La detenzione femminile: caratteristiche e problemi
di Tamar Pitch

Mi è capitato recentemente di avere sotto mano fotografie delle carceri italiane dagli anni venti agli anni cinquanta. Le fotografie riguardano tutto l'universo penitenziario, maschile e femminile, adulti e minori (Di Lazzaro, Pavarini, in via di pubblicazione). Queste fotografie mi hanno suggerito alcune riflessioni che propongo qui come breve introduzione a questo capitolo.
Quanto è ricco - nella sua povertà e fissità - l'universo carcerario maschile rappresentato da queste foto (e non detto in quanto maschile, ma invece neutralmente scandito da lavoro, istruzione, vita religiosa... - e altresì articolato in adulti e minori); così piatto e indifferenziato è rappresentato quello femminile, dove adulte e minori si confondono, compiono gli stessi gesti, sono impegnate nelle stesse attività: e dove, soprattutto, ciò che emerge è il dato sessuale, attribuzione di senso onnicomprensiva che esclude, poiché iscritta nel registro dell'eccezione, l'analisi della differenza di sesso stessa. Scelte dei fotografi, dell'amministrazione carceraria, dei curatori della mostra o rappresentazione del "reale" - ovvero, in questo caso, delle differenze vere tra universo carcerario maschile e universo carcerario femminile? Come sempre, si tratta con ogni probabilità di tutte queste cose insieme. Le donne, cioè, viste, gestite, rappresentate dagli uomini.
Incertezza, ambivalenza di chi punisce e di chi rappresenta la punizione si rivelano nell'assenza di sbarre - così in evidenza nelle fotografie dei maschi -, nelle immagini concilianti, in quella confusione tra adulte e minori che in realtà rivela come le prime siano assimilate alle seconde: tutte, infatti, nel ruolo di figlie, anche le madri con i loro bambini, perché da "rieducare". Con l'amorosa fermezza delle suore, la loro guida appunto materna. Non ci sono qui donne cattive, donne adulte che abbiano scelto il crimine. Il contrasto è forte anche con le fotografie che ritraggono minori maschi, così più aspre, dure: queste propongono tanti Franti da correggere con le buone o le cattive, quelle (le fotografie delle donne) propongono bambine smarrite, donne cadute in errore ma emendabili con (relativa) dolcezza, l'esempio, i lavori domestici, anche l'istruzione. Né questa visione cambia nel tempo: colpisce la somiglianza delle immagini nei circa trent'anni considerati. Ciò che, al di là della staticità del carcere come tale, suggerisce una sostanziale permanenza, attraverso i regimi politici e i rivolgimenti sociali, di uno sguardo maschile che si rifiuta di cogliere segni di ribellione femminile, di autonomia di scelta, perfino attraverso la rappresentazione della repressione. Che, in queste foto, non appare mai nei suoi aspetti esteriori: come se la norma trasgredita dalle donne non fosse "pubblica" (giuridica, nemmeno sociale), tale da richiedere visibile, pubblica, sanzione; anzi, come se non si trattasse tanto di trasgressione, che implica conoscenza della norma e intenzione di violarla, ma, appunto, di errore. Le donne non è necessario punirle, e nemmeno correggerle, perché esse non violano le norme con intenzione: piuttosto, sbagliano, spinte da qualcun altro (il marito, l'amante), dalle circostanze avverse (l'amore dei figli, la miseria), dalla frustrazione delle loro più intime e fondanti caratteristiche (il desiderio di maternità, di casalinghità, di amore coniugale ecc.). Ciò è quello che il fotografo, beninteso, vuoI vedere - e ciò che, forse, l'amministrazione carceraria vuol dare a intendere. Perché le carceri femminili, case di rieducazione, istituti minorili sono un'altra cosa, ovviamente di gran lunga meno idilliaci, armoniosi, concilianti (la letteratura sulla detenzione femminile è ormai molto ampia, almeno in area anglosassone. Cfr. per es., Ward e Kassebaum, 1965; Giallombardo, 1966; Burkhart, 1976; Parca, 1973; Heidensohn, 1981; Carlen, 1983; Dobash, Dobash e Gutteridge, 1986; Faccioli, 1987; Morris e Wickinson, 1988; per le detenute politiche italiane durante il fascismo, Mariani, 1982). È vero tuttavia che le donne non sono viste come pericolose, che non è la sicurezza ciò che ispira in primo luogo le modalità di reclusione femminile, né la sua rappresentazione.
