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Il prezzo da pagare*

Cari compagni (…) è ormai passato tanto tempo, quando si svolse il mio secondo processo a Milano, Luciano Lanza che assieme a voi volle essere presente (e non so dirvi cosa volle dire per me) mi fece avere tramite l’avvocato, due dei tre volumi (il primo e il terzo) degli scritti di Malatesta (sono tra i pochi libri che sono riuscito a salvare nelle mie «peripezie» carcerarie e che conservo ancora), ebbene, proprio nell’ultima pagina del terzo volume, sotto il titolo di «ultimi pensieri», vi è una frase, una considerazione tanto umana, tanto «modesta» e priva di retorica, da colpirmi profondamente e da spingermi a rimediare e rivedere un po’ tutto il mio universo mentale, questa: «Colui che tira una bomba ed uccide un passante dice che, vittima della società, si è rivoltato contro la società. Ma il povero morto potrebbe dire: “Ma che sono io la società?”».
Questa semplice, addirittura elementare, considerazione di Malatesta «vecchio» (del 1933, anno in cui io sono nato)** nel contempo dolorosa e pacata, mi ha colpito profondamente ed ha non poco contribuito ad incrinare la «torre d’avorio» delle mie certezze «assolute», del culto senza limiti di quel «dio» senza la «d» iniziale di cui parlava Bruno Filippi, del mio trastullarmi, patetico e impotente peraltro, con una specie di «superomismo» di sapore Nietzschiano.
Certo non è solo a causa di queste parole, vi sono state altre cose, non ultimi il dialogo che pur attraverso la difficile mediazione del linguaggio epistolare, ho ad un certo punto intrecciato con voi quando ero a Porto Azzurro, poi tante altre cose che sarebbe lungo elencare, ma mi sono trovato, pur senza, cercate di non fraintendermi, rinnegare il mio passato, a dover tutto rimeditare e riconsiderare, situazione questa non priva di dubbi, domande senza risposta, laceranti contraddizioni ed una «crisi» da cui non sono tutt’oggi riuscito ad uscire.
La realtà esistenziale, poi, cui mi trovo costretto è ben lungi dal poter essere considerata ottimale per il conseguimento di una certa serenità di giudizio e del relativo equilibrio, perciò, giacché non potrei non considerare come ogni atto umano ed il pensiero stesso vengono a risentire ed a venir, almeno in parte, condizionati dallo stato d’animo e dalle stesse condizioni ambientali, conto su una vostra benevola predisposizione ed una non necessaria severità nel giudicare e valutare le opinioni che sto per esporvi e la forma con cui lo farò: non è senza un certo «disagio», né senza prima aver dovuto superare notevoli esitazioni e qualche perplessità che mi azzardo ad intromettermi in una polemica, divenuta già aspra, tra dei compagni ben altrimenti colti, preparati e capaci più di quanto io, anche nelle migliori condizioni possibili, sarei mai potuto arrivare ad essere.
Ciò tanto più quando, come in questa occasione, se voglio essere sincero (e quello della sincerità è l’unico pregio che posso sperare di dare alle mie parole), non potrò limitarmi ad un allineamento in una delle due posizioni contrapposte, ma sarò costretto ad esprimere delle critiche sia alla tesi di fondo della recensione di A.M. Bonanno del volume «Colpo su colpo», sia a taluni argomenti cui fa ricorso Amedeo Bertolo nella sua risposta sulle pagine di «A».
Se mi sono risolto, nonostante tutto, ad arrischiarmi su di un terreno per me fin troppo difficile, è per due principali ragioni: in primo luogo perché sono stato, seppur marginalmente, «tirato in ballo» e ciò mi dà un piccolo diritto a «dire la mia» per quello che può valere. In secondo luogo perché, anche se in campo anarchico si fa un gran parlare di «autodecisione», «autogestione», «autoregolamentazione», e tanti altri «auto» quanti ne produce la Fiat, quando si tratta di esprimersi direttamente in prima persona e di dire la propria opinione su qualsiasi questione che ci riguarda tutti, quasi nessuno osa mai fare un piccolo sforzo e spiegare come la pensa; tutti là ad aspettare che qualcuno dica loro cosa pensare o cosa fare. Come è possibile proporsi di portare avanti un progetto rivoluzionario tendente alla realizzazione di una società senza gerarchie, senza la separazione tra lavoro manuale e quello intellettuale, ecc., se poi dobbiamo riconoscere di aver interiorizzato in noi stessi l’attitudine a lasciarsi guidare, ad accodarci ad un qualsiasi «leader», a lasciarsi pensare, decidere, agire qualcun altro senza mai sentire il bisogno di farsi sentire, di pensare con la nostra testa e comunicare ad altri individui pensanti questi nostri pensieri?
