Capitolo IV
Fare della scuola un centro di creazione di vita, non l'anticamera di
una società parassitaria e mercantile
Nel dicembre 1991 la Commissione europea ha pubblicato un memorandum sull'insegnamento
superiore. Vi si raccomandava alle università di comportarsi come imprese
sottoposte alle regole concorrenziali del mercato. Lo stesso documento auspicava
che gli studenti fossero trattati come dei clienti, incitati non ad apprendere
ma a consumare.
I corsi diventavano così dei prodotti, i termini "studenti",
"studi", lasciavano il posto ad espressioni più appropriate
al nuovo orientamento: "capitale umano", "mercato del lavoro".
Nel settembre 1993 la stessa Commissione recidiva con un Libro verde sulla
dimensione europea dell'educazione. Vi si precisa che, sin dalla scuola
materna, bisogna formare delle "risorse umane per i bisogni esclusivi
dell'industria" e favorire "una maggiore adattabilità di
comportamento in maniera da rispondere alla domanda del mercato della manodopera".
Ecco come lo zoom insudiciato del presente proietta come futuro radioso la
forza esaurita del passato!
Una volta eliminato quel che sussisteva di mediocremente redditizio nella
scuola di ieri - il latino, il greco, Shakespeare e compagnia -, gli studenti
avranno finalmente il privilegio di accedere ai gesti che salvano: equilibrare
la bilancia dei mercati producendo dell'inutile e consumando della merda.
L'operazione è sulla buona strada perché per quanto si dicano
diversi, i governi aderiscono all'unanimità al principio: "L'impresa
deve essere impostata sulla formazione e la formazione sui bisogni dell'impresa."
Delle nuove leve per gestire il fallimento
Non è inutile precisare, per aiutare alla comprensione della nostra
epoca, attraverso quale processo lo sviluppo del capitalismo sia sfociato
in una crisi planetaria che è la crisi dell'economia nel suo funzionamento
totalitario.
Ciò che ha dominato, dall'inizio del XIX secolo, l'insieme dei comportamenti
individuali e collettivi, è stata la necessità di produrre.
Organizzare la produzione tramite il lavoro intellettuale e il lavoro manuale
esigeva un metodo direttivo, una mentalità autoritaria, se non dispotica.
Erano i tempi della conquista militare dei mercati. I paesi industrializzati
depredavano senza scrupoli le risorse delle nuove colonie.
Quando il proletariato iniziò a coordinare le sue rivendicazioni, subì,
a dispetto della sua spontaneità libertaria, l'influenza autocratica
che la preminenza del settore produttivo esercitava sui costumi. Sindacati
e partiti operai si danno una struttura burocratica che avrebbe finito per
ostacolare le masse laboriose con il pretesto di emanciparle.
Il potere rosso si stabilisce tanto più facilmente perché riesce
a strappare alla classe sfruttatrice porzioni dei benefici, tradotte in aumenti
salariali, miglioramenti del tempo lavorativo (la giornata di otto ore, le
ferie pagate), vantaggi sociali (sussidio di disoccupazione, mutua).
Gli anni '20 e '30 spingono al suo stadio supremo la centralizzazione della
produzione. Il passaggio dal capitalismo privato al capitalismo di Stato avviene
brutalmente in Italia, in Germania, in Russia, dove la dittatura di un partito
unico - fascista, nazista, stalinista - impone la statalizzazione dei mezzi
di produzione.
Nei paesi in cui la tradizione liberale ha salvaguardato una democrazia formale,
la concentrazione monopolistica che attribuisce allo Stato una vocazione padronale
si compie in modo più lento, sornione, meno violento.
È negli Stati Uniti che si manifesta per la prima volta un nuovo orientamento
economico, votato ad uno sviluppo che trasformerà sensibilmente le
mentalità e i costumi: l'incitamento al consumo infatti diventa più
forte della necessità di produrre.
A partire dal 1945 il piano Marshall, destinato ufficialmente ad aiutare l'Europa
devastata dalla guerra, apre la via alla società dei consumi, identificata
ad una società del benessere.
L'obbligo di produrre a qualunque prezzo cede il posto ad un'impresa addobbata
con gli ornamenti della seduzione, sotto la quale si nasconde nei fatti un
nuovo imperativo prioritario: consumare. Consumare qualunque cosa, ma consumare.
