INTRODUZIONE

"... e nell'89 sono uscito per la prima licenza. Al momento il mio fine pena era il 2010 con ... diciamo nell'89 avevo 21 anni scontati circa e altri 21 da scontare. Ho avuto la mia prima licenza, la prima volta sono rientrato, ho avuto la seconda, la seconda sono rientrato, e le cose, diciamo così, si stavano mettendo a posto, avevo richiesto il lavoro, per l'articolo 21 ... non l'articolo 21, la semilibertà proprio queste cose qua. Però quando sono stato in licenza ho trovato dei compagni che erano in carcere con me all'epoca, durante il periodo delle lotte, e in questo periodo, quando ero fuori, erano in semilibertà - di giorno erano fuori, lavoravano, e la sera tornavano in carcere. E mi fecero un'impressione penosa, cioè pensai: "noi che abbiamo passato una vita a cercare di distruggere le carceri, di uscire dalle carceri, ora suoniamo il campanello per entrare". E ho avuto, come dire, questa crisi personale e ho deciso di non rientrare. Mi sembrava una contraddizione, dico: "vada come vada, questo, la scelta di essere io a diventare il mio carceriere, non la posso fare". E non sono rientrato..."

Horst Fantazzini, 1999

Una semplice idea evidentemente fuori moda

Le persone che partecipano a questo piccolo progetto - filiarmonici - si sono ritrovate intorno a una convinzione salda ed ostinata, a un'idea che ci appartiene senza ambiguità. Darne un'introduzione dovrebbe costare ben poca fatica.

Siamo contro ogni carcere, non possono bastare queste quattro parole?

Verosimilmente no, perché pare ci sia toccata un'epoca in cui il destino dei vocaboli è quello di venire continuamente plasmati, deformati e torti non per esemplificare i concetti che si hanno in testa, né per chiarire una proposta, un progetto che si ha in animo di realizzare, quanto per rendere privo di sostanza il termine che si sta usando, per anestetizzarne ogni contenuto.
Basti pensare alle tristi vicende della parola "libertà" e dei suoi derivati, utilizzati dal potere e dalle sue pasciute gracule per castrarne la valenza sovversiva, e sarà evidente come, per evitare incomprensioni, sia utile aggiungere qualche riga a quelle indispensabili sedici lettere -contro ogni galera - che sintetizzano un'idea che qualche decennio fa sembrò godere di una certa popolarità, ma oggi appare tristemente ma evidentemente fuori moda.


Tanto per cominciare, un mondo senza carceri

Noi desideriamo un mondo nel quale l'istituzione carcere - come traguardo e conferma della diffusa convinzione che sia nell'ordine naturale delle cose chiudere qualcuno in un luogo circoscritto per un determinato periodo di tempo o fino alla morte, sorvegliarlo, controllarlo, punirlo, rieducarlo, risocializzarlo, amministrarlo - venga eliminata, e vogliamo che ciò si realizzi il più presto possibile. Vogliamo che i primi passi, anzi, quelli alla nostra diretta portata, principino immediatamente.
In giro c'è molta gente, neppure troppa a dire il vero, che reclama migliori condizioni di carcerazione, un trattamento più umano per i detenuti, il rispetto dei diritti umani e civili, che denuncia i metodi brutali, la scarsa o nulla opera di reinserimento del detenuto nella società civile. Alcune di queste posizioni ci ispirano una certa simpatia e potremo volta per volta appoggiarne le richieste; altre - ad esempio quelle di chi ritiene che l'agire al di fuori della legge sia proprio di marginali e devianti da normalizzare e reintrodurre nel tessuto sociale e produttivo - le troviamo decisamente odiose e le contrasteremo senza posa per quanto ci sarà possibile: ma la cosa importante da dire subito, è che quello che noi desideriamo è un'altra cosa.
Desideriamo che non vi sia più alcun carcere, che non vi sia alcun detenuto e, altrettanto importante, nessuna guardia carceraria, direttore di penitenziario, rieducatore e così via. Siamo per la liberazione di ogni detenuto e la non carcerazione di chicchessia.
Vogliamo un mondo senza carceri.
Non siamo così ingenui da ignorare che la scomparsa delle carceri sarà conseguenza di rivolgimenti di portata epocale; non ci aspettiamo, insomma, che sia un referendum o qualche decreto ministeriale ad abolire il carcere. Possiamo parlare anche di questo - anzi, ne parleremo - ma non è il nostro interesse principale in questa sede. Qui, il nostro interesse è rendere chiaro che accettare l'esistenza di una sola persona rinchiusa in una cella, significa rassegnarsi alla certezza che quella stessa cella prima o poi veda qualcun@ di noi come involontari@ ospite. Trent'anni fa i posti nelle carceri italiane erano ventimila, i detenuti trentatremila: oggi i posti sono trentacinquemila e i detenuti cinquantacinquemila. Sono le carceri a ingoiare ingordamente carcerati. Negli Usa, in Russia, in Cina si viaggia a ritmi ancor più forsennati: il carcere e i suoi gadget divengono una merce-servizio di punta per le economie mondiali. E ci sono, infatti, paesi dove una parziale privatizzazione è già in corso, tanto la società si mostra bramosa di carcerare sempre più generosamente, sempre più rigorosamente, sempre più tecnologicamente.


