I casi di Safya Husseini e Amina Lawal in Nigeria han fatto tornare l’attenzione sulla pena della lapidazione. Contrariamente all’opinione corrente, la lapidazione non è un rimasuglio del passato ma una pena in espansione, diffusa dagli integralisti.
Una pena antica
Nelle pietrose contrade mediorientali la lapidazione costituisce una forma di
linciaggio e di esecuzione sommaria di origini antiche. Sia la Bibbia, sia il
Corano riferiscono infatti vari episodi di lapidazione.
Nelle pietrose contrade mediorientali la lapidazione costituisce una forma di
linciaggio e di esecuzione sommaria di origini antiche. Sia la Bibbia, sia il
Corano riferiscono infatti vari episodi di lapidazione; in particolare per i
musulmani la lapidazione sarebbe prescritta da un Hadith, cioè un detto
attribuito al Profeta Muhamed (Hadith, volume 8, Libro 82, numero 810):
“Narra Jabir: un uomo della tribù di Aslam andò dal profeta e confessò di aver avuto una relazione sessuale illecita. Il profeta se ne andò e gli volse le spalle finché l’uomo non ebbe confessato il suo crimine quattro volte. Il profeta allora disse “sei forse pazzo?”, l’uomo rispose “no”. Il profeta allora chiese “sei sposato?”, l’uomo rispose “si”. Il profeta ordinò allora ai musulmani di lapidarlo a morte. Fu lapidato a Musalla. Quando le pietre lo colpirono egli fuggì, ma fu catturato e lapidato finché non morì. Il Profeta in seguito parlò bene di lui e gli tributò le preghiere al funerale”.
Al giorno d’oggi alcuni stati islamici prevedono nei propri codici penali o nella prassi la pena di morte tramite lapidazione per gli adulteri, come prescritto dall’interpretazione della legge islamica, la shari’a, dell’Imam Malik. Infatti per la tradizione musulmana gli atti sessuali non sono una questione privata, ma la misura dell’onore dell’intera società. L’adultero non commette un reato contro il coniuge, ma disonora l’intera società e per questo deve essere punito in pubblico nel modo più severo.
Secondo l’interpretazione più severa della shari’a le pietre per la lapidazione non dovrebbero essere tanto grosse da uccidere il condannato al primo o secondo colpo, né tanto piccole da non poter esser definite vere e proprie pietre. Gli uomini devono essere sepolti fino alla vita e le donne fino al petto; chi riesce a sfuggire da queste fosse, ha salva la vita. Per le donne chiaramente è più difficile sfuggire alla lapidazione, dato che la loro fossa è più profonda.
Una pena nuova
Molti governi fondamentalisti hanno introdotto la lapidazione; in altri paesi,
governi poco interessati a proteggere i diritti dei propri cittadini permettono
che “tribunali tradizionali” condannino alla lapidazione.
La lapidazione, lungi dall’essere un’usanza del passato è
in molti paesi - come ad esempio l’Iran o la Nigeria - una pena nuova,
introdotta dai governi fondamentalisti. In altri paesi - come ad esempio il
Bangladesh o il Pakistan - governi poco interessati a proteggere i diritti dei
propri cittadini permettono che “tribunali tradizionali” amministrino
la giustizia condannando a morte per lapidazione o con altre pene crudeli come
l’amputazione a la fustigazione.
Questa concomitanza di fatti - sopravvivenza di pene tradizionali e recupero ideologico da parte dei fondamentalisti - fa sì che il numero complessivo delle lapidazioni e le zone del mondo in cui è praticata questa pena siano in espansione.
Paesi in cui esiste la lapidazione
Dall'Afghanistan allo Yemen, la minaccia della lapidazione serve in genere a
intimidire le donne che cercano di affermare se stesse. E' stato comunque l'Iran
il primo paese in cui la lapidazione è tornata in auge con gli integralisti.