Dicevo più sopra di trovarmi, anche se in diversa misura, a dissentire con entrambi questi due compagni. Relativamente a quanto scrive Amedeo Bertolo nella sua «controrecensione», rinuncio a pronunciarmi sull’opportunità o meno di un tono tanto aspro, sferzante ed in certi punti quasi sprezzante come quello che in questa occasione rivolge al Bonanno. Certo il tono e il linguaggio sono tali da far prefigurare una rottura definitiva, tale da rendere quanto mai improbabile una conciliazione e che evidenziano la volontà di privilegiare lo «scontro» ad ogni ipotesi di «confronto-incontro» delle rispettive posizioni, questo non può non dispiacermi, ma debbo pur riconoscere che se il Bertolo, di cui ho avuto modo di conoscere altri scritti, la prosa sempre equilibrata, meditata profondamente e serena, ha scelto di adottare questo tono e tale linguaggio vi è stato, come si suol dire, «tirato per i capelli» da una annosa polemica fatta di attacchi, finora quasi tutti unilaterali, condotti con tono astioso e con linguaggio abbastanza «fiorito» per quanto concerne gli insulti e le truculente verbali.
Quello che, invece, vorrei mi fosse concesso di dire al compagno Amedeo Bertolo è che non posso condividere il suo modo di considerare l’anarchismo di Emile Henry come «quel tipo di anarchismo da spiegarsi (o forse solo da esorcizzarsi) con un particolare contesto... »: questo modo di considerare gli atti individuali di rivolta, e tali furono gli attentati di Henry, mi appare riduttivo e parzialmente sbagliato.
Certo Emile Henry fu, come ogni uomo, un «figlio del suo tempo», il suo modo di pensare e le conseguenze operative che ne discesero, sono stati influenzati o in parte determinati, dalla realtà sociale in cui era immerso, dalla «cultura del suo tempo», dal tipo, storicamente determinato, di oppressione e di repressione con le quali si è trovato a cozzare e contro le quali ha voluto lottare, ma, il gesto di Henry non si inquadra nel contesto di una scelta «strategica» di un «movimento» o di un «partito», è la conseguenza di una decisione individuale, un atto «unico ed irripetibile» come lo è ogni individuo. (Non sta a me, protagonista contemporaneo di un atto altrettanto tragico e grave, dare dei giudizi di merito, dire cioè se l’Henry abbia fatto «bene» o «male», per lui era giusto fare quello che ha fatto, per dirla con O. Wilde: «Il vizio supremo è la superficialità. Tutto ciò che viene vissuto fino in fondo è giusto»).
La rivolta violenta di Henry si inserisce, secondo me, nella storia eterna della rivolta umana e trascende, pertanto, i limiti della temporaneità storica in cui è stata vissuta. Per questo non credo possa venire etichettata come «ramo secco». Luis Mercier Vega scriveva, alla fine del suo libro pubblicato «postumo» in Italia corredato da una brillante ed interessante presentazione del Bertolo che: «Può darsi che il cammino del mondo, accelerato in campo economico da uno stato di guerra permanente, la concentrazione dei poteri ed una tecnologia riservata a pochi cervelli infrangano il sogno di una società operaia. Ciò che allora non si può scartare, come prospettiva evidente dei successi e delle realizzazioni scientifiche, è che le rivolte si facciano nichiliste».
Un altro punto su cui mi trovo in disaccordo col compagno Bertolo è quel suo accennare ad un «movimento anarchico maturo». Qui ci troviamo di fronte a due modi di concepire il «movimento anarchico» del tutto diversi. Per Amedeo Bertolo mi pare di poter capire che egli veda il movimento anarchico come un «tutto» omogeneo che si muove lungo una linea univoca ed attraverso diversificate comuni esperienze si sviluppa, progredisce e matura. Io, propendo, invece, per considerarlo come un insieme composito, sempre mutevole e mai definitivamente delimitabile, di individualità e di «gruppi di affinità» diversi, per indole, per esperienze esistenziali, per scelte operative, e che sono accomunati solo dalla negazione del «principio di autorità» nell’organizzazione sociale e dalla volontà di arrivare all’abolizione di tutte le costrizioni e le sofferenze che derivano dalle istituzioni fondate su questo «principio».
Il grado di maturità, quindi, del Movimento Anarchico nel suo complesso non può essere mai altro se non il risultato, ad un movimento dato, della somma addizionale del grado di maturità delle sue componenti. Paradossalmente, quanto maggiore viene ad essere, a livello di massa, la maturazione e la presa di coscienza individuale e le conseguente adesione all’ideale libertario, tanto meno «maturo viene a trovarsi ad essere, il livello qualitativo «collettivo» del movimento stesso.
