Zona rossa e massima sicurezza
Tratto da: "Massima Sicurezza - Dal carcere speciale allo stato penale"
Salvatore Verde
Odradek ed. 2002

Il 30 novembre del 1999 a Seattle il centro congressi dove si svolge la riunione dell'Organizzazione Mondiale del Commercio viene assediato da una serie di manifestazioni che occupano le strade e la scena mediatica con grande fragore. Catene umane, azioni dirette, blocchi stradali, caroselli e teatri di guerra, disobbedienze e non violenze impediscono il normale svolgersi dei lavori del vertice. La celebrazione della potenza dell'impero naufraga clamorosamente di fronte all'insubordinazione di un popolo che si pensava ridotto a massa di consumatori di immagini. Nonostante un apparato di sicurezza poderoso, le forze "armate" presenti su quel campo non riescono a fermare quell'inattesa "irruzione nel quotidiano della potenza controeffettuale di azioni radicali" (71). Una jacquerie che non devasta, non violenta, non distrugge, ma, fatto ancor più dirompente per il potere nella società del controllo, impedisce e svela; la rivolta mostra tutta la violenza del potere, le sue pratiche del dominio e dell'esclusione, i brutali esercizi dei suoi apparati della repressione, le infinite miserie e subordinazioni che distribuisce per il mondo. La conviviale adunata delle aristocrazie dell'impero che concertano, discorrono e governano e che, al contempo, mettono in onda immagini di potenza e pacificazione, scompostamente si ritira da un set che ormai non riesce più a controllare; e la macchina mediatica, chiamata a fare spazio nei suoi palinsesti alle rappresentazioni di immagini rassicuranti del potere, amplifica e moltiplica quelle sequenze di panico e disordine.
Con la messa in gioco dei corpi e dei loro movimenti nello spazio, quella moltitudine immette nella cittadella blindata che accoglie i "potenti della terra" la forza concreta e tangibile di un conflitto che disattiva i dispositivi della demarcazione dello spazio, rivelando la presenza "materiale e visibile della delimitazione" (72). Il re è nudo.
Dov'è Echelon? Dov'è la discreta e pervasiva macchina della sorveglianza generalizzata? Dov'è quel potere che evita di mostrare i muscoli e le sue braccia armate, che cerca di sedurre e anestetizzare, di orientare e dissuadere? La profonda ferita narcisistica che Seattle incide nel corpo vivo della "società aperta" fa precipitare nel panico i registi dei successivi appuntamenti delle centrali del governo mondiale. Il 20 aprile 2001 a Quebec City viene eretta una grande muraglia di 5 Km, per cingere il recinto che ospita il terzo summit delle Americhe chiamato a decidere sulla nascita dell'Alca, il mercato unico del continente americano. Truppe in assetto antisommossa, idranti, lacrimogeni, manganelli, filo spinato, chiusura delle frontiere e blocchi stradali, fermi e arresti, elicotteri, automezzi blindati e barriere antisfondamento, fortificazioni e trincee, corpi speciali e speciali strutture detentive; ed ancora, cariche ai cortei, massacri in caserme lager e pallottole. Pallottole contro pietre: l'intifada diviene il paradigma di gestione dell'ordine pubblico nelle strade dell'occidente. Il simulacro dello Stato nazione (73) celebra la sua agonia nella militarizzazione di uno scontro sociale che già invoca l'intervento di polizie e apparati sovranazionali. Le piazze in subbuglio attaccano la nuova Bastiglia e l'archeologia della repressione riporta nelle strade i suoi più antichi armamentari. La pallottola che ti uccide non la senti, recita una figura mitica dell'epopea hollywoodiana della grande conquista. Ma la pallottola che ha ucciso Carlo Giuliani a Genova, il 20 luglio del 2001, era nell'aria già da qualche mese.
Nell'arcuata parabola che disegna la breve storia della contestazione ai vertici degli organismi sovranazionali, la riunione del G8 svoltasi a Genova tra il 19 e il 21 luglio 2001 costituisce, senza ombra di dubbio, il momento più alto della militarizzazione del conflitto sociale interno a questa parte del mondo nel tempo attuale e, contemporaneamente, il suo punto catastrofico.
La Zona Rossa è quella parte della città che viene murata per accogliere i vertici internazionali (74). Essa rappresenta, in forma paradigmatica, un modello di sicurezza urbana, dove il potere misura la sua capacità di continuare a sezionare, controllare e proteggere il territorio. La difesa estrema dello spazio segregato è un imperativo che oltrepassa la contingente coloratura politica dello Stato nazione: nella repressione del dissenso, il governo di centrosinistra non si è affatto distinto dalla maggioranza neofascista di Berlusconi (75), così com'è nella socialdemocratica Goteborg che si è udito il primo sibilo di pallottole (76).