In Afghanistan durante il regime dei Talebani vi sono state molte lapidazioni
in pubblico. Prima della guerra in Afghanistan i governi si erano opposti a
pratiche quali la lapidazione, il taglio della mano e la flagellazione pubblica,
e si riteneva ormai che fossero eventi che accadevano raramente in qualche zona
rurale. Durante l’occupazione sovietica alcuni gruppi armati di Mujahedin
incoraggiarono l’applicazione sommaria di queste forme di punizione ritenute
“islamiche”. Nel 1993, ad esempio, a Sarobi, vicino a Jalalabad,
dopo 8 anni di assenza un comandante militare rientrò nel suo paese alla
testa della milizia Hezb-e Islami e trovò che la moglie si era risposata
credendolo morto; ordinò quindi ai suoi uomini di lapidare la donna in
pubblico. Sotto i Talebani vi fu un ulteriore aumento dell’uso di queste
pene. Ad esempio nel marzo del 1997 la radio talebana Voce della Shari’ia
informò che nella provincia di Laghman era stata lapidata un’adultera.
Si ha anche notizia di una variante della lapidazione per gli uomini ritenuti
colpevoli di 'sodomia': venivano sepolti sotto un muro fatto crollare sopra
di loro. Ad esempio nel 1998 a Kotal Morcha, a nord di Kandahar un carro armato
fu usato di fronte a migliaia di persone per far cadere un muro su tre uomini
accusati di sodomia.
(sull'omosessualità e la shari'a si vedano i documenti della International
Lesbian And Gay Association)
In Arabia Saudita non c’è un vero e proprio codice penale, né un sistema giudiziario regolamentato. Gli imputati non hanno diritto ad un avvocato e i processi sono segreti e si basano esclusivamente sulla confessione, spesso estorta sotto tortura. Gli imputati non vengono informati della condanna e non vi è possibilità di appello: nei casi capitali il loro dossier viene soltanto “riesaminato” dal Consiglio Giudiziario Supremo, i cui membri, nominati dal Re, sono ritenuti responsabili dell’applicazione della shari’a. La pena consuetudinaria per l’adulterio è la morte tramite lapidazione.
In Bangladesh, i tribunali del clero del villaggio, chiamati salish, emettono
una fatwa contro quelle persone - in genere donne - ritenute colpevoli di aver
violato il codice morale islamico. Tali condanne vanno dalla rasatura della
testa alla lapidazione, passando per la fustigazione. Ogni anno si hanno notizie
riguardo a decine di casi del genere. Va notato che ci sono anche ragioni economiche
dietro questi editti religiosi; infatti i membri del salish ricevono una donazione,
chiamata fatwabaz, ogni volta che emettono una fatwa. Inoltre, come evidenziato
dal Relatore speciale delle Nazioni Unite sull’intolleranza religiosa,
le fatwa costituiscono un chiaro tentativo di “rintuzzare ogni tentativo
di emancipazione delle donne”. In Bangladesh infatti sono stati i movimenti
femministi i primi a schierarsi contro questo sistema giudiziario parallelo,
senza regole, né leggi.
Nel 1993 Nurjahan Begum, di 21 anni, dopo essere stata abbandonata dal marito
aveva ottenuto il permesso di risposarsi dall'autorità religiosa del
suo villaggio. Nel gennaio del 1993 però, il salish la condannò
alla lapidazione insieme al nuovo marito, Motaleb, per aver consumato un matrimonio
“non islamico” e i genitori di lei alla pena di cinquanta frustate
per aver accettato il secondo matrimonio della figlia: l'annullamento del precedente
matrimonio non veniva considerato valido e Nurjahan veniva considerata un'adultera.
Venne sepolta fino al petto e lapidata a morte dagli abitanti del villaggio,
mentre il marito riuscì a sopravvivere alla lapidazione. Anche grazie
all’intervento di Amnesty International, un tribunale del Bangladesh condannò
9 uomini a sette anni per aver partecipato alla lapidazione di Nurjahan Begum.
Nonostante questa importante sentenza, i salish hanno continuato a emettere
condanne ed a farle eseguire. Nel gennaio del 2001, dopo che due nuovi giudici
erano stati nominati alla Corte Suprema del Bangladesh - Mohammad Gholam Rabbani
e Nazmun Ara Sultana, la prima donna a ricoprire un simile incarico -, la Corte
Suprema ha stabilito che gli editti emessi dal clero musulmano sono illegali
ed ha chiesto che il parlamento legiferi in modo da rendere l’emissione
di una fatwa un reato punibile dalla legge. Dopo un anno però non vi
erano ancora stati progressi riguardo a questa proposta.