Con ciò non voglio affatto dire (me ne guarderei bene perché sarebbe pazzesco), che quei compagni che hanno un grado di maturità maggiore debbano rinunciare a farne partecipi altri che questo grado non hanno raggiunto, e cercare anche di «immunizzare» dal pericolo di possibili scelte che considerano sbagliate. Credo proprio che nessun anarchico possa proporsi di «esorcizzare» la rivolta anche se può sconsigliarne o anche «condannare» certe forme. Personalmente ho salutato con piacere l’iniziativa editoriale che ha portato alla pubblicazione degli scritti di Emile Henry e delle sue dichiarazioni, ciò perché non ho mai potuto comprendere che da parte di anarchici si sia ricorsi all’espediente di far calare una cortina di silenzio su avvenimenti che, lo si voglia o meno, appartengono a pieno titolo alla storia dell’anarchismo.
Detto questo sarebbe giunto il momento di prendere in considerazione quella recensione di «Colpo su colpo» che ha dato origine all’articolo di Bertolo sulla rivista. Dico «sarebbe» perché credo che, a chiunque sia stato dato di leggere sia il volume della «Vulcano», sia la recensione apparsa su «Anarchismo» non possa non essere apparsa evidente la gratuità e la assoluta impossibilità della interpretazione di Emile Henry e del suo gesto che si è voluta dare.
Quella di voler far apparire l’Henry come un precursore di una specie di «soluzione finale del problema borghesia», o di una versione «libertaria» dell’eliminazione fisica dei «Kulaki» voluta dal fu Josef Vissirianovic, mi pare una «trovata» assai poco rispettosa per l’intelligenza dei lettori e soprattutto per la memoria stessa di Emile Henry. Si tratta, secondo me, di una tesi che è parsa all’autore «originale» e che ha voluto perciò proporre, prendendo poi in considerazione di tutta la vicenda solo quel poco che può servire a puntellarla. Una riprova, poi, della superficialità con cui A.M. Bonanno, in altre circostanze tanto meticoloso ed accurato (e indubbiamente intelligente e preparato), si è accostato alla storia del gesto di Henry e dello stesso protagonista, ci viene dall’equivoco stesso in cui l’autore incorre quando accenna allo scritto di Malatesta sull’«En Dehors» (pubblicato nel 1892), come di un commento dello stesso al gesto di Henry, gesto attuato, invece quasi due anni dopo. https://www.raging-bull-casino.com
Una sola cosa vorrei poter dire al compagno Bonanno, anche se so che l’accoglierebbe con scherno, anche se so bene quanto disprezzo egli abbia riservato alla mia persona e come, forse, si sentirebbe offeso solo a sentirsi dare da me del «compagno» (per lui si sa sono uno «sporco provocatore fascista»), vorrei solo dirgli che quando un individuo decide, a torto o a ragione, di reagire con la violenza alla violenza istituzionalizzata e permanente del potere, deve essere pronto a pagare di persona; dire agli altri che è «bello» e «giusto», parlare di «cervelli che schizzano» e di «sangue che scorre», fino che tutto rimane «teoria» può anche gratificarci, ma quando poi passa dal pensiero all’azione, le cose non sono più così facili.
Non parlo tanto del rischio di morire o di quello dell’ergastolo, ma di qualcosa di molto più brutto, di quando davanti ai corpi straziati e alle terribili grida dei feriti, uno si domanda che cosa egli stesso è diventato. Certo questo uno non lo riconoscerà mai davanti ai giudici ed al potere che lo condannano e che sono ben peggiori di lui. Ma, con se stesso e di fronte a dei compagni questi dubbi, questa sofferenza, è inutile nasconderli. Sarebbe inutile continuare perché potrebbe apparire ipocrita retorica. Soprattutto non intendo rinnegare nulla né dichiararmi pentito, volevo solo dire che ribellarsi può essere giusto e lecito ma bisogna essere coscienti del prezzo che si deve pagare e essere disposti anche a questo.

* Pubblicato nel maggio 1979 sul n° 74 di «A rivista anarchica», pp. 31-32, questo scritto entra in argomento nel dibattito sulla violenza, centrato sulle tematiche dell’attentato individuale in seguito all’uscita del libro «Colpo su colpo» della Vulcano Editrice. L’intervento nella sua prima parte analizza il fenomeno degli atti individuali di rivolta e la vicenda specifica di Emile Henry, mentre nella conclusione Bertoli riesamina criticamente il suo gesto, mettendo in guardia contro i facili miti della violenza ed esprimendosi, per la prima volta pubblicamente, in merito alla propria vicenda.

** Si tratta evidentemente di una distrazione dell'autore, poiché Malatesta morì nel 1932 [N.d.F.].

Fonte: Gianfranco Bertoli, Il prezzo da pagare; in Attraversando l'arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986.