La criminalità, e così il carcere, sono domini maschili, ma mai esaminati come tali. Benché il non commettere delitti da parte delle donne sia talmente strano da richiedere analisi ad hoc - sia ciò che conferma la diversità femminile non dal maschile, ma dalla norma - il commettere delitti da parte degli uomini è bensì analizzato, ma a prescindere dalla variabile di sesso (cfr. a questo proposito, Greenwood, 1981).
Così le donne - come i minori e i pazzi - non sono punite, ma messe sotto tutela, in linea di principio accudite, rieducate: tra i primi esperimenti carcerari ispirati a quest'idea ci sono proprio gli istituti femminili, (1) dove si confondono e si gestiscono insieme donne che commettono reati e donne la cui deviazione da norme sociali relative a ciò che conviene alla "donna per bene" (trasgressioni sessuali, fughe da casa, abbandono dei figli ecc.) viene interpretata come sintomo di disagio, di disadattamento, di patologia (vedi. per esempio Groppi, 1983-84; Buttafuoco, 1985; Rafter, 1987; Guidi, 1992). Benevolenza e paternalismo coniugano tutela e arbitrio, legittimano l'intervento d'autorità su aree di problemi che tali non sono per gli uomini e su fette di popolazione due volte "deboli": per appartenenza sociale e per appartenenza di sesso. Sono certo poche le donne adulte che finiscono in carcere, poche in assoluto e poche percentualmente: ma molte di più sono le minorenni istituzionalizzate, e le adulte, fino agli anni cinquanta, in qualche modo messe sotto una tutela di tipo custodiale, a fin di bene (conventi, conservatori, case per "ragazze" madri, istituti per prostitute pentite). Ciò che continua una tradizione di massiccio internamento preventivo tipica dell'età moderna, e proseguita in varie forme per tutto l'Ottocento e, in Italia, anche in epoca post-unitaria (Graziosi, in via di pubblicazione), spesso per iniziativa dei genitori, dei tutori, o di altri adulti responsabili.
Non pericolose, ma eternamente pericolanti a causa della loro debolezza, una debolezza dell'intelligenza e della volontà: dunque in realtà potenzialmente pericolose per la stabilità della famiglia, il benessere di marito e figli, la buona riuscita sociale di questi ultimi, è attraverso una protezione repressiva, affidata innanzi tutto alle famiglie stesse (e, in primo luogo, ai loro membri maschi, padri, mariti, figli), poi alla medicina e alla psichiatria, in seguito a un moltiplicarsi di saperi sociopsicologici esperti (cfr. Chesler, 1972; Ehrenreich, English, 1978; Donzelot, 1981; Hutter, Williams, 1981; Pitch, 1987), rafforzata dai divieti e dagli ostacoli impliciti ed espliciti ad "attraversare il mondo" (Litton Fox, 1977), che si produce, si regola, si disciplina la normalità femminile - e se ne punisce, in modo raramente pubblicamente visibile, la trasgressione.
Il carcere è qui davvero residuale: ma si sente tuttavia la necessità di progettarlo e rappresentarlo come in continuità e contiguità con questi processi disciplinari cosiddetti soft. Evidentemente, prendere atto della necessità di repressione - dell'esistenza di una intelligenza e volontà femminili di trasgressione - fa più paura ancora, oppure è semplicemente, dal punto di vista maschile, molto più difficile che fare i conti con l'indisciplina minorile (maschile).