Anche negli Emirati Arabi Uniti esiste la pena della lapidazione. Nel febbraio del 2000 Kartini bint Karim, cittadina indonesiana, fu condannata alla lapidazione per adulterio da una corte islamica nell'Emirato di Fujairah. In appello la condanna venne commutata in un anno di carcere e nella deportazione in Indonesia.
In Nigeria, con l’introduzione del diritto islamico negli stati del nord, è stata introdotta la pena della lapidazione, oltre che altre pene crudeli e disumane come il taglio degli arti e la fustigazione. Safya Husseini, nello stato di Sokoto, è stata la prima ad essere condannata alla lapidazione per adulterio. Dopo la mobilitazione internazionale, la condanna è stata ritirata in appello nel marzo scorso, e il governo federale ha dichiarato incostituzionale la Shari’ia. Le condanne alla lapidazione per adulterio però continuano. Amina Lawal Kurami, nello stato di Katsina, è stata condannata nel marzo 2002 e la sentenza è stata ribadita nell'agosto dello stesso anno. La Comunità di Sant’Egidio ha lanciato una petizione per salvare Amina, che può essere sottoscritta sul loro sito. Anche un uomo, Yunusa Rafin Chiyawa, è stato condannato per aver confessato di aver avuto rapporti sessuali con la moglie di un amico, Aisha Haruna. La donna ha detto di essere stata ipnotizzata e per questo è stata scagionata, l’uomo invece ha confessato in tribunale, dove la seduta è stata aggiornata per permettergli di pensare alle conseguenze della sua ammissione di colpa, ma l’uomo ha ribadito la sua confessione ed è stato condannato alla lapidazione alla fine di giugno del 2002.
In Somalia, a causa della guerra civile, le strutture giudiziarie sono collassate. I tribunali islamici nati a livello locale sembra abbiano spesso condannato a pene quali il taglio delle mani o dei piedi e anche alla lapidazione. Ad esempio nell’aprile del 2000 un tribunale islamico vicino a Merca nella regione Shebelle inferiore sembra abbia giudicato colpevole una donna per poligamia e l'abbia condannata a morte per lapidazione. L’esecuzione sarebbe stata sospesa perché la donna era incinta.
In Sudan il 17 gennaio del 2002 è giunta notizia di Abok Alfa Akok, una ragazza di 18 anni cristiana della tribù Dinka, condannata alla lapidazione per adulterio dalla da un tribunale islamico a Nyala, Darfur meridionale. La rete dei tribunali islamici locali era stata creata dal fondamentalista sudanese Hassan el Turabi; il loro controllo da parte del governo centrale è difficile. La sentenza è stata revocata dalla Corte suprema non appena la notizia era divenuta un fatto di pubblico dominio.
Nello Yemen, si ha notizia di un uomo "giustiziato" tramite lapidazione nel gennaio del 2000. L'esecuzione sarebbe durata oltre quattro ore prima che l'uomo morisse. Era stato ritenuto colpevole di aver violentato e ucciso la figlia.
In Pakistan la Legge sulla fornicazione (zina) rende punibile questo “reato”
con flagellazione pubblica o lapidazione. Vengono ritenute colpevoli di zina
anche le donne violentate che non riescono a provare di non essere state consenzienti,
e per farlo è necessaria la confessione dello stupratore o la testimonianza
di 4 musulmani di buona reputazione che siano stati testimoni oculari del fatto.
La testimonianza delle donne non è considerata valida. Nel 1987 Shahida
Parvin fu condannata alla lapidazione dopo che un tribunale aveva deciso che
la relazione con il suo secondo marito non era valida perché il primo
marito aveva negato di aver divorziato da lei. In appello però fu prosciolta.
Di recente (maggio 2002) Zafran Bibi è stata condannata a morte tramite
lapidazione per adulterio. Era rimasta incinta mentre il marito era in prigione.
L'avvocato ha fatto ricorso e il caso sarà esaminato dalla Corte di Appello.
Il marito infatti la difende e sostiene essere riuscito ad avere un incontro
clandestino con la donna mentre era in carcere. Se non verrà assolta,
Zafran Bibi sarà la prima donna ad essere lapidata legalmente in Pakistan.