La Zona Rossa è un prototipo di metropoli, un modello ideale di sviluppo della città. "La città contemporanea simula o si allucina almeno in due sensi decisivi. Primo: nell'era della cultura elettronica e dell'economia, la città si riduplica attraverso il complesso dell'architettura della sua informazione e delle reti dei media… In questo modo, il cyberspazio urbano, come a simulazione dell'ordine dell'informazione cittadina, sarà vissuto come sempre più segregato e privo di un vero spazio pubblico a differenza della città tradizionale… Secondo: l'immaginario sociale si sta sempre più incorporando in panorami simulacrali, come parchi a tema, quartieri storici e ipermercati, che sono tagliati fuori dal resto della città" (77). Le barriere materiali e virtuali che la segnano indicano un territorio altro, sottratto all'ordinario, dove impera l'urgenza della sicurezza assoluta, della inviolabilità estrema, della tutela dell'ordine a tutti i costi. È un recinto che definisce tutto il resto del pianeta come non luogo. Qui le pratiche dell'esclusione assumono le sembianze, i linguaggi e le prassi della guerra. Nel tempo che segna la sua effimera esistenza non si è esitato a sospendere ogni forma di legalità, consegnando un mandato repressivo pieno ed incondizionato agli apparati della sicurezza ed alle polizie.
Non importa che sia a Praga o a Nizza, a Napoli o a Goteborg, a Davos o a Genova; la zona rossa indica la delimitazione di un campo della grande metropoli mondiale, una demarcazione che segna, sul piano materiale, un'esclusione temporanea, transitoria, un vuoto a perdere destinato a decomporsi in breve tempo; insomma, uno stato d'eccezione. E nello stato d'eccezione regnano sovrani gli apparati della sicurezza: eserciti, polizie, servizi segreti, intelligence, corpi speciali. Nello stato d'emergenza le polizie si autonomizzano dal comando politico, come gli eserciti sul campo di battaglia dopo la dichiarazione di guerra.
Qui non si tratta delle tradizionali trame occulte, degli stragismi e delle "deviazioni dei servizi segreti" di cui la storia della nostra repubblica è piena. Nella guerra sicuritaria che si sta combattendo da anni nelle nostre città in preda al panico ed all'insicurezza le ideologie della tolleranza zero hanno costruito intorno alle polizie un vasto consenso sociale, che, oltre ad accrescere la loro forza e capacità d'impatto, ha progressivamente ampliato la loro sfera di autonomia di azione; la spinta alla sovranazionalizzazione della lotta alle droghe ed alle migrazioni, poi, ha ulteriormente consolidato questa tendenza, costruendo non solo basi organizzative che ormai oltrepassano i valichi delle frontiere, ma anche culture ed immaginari operativi refrattari all'osservanza di confini e "giurisdizioni". Nella preparazione del vertice di Genova, sia nella definizione dei piani della sicurezza sia nell'addestramento delle truppe e nel loro coordinamento operativo sul campo, abbiamo assistito all'azione di servizi, eserciti e polizie di più Stati, per nulla disturbati dagli obsoleti vincoli di sovranità nazionale ancora depositati nella nostra carta costituzionale (78).
Nello stato di emergenza permanente, tipico del modello di ordine sociale liberista, gli apparati di polizia si duplicano attraverso processi di specializzazione, che costruiscono unità operative dotate di statuti straordinari. Ogni corpo di polizia ha il suo, o i suoi, reparti speciali, prodotti dalle varie emergenze che hanno attraversato questo paese negli ultimi trent'anni e tutti figli di quella straordinaria stagione di eccezionalità che fu la lotta alle formazioni politiche armate negli anni settanta. I dispositivi emergenziali che in quella fase produssero i reparti dell'antiterrorismo del generale Dalla Chiesa e il modello operativo del pool per la magistratura inquirente hanno generato, nei decenni seguenti, i vari Ros, Scico, Reparti operativi mobili, Gom, Dda, Dia, che oggi costituiscono un sistema repressivo fortemente complesso, all'interno del quale agiscono, oltre a sofisticate capacità operative, anche preoccupanti umori autoritari, incentivati dalla forte matrice militarista dei modelli organizzativi adottati.
Alla tradizionale rivalità tra le diverse polizie si somma anche lo scontro di potere e lo spirito competitivo dei vari corpi speciali, che ha trovato sul campo di battaglia di Genova uno straordinario scenario dove contendersi la supremazia ed il primato nell'esercizio dell'ordine pubblico, mostrando, sotto gli sguardi attenti dei governanti della metropoli mondiale, l'adeguatezza della propria capacità di violenza.
