Graffiti e disegni
dei prigionieri dell'Inquisizione

Carceri dei Penitenziari di Palermo
di Giuseppe Pitrè (1940)

Prima cella
[...]

E vengo all'ultima parte di questa prima cella: le poesie.
     Una buona dozzina sono i componimenti in versi siciliani, dovuti tutti ad un autore, che io chiamerei il poeta di questa cella.
     Una ne è la grafia, come di penna d'oca, uno lo stile, una la intonazione, malinconica, piangente i tristi giorni di chi li compose e trascrisse: «sunt lacrymae rerum», che non vogliono confondersi con i piagnistei degli ammanierati geremia del Seicento, i quali sbadigliavano in canzoni amori ed affanni non provati.
     Sono lacrime di un cuore inconsolabile al pensiero di esser chiuso in una tetra prigione.
     Ad ogni ottava appone sotto, a mo' di firma, una suggestiva qualificazione dell'abbandono in cui si trova per colpa dei parenti e degli amici o del tribunale. Qui si firma «L'abbandunatu», lì «L'infelici», altrove «Lu diminticatu» o «Lu scurdatu». Oh sì, egli dev'essere un grande infelice se con tanta persistenza lo ripete, e quasi lo rinfaccia, pure persuaso che nessuno potrà sentirlo ed aiutarlo. Solo, dopo più di due secoli, la sua voce giunge a noi, voce d'oltre tomba, che riempie l'anima di profonda mestizia.
     Sentiamolo questo poeta. La sua Musa non ha slanci, ma è ispirata. Che importa che alcune delle sue canzoni non sono più leggibili? Che altre lo siano in parte, e parecchie per parole! Una parola fa indovinare un verso, un verso un distico, un distico tutta un'ottava: che è la siciliana classica, a due rime alterne.
     Sentiamolo:

Et haju sensu assai e ancora sentu!
Nu sugnu foddi a la dogghia eccessiva!
Et a li guai chi patu ogni mumentu
La mia dogghia murtali ancora è viva!
Ahi chi furtuna ferma a lu miu stentu
Pirchì la dogghia sia chiù sinsitiva:
E benché sia eternu lu turmentu
Nédi sensu né di anima mi priva.

L'abbandunatu

 
Nun ci nd'è nu scuntenti comu mia:
Mortu, e nun pozzu la vita finiri.
Fortuna cridi ch'immortali io sia;
Chi si murissi nun duvria patiri,
Pirchì cu la mia morti cissiria
La dogghia e l'infiniti mei martiri.
Per fari eterna la mimoria mia
Nta tanti stenti nun mi fa muriri.

L'infelici

 



Fonte: Giuseppe Pitrè documentò alcuni graffiti e disegni dei prigionieri dell'Inquisizione nelle carceri dei penitenziari di Palermo nel 1906 durante dei lavori nel Palazzo Chiaramonte per poi pubblicare a Roma nel 1940 il volume "Del Santo Uffizio a Palermo e di un carcere di esso" da cui è tratto il testo sopra; le foto furono fatte scattare alla fine del 1964 da Leonardo Sciascia insieme a quelle di altre testimonianze che non erano state scoperte da Pitrè e sono pubblicate con una nota introduttiva di Sciascia sul libro "Graffiti e disegni dei prigionieri dell'Inquisizione", Sellerio editore Palermo, 1977.