Ci sono stati infatti alcuni casi di linciaggi tramite lapidazione da parte
di folle esaltate. Nel 1994 a Gujranwala un musulmano fu lapidato e bruciato
da una folla inferocita dopo che si era sparsa la voce che avesse bruciato alcune
pagine del Corano. Nel 1995 a Shab Qadar due appartenenti alla “setta”
musulmana degli Ahmadi sono stati attaccati da una folla inferocita e uno dei
due è stato lapidato. Decine di Ahmadi sono stati uccisi in modo simile.
In ogni caso il Pakistan, come anche la Libia, pur avendo adottato la shari’ia
con le sue pene più estreme, come la lapidazione e l’amputazione
degli arti, in realtà non le applica mai.
In Iran, l’articolo 83 del Codice Penale, chiamato legge dello Hodoud,
prevede la pena di 100 frustrate per coloro che, non essendo sposati, commettono
sesso fuori dal matrimonio; gli adulteri invece vengono puniti con la lapidazione.
Dalla rivoluzione islamica di Khomeini si ha notizia di almeno una sessantina
di casi di lapidazione, nella stragrande maggioranza dei casi di donne. Tali
notizie, raccolte da agenzie stampa e organizzazioni femministe, riguardano
prevalentemente casi accaduti in grandi città, mentre resta difficile
avere notizie dei casi di lapidazione accaduti in zone più remote. Tali
cifra quindi va presa come un flebile indizio di quanti casi possono essere
realmente accaduti.
Nonostante la legge islamica preveda che chi riesce a fuggire dalla lapidazione
debba essere graziato, sembra che questo non sempre accada, soprattutto se è
la donna a riuscire a fuggire. Il 10 agosto del 1994 nella città di Arak,
in Iran, una donna venne condannata alla lapidazione per adulterio. Il giudice
religioso aveva imposto che i figli e il marito fossero costretti ad assistere
alla lapidazione. Dalla fossa in cui era stata intrappolata, la donna chiese
al marito di portare via i figli, ma gli fu impedito. Mentre veniva lapidata,
nonostante le fossero stati cavati gli occhi, la donna riuscì a tirarsi
fuori dalla fossa e a scappare. Le guardie però la ricatturarono e le
spararono. Qualche anno prima a Qom, sempre in Iran, una donna era fuggita dalla
fossa, ma era stata catturata, risepolta e la lapidazione era quindi stata portata
a termine. Il giudice religioso responsabile di Qom, Mullah Karimi, disse al
giornale “Ressalat”, il 30 ottobre del 1989: “I decreti religiosi
prevedono che la donna sia lapidata sulla base di testimonianze. Anche se era
scappata nel bel mezzo dell’esecuzione, doveva quindi essere ricatturata
e lapidata a morte”. Nel 1997 fece notizia in tutto il mondo il caso di
Zoleykhah Kadkhoda: lapidata e dichiarata morta, si risvegliò all’obitorio,
fu portata all’ospedale e le sue condizioni migliorarono. Grazie alla
mobilitazione internazionale, fu graziata.
Secondo il Consiglio Nazionale della Resistenza, un’organizzazione che
raduna tutti gli oppositori al regime fondamentalista iraniano, la lapidazione
è indispensabile al clero islamico per terrorizzare la popolazione persiana.
Durante la preghiera del Venerdì, nel maggio del 1998 a Kermanshah, il
Mullah Zarandi ha detto a proposito della lapidazione: “Le forze di sicurezza
devono mostrarsi più presenti nella società. Per dare un esempio
agli altri, il sistema giudiziario dovrebbe prendere qualcuno che lo meriti,
portarlo in una pubblica piazza e tagliargli la mano Devono anche lapidare un
po’ di persone. In questo modo prometto che la società sarà
raddrizzata”. Eppure in Iran sembra che la gente non sopporti più
la brutalità dei tribunali e della polizia religiosa. Nell’agosto
del 2001, mentre era in corso una campagna di esecuzioni pubbliche tramite impiccagione,
la polizia nel Sud-ovest di Teheran ha dovuto lanciare gas lacrimogeni e caricare
una folla che aveva cercato di salvare un condannato e impedirne l’impiccagione,
lanciando sassi e bastoni alle forze dell’ordine e chiedendone la grazia.
Fra le vittime più recenti della lapidazione, ricordiamo Maryam Ayoubi,
30 anni, lapidata a morte, la mattina dell’11 luglio del 2001 perché
ritenuta colpevole di tradimento e assassinio del marito. Il mese prima, il
24 giugno, Robabeh era stata frustata 50 volte e quindi lapidata per adulterio.