Si assiste allora ad un'evoluzione sorprendente: un edonismo da supermercato
e una democrazia da self-service, propagando l'illusione dei piaceri e della
libera scelta riescono a minare - in modo più sicuro di quanto lo avrebbero
sperato gli anarchici del passato - i sacrosanti valori patriarcali, autoritari,
militari e religiosi che un'economia dominata dagli imperativi della produzione
aveva privilegiato.
Si misura meglio oggi quanto la colonizzazione delle masse lavoratrici, attraverso
l'incitamento pressante a consumare una felicità secondo i propri gusti,
abbia rallentato la stretta dell'economia sulle colonie d'oltremare e abbia
favorito il successo delle lotte di decolonizzazione.
Se la libertà degli scambi e la loro indispensabile espansione hanno
contribuito alla fine della maggior parte dei regimi dittatoriali e al crollo
della cittadella comunista, hanno svelato assai rapidamente i limiti del benessere
consumabile.
Frustrati da una felicità che non coincideva propriamente con l'inflazione
di gadgets inutili e di prodotti adulterati, a partire dal 1968, i consumatori
hanno preso coscienza della nuova alienazione di cui erano fatti oggetto.
Lavorare per un salario che si investe nell'acquisto di merci di un valore
d'uso aleatorio, suggerisce meno lo stato di beatitudine che l'impressione
spiacevole di essere manipolati secondo le esigenze del mercato. Coloro che
subivano l'officina e l'ufficio durante la giornata ne uscivano solo per entrare
nelle fabbriche meno coercitive ma più menzognere del consumabile.
I falsi bisogni prevalendo su quelli veri, questo "gadget qualunque"
che bisognava comprare ha finito per generare a sua volta una produzione sempre
più aberrante di servizi parassitari, orditi intorno al cittadino con
il compito di rassicurarlo, inquadrarlo, consigliarlo, sostenerlo, guidarlo,
in breve di inglobarlo in una sollecitudine che lo assimila a poco a poco
a un handicappato.
Si sono visti così i settori prioritari sacrificati a vantaggio del
settore terziario, che vende la propria complessità burocratica sotto
forma di aiuti e protezioni. L'agricoltura di qualità è stata
schiacciata dalle lobbies dell'agroalimentare che producono in eccesso surrogati
di cereali, carni e verdure. L'arte di abitare è stata sepolta sotto
il grigiore, la noia e la criminalità del cemento che assicura le entrate
dei gruppi di affari.
Per quanto riguarda la scuola, essa è chiamata a servire da riserva
per gli studenti d'élite ai quali è promessa una bella carriera
nell'inutilità lucrativa e nelle mafie finanziarie. Il circolo è
chiuso: studiare per trovare un impiego, per quanto aberrante sia, si è
riallacciato con l'ingiunzione di consumare nel solo interesse di una macchina
economica che si blocca da tutte le parti in Occidente - anche se gli specialisti
ci annunciano ogni anno la sua trionfale ripresa.
Ci impantaniamo nelle paludi di una burocrazia parassitaria e mafiosa in cui
il denaro si accumula e circola in circuito chiuso anziché investirsi
nella fabbricazione di prodotti di qualità, utili al miglioramento
della vita e del suo ambiente. Il denaro è ciò che manca di
meno, contrariamente a quello che vi rispondono i vostri deputati, ma l'insegnamento
non è un settore redditizio.
Esiste tuttavia un'alternativa all'economia di deperimento e al suo impossibile
rilancio. Allontanandosi dal fossato che si scava sempre di più tra
gli interessi della merce e l'interesse di ciò che vive, l'alternativa
propone di riconvertire al servizio dell'umano una tecnologia che l'imperialismo
lucrativo ha disumanizzato, fino a farne - nel caso della fissione nucleare
e della sperimentazione genetica - delle temibili nocività. Essa esige
di accordare la priorità alla qualità della vita e a quelle
attività di base che l'assurdità del capitalismo arcaico condanna
precisamente a cadere a pezzi sotto i colpi di continue restrizioni di bilancio:
l'abitazione, l'alimentazione, i trasporti, l'abbigliamento, la salute, l'educazione
e la cultura.
Una mutazione si mette in moto sotto i nostri occhi. Il neocapitalismo si
prepara a ricostruire con profitto ciò che il vecchio ha rovinato.