Anche i minori, come i pazzi, sono oggetto di una giustizia speciale, che si richiama alla cura e alla presa in carico piuttosto che alla punizione. Anche su di loro si sono esercitati (e si esercitano) benevolenza e arbitrio, tutela e messa in mora dei diritti soggettivi: anche loro maschi adulti mancati, eccezioni rispetto al soggetto di diritti, neutro apparentemente, in realtà storicamente costruito sulle esperienze e sugli interessi dei maschi adulti (bianchi, proprietari). Ciò che a loro difetta, come alle donne, è il pieno possesso di quelle capacità di coscienza e volontà che rendono un individuo realmente tale, e dunque titolare di diritti.
I minori maschi, tuttavia, la pienezza di queste capacità potranno conquistarla. Quanto ai matti, per loro non c'è proprio niente da fare. Le donne sono da un lato incurabili, perché uomini non potranno diventare mai, ma non sono pericolose, se adeguatamente controllate e "protette". A loro però si fatica a riconoscere la pienezza dei diritti, in ragione per l'appunto del fatto che non sono e non saranno mai uomini. Ciò che ha prodotto, fino ad oggi, un molto minore intervento repressivo penale sulle donne che non sugli uomini. Fatto certamente da non deprecare: non mi pare proprio il caso, in nome di un astratto riconoscimento di piena personalità giuridica (di uguaglianza con gli uomini), di rafforzare le misure penali nei confronti di donne, minori, pazzi (Pitch, 1989). Vale ricordare, comunque, che la punizione delle donne, nelle sue forme di violenza anche fisica, resta affidata più che, e oltre che, allo Stato, al singolo maschio (ricordo la legalità, fino a non molto tempo fa dell'uso - era infatti punito l'abuso - dei mezzi di correzione del marito nei confronti della propria moglie, così come dei genitori nei confronti dei figli; ma ancora di più la generale legittimità di ciò che ora comincia a venir considerato violenza domestica, e naturalmente lo stupro).
Il carcere femminile ha una storia che deve ancora venir ricostruita per i singoli paesi (per l'Italia, cfr. Faccioli, 1982; 1987; Ambroset, 1984; Graziosi, in via di pubblicazione). A partire dalle ragioni che conducono alla separazione tra uomini e donne nella reclusione: separazione che il femminismo anglosassone del secolo scorso, ad esempio, richiede in nome della difesa dalla brutalità, dai ricatti, dalle violenze cui la promiscuità conduceva e, soprattutto, in nome della differenza di sesso; e istanza fatta propria da movimenti femminili contigui e in parte ispirati al femminismo, movimenti in cui crociate morali - contro il vizio maschile, lo sfruttamento della prostituzione, per la social purity - e preoccupazioni assistenziali danno luogo a un attivismo femminile sociale e politico borghese che insieme si prende cura di e disciplina le donne di working class (Rafter, 1987; Walkowitz, 1987). Tra questi movimenti, quello appunto per la creazione di carceri solo per donne, gestiti e amministrati da altre donne (Freedman, 1981): in nome non solo della protezione dalla brutalità maschile, ma anche di una differenza femminile vista bensì come debolezza che necessita amore e tutela piuttosto che punizione, ma anche come maggiore disponibilità e propensione all'emenda per via di una maggiore sensibilità, una più forte spiritualità (qualità che raccomandano non solo un certo tipo di reclusione, ma anche che le custodi di questa reclusione siano altre donne, anch'esse per l'appunto dotate di sensibilità e spiritualità). (2) Gli esperimenti di reclusione soft, ispirata a modelli familiari e improntati a una sorta di maternage hanno breve durata (Rafter, 1987). Rimane tuttavia la separazione tra carcere maschile e carcere femminile: la quale viene adesso contestata, da molte femministe anglosassoni, perché lo scarso numero di donne in carcere fa sì che la loro condizione sia considerata di scarso interesse, rispetto a quella degli uomini, e dunque destinataria di pochissime risorse economiche e culturali.
