, come ho cercato di dimostrare in vari capitoli. Mentre scrivo queste righe (luglio 1996), un tale che ha confessato 100 omicidi non si sta facendo un solo giorno di prigione. Quindi tale questione è stata risolta con molta facilità, e da tempo, proprio dalla politica della pena e lo si potrebbe dimostrare con un volumone di esempi. Sarà perciò l'uscita dal sistema penale a ridare importanza al valore in sé della singola vita umana, a far sì che l'omicidio possa essere riconsiderato il dramma umano più intenso: l'istituto della pena lo ha semmai banalizzato.
3. L'ergastolo. Di questo luogo comune ho già brevemente accennato: si afferma che in Italia l'ergastolo non esiste più "realmente". Il fatto grave è che questa affermazione è spesso sostenuta da politici e giuristi che si proclamano progressisti, i quali la usano per giungere a una conclusione paradossale: dicono di essere contrari alla proposta di abolire l'ergastolo perché esso di fatto non esisterebbe... Si devono mettere d'accordo con se stessi: perché si agitano tanto per un problema che secondo loro non esiste? Perché non fanno un censimento delle persone recluse da ben più di 20 anni? Mentre in Germania se ne fanno 15, in Francia 19, nei paesi scandinavi non parliamone... L'incoerente ragionamento serve a difendere l'ergastolo e le pene lunghissime senza dirlo esplicitamente. L'attuale ministro della giustizia Flick, per esempio, si è detto contrario a un indulto «generale» a favore dei detenuti per fatti di lotta armata. In realtà la stragrande maggioranza dei detenuti per quei reati è uscita di prigione da molti anni, spesso con sconti di pena «vergognosi». La realtà dunque è che il ministro, anche se non lo dice, non ha invece nulla in contrario a che scontino la pena fino all'annientamento coloro che non intendono contrattare le loro idee per ragioni etiche. Viceversa bisognerà sostenere con forza che certe lunghe pene sono particolarmente assurde sempre, qualunque reato si sia compiuto, anche il più abietto, e che i cambiamenti d'idea avranno tanto più valore quanto meno avranno a che fare con ragioni interessate.
L'ultimo limite di questo lavoro è assoluto, una carenza alla quale non posso rimediare: non vi si parla in modo specifico della detenzione femminile.


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