La repressione del dissenso politico si è rivelata, ancora una volta, la madre di tutte le emergenze, e su questo campo, su quella scena tragica e catastrofica, sapientemente costruita dalla propaganda intorno all'evento di Genova, abbiamo assistito all'enorme potenza distruttrice che le macchine della repressione sono oggi capaci di agire ed, inoltre, al potere di condizionamento che esse possono esercitare sui meccanismi di formazione della decisione politica. La centralità che il potere poliziesco ha conquistato nell'immaginario della metropoli è tale che anche le guerre moderne, per legittimarsi, amano oggi definirsi operazioni di polizia internazionale.
Ma la zona rossa è anche una potente metafora rovesciata del carcere. In essa la barriera impedisce l'entrata, più che scongiurare l'uscita; costituisce il resto dello spazio sociale come esclusione, più che recludere l'indesiderato; ama esibire l'interno del suo recinto per meglio nascondere ciò che resta fuori. Il carcere è qui il territorio aperto, il non luogo senza demarcazione, ciò che resta della metropoli dopo la delimitazione, il mare da cui vengono le navi dei profughi che naufragano sui nostri confini. A Genova la zona rossa ha preteso, a sua protezione, un altro intermezzo spaziale (79), una fascia di protezione dove si sono attestate polizie e barricamenti, trincee e armamenti; insomma, un campo di battaglia, e, nel mezzo di questo campo, ha fatto la sua comparsa il carcere. In questa logica di guerra il muro di cinta si è esteso al territorio urbano delimitato ed ha inglobato la prigione, che, esaltata da questa doppia recinzione, ha riscoperto la sua più antica vocazione alla barbarie.
Bolzaneto e Forte S. Giuliano sono due caserme, rispettivamente della Polizia di Stato e dei Carabinieri, trasformate dai piani di sicurezza predisposti per il vertice in strutture detentive temporanee per ospitare le centinaia di arrestati che si prevedevano in quelle giornate (80). Per questi campi sono passati la gran parte delle persone fermate durante le giornate di scontri, senza alcuna possibilità di colloquiare con gli avvocati, di telefonare ai familiari, di avere alcun contatto con l'esterno; insomma, un vero e proprio campo di prigionia (81).
Dalla memoria profonda del nostro sistema repressivo emerge il carcere speciale, con la sua impermeabilità assoluta, le sue pratiche di annientamento, la sua vocazione all'illegalità. Questo nuovo improvvisato carcere speciale non nasce all'Asinara, a Nuoro, a Palmi, in luoghi isolati, distanti, irraggiungibili, ma nel cuore della città, perché oggi nulla nasconde meglio della trama della metropoli. I suoi prigionieri stavolta non sono i militanti delle Brigate Rosse o di Prima Linea, dell'Autonomia o del Partito Comunista Combattente: il modello detentivo della massima deterrenza raggiunge i partecipanti ad una manifestazione di piazza, gli attivisti della galassia pacifista, i volontari delle organizzazioni cattoliche, i militanti dei centri sociali, gli ambientalisti, i lavoratori del sindacalismo di base, semplici cittadini. E le immagini ed i racconti che provengono da quei territori sono le stesse che negli anni dell'emergenza familiari e compagni dei detenuti politici cercavano con fatica di mostrare all'opinione pubblica di questo paese.
Polizia di Stato e Carabinieri chiedono ed ottengono ognuno un proprio sistema detentivo dove poter gestire i loro prigionieri, così come il generale Dalla Chiesa ottenne nel 1977 un proprio circuito carcerario dove concentrare i detenuti politici. In queste due prigioni temporanee arrivano anche gli uomini del Gom, il reparto speciale della polizia penitenziaria nato formalmente per gestire l'area dei detenuti per reati associativi. Il sistema penitenziario italiano cede il brevetto del carcere duro, quello pensato e costruito per combattere le mafie, per aggredire stavolta un dissenso politico che sta riportando nelle strade dell'occidente immagini di un conflitto sociale che si pensava sepolto dalla storia. "Al di là delle banali demagogie della "tolleranza zero", al di là della tragica criminalizzazione dei non-cittadini e soprattutto al di là dei discorsi che pretendono di umanizzare le guerre contro le società dominate e la guerra sicuritaria contro i poveri, ormai in tutti i paesi dominanti sta avvenendo un processo di costruzione di un nuovo controllo sociale violento come strumento indispensabile del disciplinamento della società liberista" (82).