Anche in Italia (Graziosi, in via di pubblicazione), già verso la fine degli anni trenta dell'Ottocento, i progetti di riforma del carcere seguono le linee della classificazione, della differenziazione, della separazione: delle donne dagli uomini, tra le donne di cattiva fama, le meretrici, e tutte le altre. La custodia delle donne deve essere affidata ad altre donne, per prevenire abusi sessuali da un lato, per agevolare il ravvedimento dall'altro: alcuni (Graziosi, in via di pubblicazione, cita Petitti di Roreto, che scrive nel 1840) raccomandano che le custodi siano suore, versate nella conoscenza dei "raggiri femminili", La direzione, tuttavia, resti in mani maschili, meglio adatte all'imposizione della disciplina, all'esercizio dell'autorità. Il carcere ripeta dunque la gerarchia della famiglia, il modello disciplinare familiare. Già presenti in Piemonte fin dal 1834, le suore entreranno definitivamente nel carcere femminile italiano con il regolamento penitenziario del 1862 (Graziosi, in via di pubblicazione) e vi resteranno fino a pochi anni fa, quasi a segnalare la contiguità tra la reclusione come pena e la reclusione come tutela e protezione, tipica dei conservatori, degli orfanotrofi, degli istituti per prostitute pentite. Lavori "domestici", attività legate ai ruoli femminili tradizionali, preghiera sono in quella come in questa gli strumenti dell'"emenda", Per le donne, il carcere conserva un "carattere di forzata espiazione morale e di rigenerazione attraverso la pena, anche quando una simile ideologia sarà completamente tramontata" (Graziosi, in via di pubblicazione).
Le riforme penitenziarie degli anni settanta e ottanta sconvolgono questo universo forse ancora di più, almeno nell'organizzazione, di quello maschile. Alle suore si sostituiscono le vigilatrici, in linea di principio reclusione femminile e reclusione maschile si avvicinano, la prima laicizzandosi, la seconda assumendo alcuni degli aspetti - le finalità della rieducazione così come dovrebbero essere perseguite dalle nuove figure di operatori penitenziari, educatori, assistenti sociali (molti dei quali, non a caso [cfr, Pitch, 1983] donne) - associati alla prima. Cambia altresì la popolazione detenuta: la quale continua naturalmente a venire selezionata tra le fasce economicamente e socialmente più deboli della popolazione generale (con l'eccezione dei e delle detenute per reati di terrorismo, eccezione significativa, perché ha segnato profondamente i mutamenti degli anni ottanta nell'organizzazione carceraria), ma che è per l'appunto cambiata con esse.
Nell'avvicinarsi dei due modelli di reclusione, quella femminile rischia paradossalmente di essere ancora meno visibile, i suoi problemi organizzativi e di gestione, oltre a quelli che essa suscita in generale, ancora più residuali, sussunti ancora più decisamente entro quelli della detenzione maschile.
Questa ricerca non fa confronti, come abbiamo già detto e ci capiterà di dire ancora: i confronti, il più delle volte, non riescono a sfuggire alla trappola di considerare il maschile come la norma, cui misurare il femminile. I confronti si possono, si devono forse, fare dopo, quando il femminile è stato ricostruito nei suoi propri termini. Le vite degli uomini e delle donne, nella nostra società, sono molto diverse. Non può che essere molto diverso l'impatto che la detenzione ha per gli uni e per le altre, il modo di viverla, le conseguenze. E poiché pena e reclusione sono istituzioni sociali esse non sono attraversate dalla differenza di genere meno che altre istituzioni, differenza tanto più significativa quanto più si produce e riproduce in un regime normativo egualitario.