A dispetto delle resistenze del passato, le energie naturali finiranno per
sostituirsi ai mezzi di produzione inquinanti e devastanti.
Come la rivoluzione industriale ha suscitato, dall'inizio del XIX secolo,
un numero considerevole di inventori e di innovazioni - elettricità,
gas, macchina a vapore, telecomunicazioni, trasporti rapidi -, così
la nostra epoca esprime una domanda di nuove creazioni che prenderanno il
posto di ciò che oggi serve la vita solo minacciandola: il petrolio,
il nucleare, l'industria farmaceutica, la chimica inquinante, la biologia
sperimentale... e la pletora di servizi parassitari dove prolifera la burocrazia.
La fine del lavoro forzato inaugura l'era della creatività
Il lavoro è una creazione abortita. Il genio creatore dell'uomo
si è trovato preso in trappola in un sistema che l'ha condannato a
produrre potere e profitto, non lasciando altro sfogo al suo rigoglio che
l'arte e il sogno.
Ora, questo lavoro di sfruttamento della natura, così spesso esaltato
come la potenza prometeica che trasforma il mondo, ci consegna oggi il suo
bilancio definitivo: una sopravvivenza confortevole le cui risorse ed il cui
cuore si consumano nel circolo vizioso del profitto.
Come potrebbe un lavoro così inutile e così nocivo alla vita
non esaurirsi a sua volta? Ieri procurava l'automobile e la televisione, al
prezzo dell'aria inquinata e dei palliativi di una vita assente. Oggi resta
solo un salvagente aleatorio di una società paralizzata dall'inflazione
burocratica, dove niente è più garantito, né il salario,
né la casa, né i prodotti naturali, né le risorse energetiche,
né le conquiste sociali.
In un'atmosfera resa oppressiva dalla rarefazione degli affari, la diminuzione
del lavoro è evidentemente sentita come una maledizione. La disoccupazione
è un lavoro svuotato. Una stessa rassegnazione vi fa attendere un'elemosina
come il lavoratore attende il suo salario dedicandosi ad un'occupazione che
lo annoia (anche se ormai giudica imprudente confessarlo).
Mentre tutto va alla malora sul filo di una disperazione ispirata dall'autodistruzione
planetaria economicamente programmata, un mondo è là, lasciato
all'abbandono, un mondo che bisogna restaurare, spogliare delle sue nocività
e ricostruire per il nostro benessere, come se, spezzandosi, lo specchio delle
illusioni consumistiche avesse messo la felicità alla nostra portata,
dopo averne mostrato il falso riflesso.
Diminuire il tempo di lavoro per meglio distribuirlo? Sia pure. Ma in quale
prospettiva e con quale coscienza? Se l'obbiettivo dell'operazione è,
per i più, aumentare la produzione di beni e di servizi utili al mercato
e non alla vita, in cambio di un salario che ne pagherà il consumo
crescente, allora il vecchio capitalismo non avrà fatto altro che recuperare
a suo profitto ciò che finge di abbandonare al profitto di tutti.
Al contrario, se la stessa pratica ubbidisce alle sollecitazioni di un neocapitalismo
che cerca nell'investimento ecologico un'arma contro l'immobilismo di un padronato
senza immaginazione, mancherà soltanto una presa di coscienza perché
il salario garantito e il tempo di lavoro ridotto aprano a ciascuno il campo
di una libera creazione e la libertà di ritrovarsi ed essere infine
se stessi.
Perché, a dispetto dell'occultazione che intrattengono intorno ad essa
le burocrazie della corruzione e le mafie affariste, esiste una domanda economico-sociale
che va controcorrente rispetto alle grida di soccorso del disastro ordinario.
Essa reclama un ambiente che migliori la qualità della vita, una produzione
senza oppressione né inquinamento, dei rapporti autenticamente umani,
la fine della dittatura che la redditività esercita sulla vita. Sta
a voi - e alla nuova scuola che inventerete - impedire che la creatività,
obiettivamente stimolata dalla promessa di impieghi di utilità pubblica,
si intrappoli nell'alienazione economica, tagliandosi fuori dalla creazione
di sé.
Se vi dimenticate di ciò che siete e in quale vita volete essere, non
sperate in un altro destino che quello di una merce buona da buttare appena
superata la cassa.