In seconda battuta, l'inimicizia non implica deroghe

È quindi immediato comprendere come non riteniamo opportuno riconoscere alcuna differenza tra "prigionieri politici" e "detenuti comuni". Ciò non significa negare una spontanea affinità con persone che condividono le nostre mire a rivoltare come calzette le presenti modalità dell'umana convivenza, e che in conseguenza di tali aspirazioni si trovano ad essere oggetto delle attenzioni degli apparati repressivi; e men che meno ci fa dimenticare come, viceversa, altra gente transitata dietro le ignobili cancellate sia tuttavia nemica di quanto riteniamo attraente ed auspicabile. Mai invocheremo "libertà per i prigionieri politici", "fuori i compagni dalle galere / dentro i padroni e le camicie nere", sempre diremo "liberi tutti" e "fuoco alle carceri"; non per questo siamo disposti a fare confusione, neanche per un attimo, tra Nikos Maziotis e un ex SS, tra Sante Notarnicola o Giorgio Panizzari e qualche untuoso democristiano momentaneamente travolto dal delirio d'onnipotenza di un magistrato d'assalto: il fatto che non aspiriamo alla carcerazione dei secondi non ci rende per questo meno ostili al loro agire, e la nostra solidarietà personale andrà a chi condivide con noi non già una fede politica, ma l'odio per le catene.
Semplice, no?
No, non sempre le distinzioni sono così nette, e si sa che innumerevoli possono essere le sfumature e gradazioni tra gli amanti della libertà senza guinzagli di sorta e gli apologeti delle carceri del popolo e dei tribunali proletari. Tra chi vuole abbattere i muri e i portoni e chi, semplicemente, aspira a sostituire i galloni di "prigioniero politico" con le stellette da guardia, come è stato di tanti padri della Repubblica, da Valiani a Pertini. Si è capito da che parte stiamo, ma non abbiamo necessità di sovraccaricarci immediatamente di steccati e di distinguo. Scrivere, fare, vedere, capire, le selezioni si fanno poi da sé. Confidiamo che sia proprio la portata di questa nostra opera a renderla incompatibile con quelli, e non sono pochi, che si dicono contrari alla carcerazione degli amici, ma sono e saranno pronti a imprigionare gli avversari.


E dunque, come si fa senza? (Ma vorrete sapere mica tutto adesso?)

La consuetudine del ricorrere all'entità esterna e superiore che medi il conflitto, insomma il pensiero che debbano essere inevitabilmente le istituzioni a regolare le contese - di per sé - produce galera. L'accettazione dei cardini del pensiero istituzionale, i glaciali gemellini diritto e dovere, efficienti guardiani della nostra corteccia cerebrale - è già galera. "E se uno stupra una bambina?", "e se uno tortura le vecchiette?", "e se uno ruba gli ossi ai cani sciancati?", "e vorrete mica l'occhio per occhio?", "e volete fare come le ronde anticrimine dei razzisti?".
Siamo talmente disabituati ad assumerci la responsabilità delle nostre azioni, tanto è divenuta a noi estranea questa idea che nelle comunità non statali è (era/sarà) invece un'ovvia consuetudine, che ogni risposta in poche righe sarebbe insoddisfacente se non del tutto insulsa. Queste risposte possono venire validamente soltanto nella costruzione pratica della propria liberazione, e anzi sarà proprio il libero dibattere intorno a queste domande e a queste risposte il contenuto reale della libertà in processo cui noi miriamo. Concediamoci quindi un po' di curiosità, il discorso lo faremo, o lo farete venire fuori: se vorrete essere gentili e non farvi cogliere impreparati, premuratevi prima di ripassare l'antichissimo dialogo tra il cane sazio e il lupo affamato. La scelta del piatto pieno e un posto al caldo in cambio di un collare e annessa catena ci viene sbattuta in faccia tutti i giorni, e a molti è venuta a tedio già da un bel po' di tempo. 
Insomma, a metterla in breve, l'eliminazione delle galere non sarà uno spuntino da McDonald - per fortuna, osiamo aggiungere - ma piuttosto una "cena bellavita", qualcosa di cui necessariamente starà a noi inventare il menù, distinguere i complici, raccogliere i materiali, preparare le pietanze, definire luoghi e tempi. Il mondo senza carceri è qualcosa che dovremo costruire pezzo per pezzo con le mani. Ideologie e programmi fabbricati in serie, precongelati e premasticati, lungi dall'aiutarci, converrà siano fra i primi muri da gettare al suolo.