Questa differenza la assumo, è ciò che motiva, per me, questa ricerca: non la dimostro, per dimostrarla bisognerebbe confrontarla con una ricerca sulla detenzione maschile che assumesse a sua volta la differenza di genere come significativa.
Nell'assumerla, si è intanto nella condizione di cogliere, di contro al grigio in cui le fotografie da cui sono partita relegano le detenute, un universo ricco di differenze, che la detenzione non cancella, anzi spesso rafforza. Non c'è la "detenuta", ci sono le detenute. Non sono tuttavia le loro storie che qui si raccontano, bensì i loro percorsi istituzionali, così come si disegnano nell'intreccio tra di esse (le storie), le norme che regolano la detenzione, i modi come le norme vengono implementate. Questi percorsi istituzionali ci possono non solo condurre a una riflessione su come si declina la detenzione per le donne (qualità e quantità delle risorse loro destinate, criteri della distribuzione di queste risorse ecc.), ma fornire indizi per una riflessione sulla pena detentiva, in primo luogo per le donne, e poi, a partire da loro, anche per gli uomini.

Bibliografia:

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Burkhart K., Women in Prison, Popular Library, New York, 1976
Buttafuoco A., Le mariuccine. Storia di un'istituzione laica, Angeli, Milano 1985.
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P. Chesler, Le donne e la pazzia, Einaudi, Torino 1972.
Dobash R., Dobash R., S.Gutteridge, The Imprisonment of Women, Basil Blackwell, Oxford 1986.
Donzelot J., La police de familles, Editions de Minuit, Paris 1977.
Ehrenreich B., English D., For Her Own Good. 150 Years of the Experts' Advice to Women, Anchor, New York 1978.
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Freedman E., Their Sisters' Keepers. Women's Prison reform in America 1830-1930; The University of Michigan Press, Ann Arbor 1981.
Giallombardo R., Society of Women, Wiley, New York 1966.
Greenwood V., The Myth of Female Crime, pp. 73-84 in A. Morris (a cura di), "Women and Crime., Cropwood Conference Papers n.13, 1981, University of Cambridge, Institute of Criminology.
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Guidi L., L'onore in pericolo, Liguori, Napoli 1991 .
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Hutter B., Williams G. (a cura di), Controlling Women. The Normal and the Deviant, Croom Helm, London 1981.
Litton Fox G., "Nice GirI": Social Control of Women Through a Value Construct, in "Signs", II, 4, 1977 pp. 805-817.
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Rafter N., Giustizia di parte. Un caso di controllo sociale agito da donne su altre donne, pp.195-218, in T. Pitch (a cura di), Diritto e Rovescio, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1987.
Walkowitz I.R., Vizi maschili e virtù femministe. Il femminismo e la politica nei confronti della prostituzione nella Gran Bretagna del XIX secolo, in T. Pitch (a cura di), Diritto e rovescio, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1987, pp.143-168.
Ward D., Kassebaum G.G., Women's prison, Aldine, Chicago 1965. Weil S., Quaderni, Adelphi, Milano 1982.


Fonte: Donne in carcere, ricerca sulla detenzione femminile in Italia; Enzo Campelli, Franca Faccioli, Valeria Giordano, Tamar Pitch; Feltrinelli; 1992

Note:

(1) Si può anzi dire che donne e minori costituiscono gli oggetti di sperimentazione di modelli penitenziari poi estesi agli uomini, cfr. Gibson, 1976.
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(2) Le ricerche mostrano l'intreccio inestricabile tra produzione di assistenza e produzione di norme e di disciplina. Le donne oggetto dell'assistenza appartengono a classi sociali inferiori rispetto alle riformatrici, spesso a culture diverse. Ciò che le riformatrici considerano disagio, trasgressione, incuria, ignoranza. è spesso adesione a norme diverse, che magari permettono un esercizio più libero della sessualità, non stigmatizzano certi livelli di promiscuità domestica, particolari modalità di interazione con i figli ecc.
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