Privilegiare la qualità
A forza di obbedire al criterio della quantità, la corsa al profitto
scade nell'assurdità della sovrapproduzione. Produrre molto aumentava
ieri il plusvalore dei padroni, che non esitavano a distruggere le eccedenze
di caffè, di carne, di grano per impedire un abbassamento dei pressi
sul mercato.
Lo sviluppo del consumo, toccando un più vasto settore della popolazione,
ha permesso di assorbire in una certa misura una crescente quantità
di merci concepite piuttosto a scopo di guadagno che per il loro uso pratico.
La qualità di un prodotto è stata considerata con tanta più
disinvoltura in quanto non era questa a determinare il livello delle vendite,
ma la menzogna pubblicitaria di cui era rivestita per sedurre il cliente.
Ma a forza di lavare sempre più bianco anche la menzogna finisce per
logorarsi. Offesa dall'eccesso di disprezzo, la clientela ha finito per recalcitrare.
Si è mostrata critica, ha rifiutato di ingoiare ciecamente quello che
il cucchiaino dello slogan gli infilava ad ogni momento negli occhi, in bocca,
nelle orecchie, in testa.
Molti hanno dunque deciso di non lasciarsi più consumare da un'economia
che se ne infischia della loro salute e della loro intelligenza. Esigendo
la qualità di ciò che viene loro proposto, scoprono o riscoprono
la loro qualità di esseri, la loro specificità di individui
lucidi, che era stata occultata da quella riduzione allo stato gregario provocata
e intrattenuta dalla propaganda consumistica.
Ma, mentre gli organismi di difesa dei consumatori organizzano il boicottaggio
dei prodotti snaturati da un'agricoltura che inonda il mercato di cereali
forzati, di ortaggi concimati, di carni provenienti da animali martirizzati
in allevamenti-lager, sembra che nelle scuole ci si rassegni a vedere la cultura
avviarsi sulla stessa strada della peggiore agricoltura.
Se gli uomini politici nutrissero nei riguardi dell'educazione le buone intenzioni
che proclamano a ogni pie' sospinto, non dovrebbero mettere in opera
tutto per garantire la qualità? Tarderebbero forse a decretare le due
misure che determinano la condizione sine qua non di un apprendimento
umano: aumentare il numero di insegnanti e diminuire il numero di allievi
per classe, in modo che ciascuno sia trattato secondo la sua specificità
e non nell'anonimato di una folla?
Ma, apparentemente, l'interesse ha per loro una connotazione più economica
che semplicemente umana. Se i governi privilegiano l'allevamento intensivo
di studenti consumabili sul mercato, allora i principi di una sana gestione
prescrivono di stivare nello spazio scolastico più piccolo la quantità
minima di teste, modellabili dal minimo personale possibile. La logica è
perfetta e nessuna società protettrice degli animali insorgerà
contro il consumo forzato di conoscenze sottoposte alla legge della domanda
e dell'offerta, né contro gli usi da mercanti di cavalli che regnano
sulla fiera del lavoro.
Rassegnatevi dunque al partito preso della stupidità che implica lo
stato gregario, perché per educare una classe di trenta allievi non
vedo che la sferza o l'astuzia.
Ma non invocate l'impossibilità materiale di promuovere un insegnamento
personalizzato. Gli sviluppi delle tecniche audiovisive non potrebbero permettere
ad un grande numero di studenti di ricevere individualmente ciò che
un tempo apparteneva al maestro di ripetere fino a memorizzazione (ortografia,
grammatica elementare, vocabolario, formule chimiche, teoremi, solfeggio,
declinazioni...)? Oppure di verificare come in un gioco il grado di assimilazione
e di comprensione?
Così liberato di un'occupazione ingrata e meccanica, l'educatore non
avrebbe più che da dedicarsi all'essenziale del suo compito: assicurare
la qualità delle informazioni globalmente ricevute, aiutare alla formazione
di individui autonomi, dare il meglio del suo sapere e della sua esperienza
aiutando ciascuno a leggersi e a leggere il mondo.
Informazione al massimo numero di soggetti possibili, formazione per piccoli
gruppi. Al centro di una vasta rete di irrigazione che dreni verso ogni allievo
la molteplicità delle conoscenze, l'educatore avrà finalmente
la libertà di diventare ciò che ha sempre sognato di essere:
il rivelatore di una creatività di cui non vi è nessuno che
non possieda la chiave, per quanto nascosta essa sia sotto il peso delle passate
costrizioni.