Colpevoli e innocenti, martiri e delinquenti

Oltre ad essere uno spazio contro il carcere, inteso come paradigma della moderna condizione ogni giorno meno umana, questo vuole essere anche uno strumento volto a esprimere, suscitare, consolidare solidarietà nei confronti di persone che sentiamo vicine e che, a causa della loro ricerca di libertà, scontano la vendetta delle istituzioni. In linea di massima un reato implica di per sé una messa in discussione della legittimità e del consenso dello Stato, ma ciò che alimenta, fuori di ogni controllo, il desiderio di vendetta delle istituzioni non è la semplice disobbedienza alla legge ma il mancato riconoscimento della sua autorità, o addirittura il rigetto irridente di quel consenso che il padrone pretende di estorcere sempre al suo servo. In questo caso il potere politico/giudiziario avverte l'irrefrenabile impulso di oltrepassare le proprie stesse regole.
I casi di uomini e donne non rassegnati che passano anni o la vita in galera, come esempi viventi dello strapotere della legge, a causa non dei loro reati (talvolta addirittura neppure commessi, in quanto prefabbricati o semplicemente inesistenti) ma della loro pervicace indisponibilità a riconoscere la legittimità dei propri giudici, sono innumerevoli - da Horst Fantazzini a Leonard Peltier a Silvia Baraldini. Per loro pensiamo sia più urgente e possibile fare qualcosa. Ciò perché anche il semplice atto di rivelare quelle parti del potere che il potere stesso vuole nascondere può costituire il classico granello di sabbia nell'ingranaggio - uno isolato scivola via, molti possono avere diversa sorte. Ma, a costo di diventare molesti, come non facciamo distinzioni sostanziali tra prigionieri politici e detenuti comuni, poiché ci parrebbe di operare una tetra classificazione della popolazione carceraria in martiri e delinquenti, men che meno ne faremo tra colpevoli e innocenti. Il progetto di liberazione che abbiamo nel nostro stomaco prima che nella nostra mente comporta necessariamente l'abolizione di queste categorie. Tutti i carcerati - secondo la felice definizione del movimento di lotta nei penitenziari della Spagna franchista - sono detenuti sociali, vale a dire detenuti a causa della società, di questa società.


Filiarmonici perché?

Fili perché questa che proponiamo è una rete, sia nel moderno senso che Internet ci propone fino e oltre la sazietà, sia in quello tradizionale dei movimenti sovversivi di tutti i tempi, di collegare fra loro nel mondo tutte le pratiche coerenti per la liberazione umana;
armonici, perché questa impresa appartiene modestamente ma pervicacemente a quella passione per l'edificazione di una controsocietà, dove non c'è carcere perché non c'è delitto e non c'è delitto perché tutti a proprio modo concorrono a dar forma a un mondo amoroso dove ogni passione, anche la più bizzarra e antisociale, trovi il proprio armonico compimento; 
fili armonici perché questo è il nome dei migliori seghetti flessibili per sbarre d'acciaio, dei più fidi e stimati complici di ogni "ragazzo d'evasione", quello che ciascuno di noi conviene sia - o diventi - anche se non è più per avventura un ragazzo, o non si trova momentaneamente dalla parte più scomoda delle sbarre che ci dividono dai nostri compagni e dalla libertà di tutti.


Per concludere, cioè per iniziare

Insieme con il carcere molte altre sono le cose che non vorremmo più nella nostra vita né in quella altrui: la legge, le istituzioni, gli eserciti, le forze dell'ordine, i manicomi, i collegi, le caserme, i tribunali, della gente che ci dice quello che dobbiamo fare in nome dei desideri supremi di un qualche dio, della volontà della maggioranza, del radioso futuro di un popolo più o meno eletto o di una frazione di questo.
Per iniziare questa strada, per riprenderla in un momento nel quale sembra che parlare e agire in questo senso sia un capriccio di una ristrettissima minoranza, proponiamo un punto di partenza, lontanissimo se non all'opposto di una proposta organizzativa: utilizzi ciascuno il materiale che troverà qui, ne diffonda di migliore, di ulteriore, di più efficace, appoggi in tutti i modi i propri amici e compagni in carcere, o ne ricerchi di nuovi, si adoperi per iniziative a sostegno delle rivendicazioni dei detenuti, singoli o gruppi, purché orientate nel senso della liberazione di tutti (tradotto: condoni sì, trattamenti differenziati mai), per iniziative di controinformazione, per progetti di liberazione operativa, per aiutare detenuti indigenti in quanto detenuti. Aiutate noi a farlo, se avete voglia, oppure fatelo per conto vostro e fatecelo sapere. Il sito web che proponiamo è la prima iniziativa di un tragitto che troverà il proprio senso a mano a mano che più persone, dentro e fuori le carceri, apporteranno il proprio "filo armonico": ogni energia, per quanto piccola sia, che vada nella direzione di un mondo senza galere non è sprecata, se non altro perché rende un po' più chiaro che per liberare noi stessi dobbiamo, semplicemente, liberare tutti.