Il suo amante era stato condannato a 100 colpi di frusta e all’impiccagione.
Questi casi di lapidazione, come almeno altri sette di cui si ha notizia, sono
avvenuti sotto la presidenza del “riformista” Khatami, a dimostrazione
di quanto l’applicazione della legge sia ancora prerogativa del clero
islamico fondamentalista. Khatami ha nominato sua vicepresidente una donna,
Massoumeh Ebtekar. Quando le è stato chiesto cosa ne pensava della lapidazione,
ha cercato di non rispondere e ha poi detto che in linea generale è necessaria,
ma che avviene soltanto in zone remote del paese.
Durante il regime del "riformista" Khatami si ha notizia di circa
18 lapidazioni. L'ultima condanna sarebbe stata emessa a a febbraio del 2002.
Ma il Corano la condanna
Ci sono però musulmani che sostengono che la lapidazione non sia affatto
una pena islamica, ma che anzi il Corano la condanni apertamente.
Ci sono però musulmani che sostengono che la lapidazione non sia affatto
una pena islamica, ma che anzi il Corano la condanni apertamente. Secondo Massoud
Rajavi, presidente del Consiglio nazionale della resistenza, un’organizzazione
dell’opposizione iraniana, il Corano stesso dice che i precetti vanno
divisi fra muhkamat, inderogabili, e mutashabehat, la cui applicazione deve
cambiare a seconda delle circostanze. Perfino alcuni appartenenti al clero musulmano
e al sistema giudiziario religioso si oppongono a simili punizioni crudeli.
Ad esempio l’Ayatollah Dr. Seyed Mohammad Bojnourdi, ex membro del Consiglio
Supremo della Magistratura in Iran, intervistato dal giornale iraniano “Morning
Daily” nell’agosto del 2001, ha affermato che simili punizioni crudeli
danno all’opinione pubblica internazionale un’immagine distorta
dell’Islam, non facendone vedere gli aspetti caritatevoli e misericordiosi:
“Se l’esecuzione della pena comporta un indebolimento dell’Islam
e provoca riluttanza verso la religione, soprattutto nei giovani, le modalità
di esecuzione devono essere riviste fino al punto di eliminare tali problemi.
Se certe punizioni come la fustigazione in pubblico provocano un indebolimento
dell’Islam e creano pessimismo in un gran numero di persone verso l’Islam,
tali pratiche devono essere abbandonate, perché la preservazione della
dignità e del prestigio dell’Islam è l’obiettivo primario
e tale dovere ha la priorità su altri obblighi. Un’altra pena dovrà
essere applicata in modo da non comportare tali pericoli”.
La condizione delle donne
Molte associazioni di donne sono nate nel mondo per combattere la lapidazione
e altre discriminazioni legate al diritto islamico.
Nonostante alcuni segnali di apertura, la situazione per le donne in Iran resta
molto difficile. La scrittrice e avvocata Mehrangiz Kar venne arrestata al suo
rientro in Iran dopo essere stata a Berlino per una conferenza nell’aprile
del 2000, dove aveva parlato dei diritti delle donne persiane. Fu condannata
a 4 anni di carcere per quanto aveva detto; fra le frasi per le quali era stata
condannata vi erano le seguenti: “La struttura legale iraniana opera in
vari modi completamente contro i diritti delle donne. Nelle questioni familiari,
la donna non ha diritti, sia come madre sia come sposa … A volte quando
mi chiedono di parlare di diritti delle donne, credetemi, mi sento profondamente
disgustata perché devo fornire una lunga lista di violazioni dei diritti
delle donne, per le quali non ho alcuna soluzione … Se in un paese metà
della popolazione è soggetta a violenza economica, fisica, emotiva e
personale dalle leggi del paese, e i diritti umani delle donne non sono una
questione nazionale, allora cos’è che è una questione nazionale?”
In Germania alcune donne iraniane hanno fondato un Comitato internazionale contro la lapidazione, con sede a Colonia. Anche la resistenza al regime degli Ayatollah si occupa della lapidazione e sul loro sito, vi sono notizie e perfino un filmato di alcune lapidazioni. Un’altra organizzazione femminile che si batte contro la lapidazione e le altre violenze e discriminazioni contro le donne nei paesi governati da leggi islamiche è Women Living Under Muslim Laws.