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caro Joe,
anche se solo per una breve visita a Porto Azzurro sono stato
l'avvocato di Bertoli.
Sono passati molti anni e non so se ricordo tutto esattamente, posso
essere sicuro solo delle sensazioni che mi rimangono....
Esercitavo ancora la professione a Roma ed i compagni mi ritagliavano
ancora addosso un ruolo cui non ho mai creduto: quello di "avvocato
compagno" (che a me appariva assai simile a quello di un ipotetico
palombaro ciclista), di cui mi sono liberato solo molto più tardi...
Una telefonata di Paolo di A-Rivista mi "assoldò" (in realtà per
un simbolico fondo spese) chiedendomi di visitare Bertoli che aveva
espresso la necessità di un consiglio legale da parte di un avvocato
"di movimento". Se non ricordo male al colloquio mi disse che gli era
baluginata la timida idea di querelare un giornalista (o un giudice)
per qualcuna delle solite dichiarazioni di cui era stato fatto
oggetto.
La mia cultura calabrese ("la querela è solo una ricevuta in carta
bollata" si dice dalle mie parti) e le mie tendenze ideologiche (con
molte contraddizioni potevo ancora accettare di "difendere
legalmente" i compagni vittime della repressione nella totale
sfiducia del ruolo e per motivi quasi esclusivamente umanitari e
solidaristici ma non mi sarei mai prestato a collaborare con un
compagno in un percorso giudiziario, per così dire
"rivendicativo", all'interno delle logiche istituzionali) mi spinsero
a rispondergli subito che per tale tipo di scelta avrebbe dovuto
rivolgersi a qualcun altro.
Ebbi la immediata sensazione che l'ipotesi della querela fosse solo
un flebile pretesto per poter parlare con un "affine" sia pure
sconosciuto. È così che l'idea di querelare fu accantonata
immediatamente (non so se poi la riprese con un altro avvocato) ed
il colloquio si protrasse sulla sua vicenda personale, sulla
situazione generale, e soprattutto su temi epistemologici.
Mi raccontò che in quel periodo aveva un incarico presso la
biblioteca del carcere che gli permetteva di approfondire i temi che
più gli interessavano (ad allora era l'epistemologia in cima ai suoi
interessi).
Ebbi l'impressione di un uomo colto, sereno e fatalista ("tanto lo
so che da qui potrò uscire o con una evasione, altamente
improbabile, o, con più probabilità, da morto: sono l'unico autore
di strage in italia che sconta il "suo ergastolo", già questo
dovrebbe tacitare tutti quelli che mi calunniano... se fossi davvero
quello che loro dicono o sarei stato già ammazzato o espatriato con
altra identità ...").
Una persona che mi piacque e mi colpì molto, il cui "atto fatale"
era rimasto per così dire imbozzolato nel passato (non saprei dire
se era pentito o meno, sembrava solo una persona ormai totalmente
diversa da quella che l'aveva compiuto).
Qualche giorno dopo il colloquio mi arrivò una sua bellissima
lettera, che sicuramente conservo da qualche parte, e da allora seppi
di lui solo quello che appariva a sua firma sulla stampa anarchica
(posizioni che trovavo assai condivisibili sia nei temi "colti" sia su
quelli d'attualità, come la delicata convivenza e la coraggiosa,
dura ed equilibrata ad un tempo, critica nei confronti delle BR ed
alla egemonia che esse tentavano di imporre nell'universo carcerario)
e sulla stampa istituzionale.
La pregiudiziale e totale sfiducia che nutro nei confronti di
quest'ultima veniva vieppiù alimentata, se possibile, dal trattamento
ignobile che a lui veniva riservato (specie da quella della c.d.
"sinistra"), così come anche il suo caso ha potuto vieppiù
alimentare, se possibile il mio disprezzo per il sistema giudiziario
e le sue "verità".
Ho saputo poi che né la sua intelligenza né la sua cultura lo hanno
riparato dal trauma del "mondo esterno", una volta riacquistata una
parvenza di libertà dopo decenni di segregazione subita con quel suo
forte senso di fatalità.
Ad A-Rivista tutto il mio ammirato stupore per come abbia saputo nel
necrologio evitare qualsiasi retorica tratteggiandone un ritratto
vivido, scomodo e sincero.
Un abbraccio
Alfredo