Una nota personale
Il lettore
si sarà reso conto che, pur dichiarandomi abolizionista, ho citato uno
scarno materiale di pochi autori abolizionisti. Le altre citazioni, poi,
hanno spesso un carattere che potrà apparire disparato agli occhi di uno
studioso di professione. È difficile procurarsi in carcere una seria
bibliografia. Alla fine si finisce per leggere i libri che ci piacciono
fra quelli che ci capitano. Chi dal carcere volesse presentare uno studio
da professionista, cioè un lavoro sociologico di «secondo grado» che
rielabori il materiale fornito dal «profano», dovrebbe aspettare molti
anni questo o quel testo e perciò alla fine dovrebbe rinunciarvi se è
dotato di buon senso. C'è chi si iscrive alle università: ma per
iscriversi ci vogliono soldi, una cultura di base riconosciuta da diplomi,
e il tutto per fare poi - almeno in parte - quel che richiede
un'impostazione accademica. Non avendo titoli né soldi né tempo da
perdere, non mi sono disperato per tutto questo; anzi, diciamo pure che
nella mia mente ho trasformato la necessità in virtù, considerando la
mia condizione un privilegio per offrire un saggio di sociologia «profana»
(cioè di primo grado) che, al tempo stesso, non si privasse del piacere
di compiere delle riflessioni più generali, di solito riservate agli
studiosi di secondo grado. Diciannove anni trascorsi in cella sono in
fondo un materiale sul quale vale la pena riflettere, ed è questo il
libro non citato al quale ho attinto di più. Se non altro come terapia
per continuare a sopportare gli anni che ancora dovrò trascorrere da
recluso.
D'altra
parte anche lo studioso di professione incontrerà difficoltà
insormontabili quando vorrà avvicinarsi al carcere. Da qui proviene
soprattutto silenzio. Ogni testimonianza è inevitabilmente una denuncia e
la denuncia espone a rischi. Mancheranno perciò molte testimonianze, e
quelle che ci saranno potranno essere spesso mezze verità, perfino a
volte menzogne per difendere l'anonimato. Può dunque essere utile che un
detenuto faccia delle considerazioni sociologiche sulla propria situazione
invece di fornire le solite memorie personali (inevitabilmente
autocensurate, magari piene di taciuti giorni) se si vuole uscire da una
condizione in cui il non-dialogo tra l'interessato e l'esperto è la
norma.
Ci sono
infine in queste pagine dei limiti voluti. Non ho voluto rispondere in
modo organico ad alcune affermazioni che considero dei luoghi comuni.
1.
L'omosessualità. Si dice spesso che il carcere è pieno d'omosessuali
dato che non ci possono essere rapporti fra i due sessi. È la tesi di
tutti coloro che più di tutti hanno interiorizzato il sistema penale, il
cui sottofondo misogino si rivela parecchio proprio in questo luogo
comune. Per costoro evidentemente il rapporto uomo-donna è un fatto senza
ragioni particolari, l'essenziale è «trovare un buco». Mi sono
rifiutato di confutare una simile tesi, che risulta offensiva per tutti,
eterosessuali e omosessuali.
2. La
gravità dell'omicidio. Il sostenitore democratico della pena spiega che
essa è inevitabile di fronte a un fatto grave e dalle conseguenze
irreversibili qual è l'omicidio. Questo luogo comune, nell'ambito della
storia del sistema penale è una falsità assoluta quasi dalla notte dei
tempi. Da quando poi esiste la proprietà privata, il reato più grave è
sempre stato di fatto quello contro il patrimonio. E da quando esiste il
pentitismo il reato più grave è la non-contrattazione della coscienza.
Non contano più i fatti, ma le opinioni, come ho cercato di dimostrare in
vari capitoli. Mentre scrivo queste righe (luglio 1996), un tale che ha
confessato 100 omicidi non si sta facendo un solo giorno di prigione.
Quindi tale questione è stata risolta con molta facilità, e da tempo,
proprio dalla politica della pena e lo si potrebbe dimostrare con un
volumone di esempi. Sarà perciò l'uscita dal sistema penale a ridare
importanza al valore in sé della singola vita umana, a far sì che
l'omicidio possa essere riconsiderato il dramma umano più intenso:
l'istituto della pena lo ha semmai banalizzato.
3.
L'ergastolo. Di questo luogo comune ho già brevemente accennato: si
afferma che in Italia l'ergastolo non esiste più "realmente".
Il fatto grave è che questa affermazione è spesso sostenuta da politici
e giuristi che si proclamano progressisti, i quali la usano per giungere a
una conclusione paradossale: dicono di essere contrari alla proposta di
abolire l'ergastolo perché esso di fatto non esisterebbe... Si devono
mettere d'accordo con se stessi: perché si agitano tanto per un problema
che secondo loro non esiste? Perché non fanno un censimento delle persone
recluse da ben più di 20 anni? Mentre in Germania se ne fanno 15, in
Francia 19, nei paesi scandinavi non parliamone... L'incoerente
ragionamento serve a difendere l'ergastolo e le pene lunghissime senza
dirlo esplicitamente. L'attuale ministro della giustizia Flick, per
esempio, si è detto contrario a un indulto «generale» a favore dei
detenuti per fatti di lotta armata. In realtà la stragrande maggioranza
dei detenuti per quei reati è uscita di prigione da molti anni, spesso
con sconti di pena «vergognosi». La realtà dunque è che il ministro,
anche se non lo dice, non ha invece nulla in contrario a che scontino la
pena fino all'annientamento coloro che non intendono contrattare le loro
idee per ragioni etiche. Viceversa bisognerà sostenere con forza che
certe lunghe pene sono particolarmente assurde sempre, qualunque reato si
sia compiuto, anche il più abietto, e che i cambiamenti d'idea avranno
tanto più valore quanto meno avranno a che fare con ragioni interessate.
L'ultimo limite di questo lavoro è assoluto, una carenza alla quale non posso rimediare: non vi si parla in modo specifico della detenzione femminile.