Gli apparati propongono il loro modello di soluzione autoritaria del conflitto sociale, convinti che quel nemico aggredito e rincorso per le strade di Genova sarebbe rimasto invisibile alla sensibilità democratica dell'occidente, come gli immigrati che sbarcano sulle nostre coste, come i tossici o i poveri che scompaiono nella prigione. "Ogni uso del filo spinato presenta un costo politico, tanto più elevato quanto più il simbolo è fortemente percepito e la sensibilità pubblica nei confronti della violenza politica o sociale è acuta. Sarà dunque utilizzato solo quando il costo politico non supererà i benefici che il potere ne può trarre" sostiene Razac (83). Dopo Genova, probabilmente, sarà difficile assistere ad un altro summit organizzato nel cuore delle metropoli dell'occidente, perché il costo politico di questa soluzione militare si è rivelato troppo pesante per le esigenze di legittimazione del potere e la "zona rossa" forse scomparirà dal vocabolario della politica e dell'informazione. Ma quel modello di governo del disordine e del conflitto è destinato ad occupare uno spazio sempre maggiore nel nostro panorama sociale. Sempre più diffuso e nascosto, come sono stati per lungo tempo il carcere di Sassari e la prigione per immigrati di via Corelli a Milano, luoghi destinati a raccogliere coloro ai quali non resta che lo spazio esterno della metropoli, "l'angolo morto della liberale inclusione democratica, il non-luogo in cui si produce il rovesciamento del "far vivere" biopolitico in un discreto "lasciar morire" sociale o reale e, perché no un giorno, in un "far morire" altrettanto discreto" (84).

Fonte: pubblicato sul sito http://www.noglobal.org

Note:
(71) B. CACCIA, Che cosa significa fare come a Seattle, in Posse, anno 1, n. 1, aprile 2000, p. 71.
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(72) O. RAZAC, Storia politica del filo spinato, Ombre corte, p. 90.
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(73) A. NEGRI, L'impero, stadio supremo dell'imperialismo, in Le monde diplomatique, gennaio 2001.
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(74) M. ZANARDI, La città murata, in Zona Rossa, cit.
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(75) "Sabato 17 marzo 2001, a Napoli, un corteo di 30.000 persone, giunto in piazza Municipio viene fermato a ridosso della Zona Rossa, l'area invalicabile che ospita il Global Forum. Oltre 7000 agenti schierati a presidio del nulla caricano, da ogni lato della piazza, i manifestanti. Ogni via di uscita è bloccata, i pestaggi sono feroci, indiscriminati, la violenza cieca fino all'ottusità; sotto lo sguardo compiaciuto del questore di Napoli, Izzo, celerini, finanzieri e carabinieri si esercitano nel gioco brutale della forza, in una gara di sadismo e cinismo. La violenza non finisce in piazza. I manifestanti feriti giunti ai presidi ospedalieri per farsi medicare sono condotti in caserma, ancora sanguinanti. Vengono fermati e identificati anche quelli che li accompagnano. Identificazioni e perquisizioni sono il pretesto per un'ulteriore violenza" (da Zona Rossa, cit.).
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(76) Il 15 giugno 2001 a Goteborg si tiene una riunione dei capi di stato e di governo dell'Unione Europea, ospite d'onore G. W. Bush. Durante la manifestazione la polizia svedese spara sui manifestanti. Le immagini televisive trasmettono la sequenza di un poliziotto che mira alla schiena di un ragazzo e fa fuoco. Trentasei i feriti ricoverati in ospedale, seicento gli arresti.
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(77) M. DAVIS, L'ecologia della paura, in Decoder, n. 9.
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(78) L. PEPINO, Genova e il G8: i fatti, le istituzioni, la giustizia, in corso di pubblicazione sul n. 5/2001 di Questione giustizia; vedi anche Genova- Era la polizia europea, in Il Manifesto 21-8-2001.
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(79) Il piano di sicurezza per il G8 di Genova ha previsto anche la delimitazione di una "zona gialla", una ulteriore fascia di territorio interdetta ai manifestanti, immediatamente a ridosso dell'area che ospitava il vertice, pensata come zona cuscinetto dove concentrare gli interventi sulla piazza da parte delle forze dell'ordine. È in questa zona che sono avvenuti gli attacchi ai diversi spezzoni del corteo e dove ha trovato la morte Carlo Giuliani.
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(80) G. MASCIA, Genova per noi, Documento di minoranza del Partito della Rifondazione Comunista……, cit.
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(81) "A fianco del problema dell'organizzazione degli uffici si è posto, per l'autorità giudiziaria, quello del raccordo e del coordinamento con altre amministrazioni coinvolte nell'evento: in particolare quella penitenziaria e quella di polizia. Già si è detto della dichiarazione ministeriale di "inagibilità" delle case circondariali di Genova e della decisione di concentrare gli arrestati, "per ragioni di sicurezza e di ordine pubblico", nella caserme di Forte S. Giuliano e di Bolzaneto (rispettivamente dei carabinieri e della polizia di Stato). In tali caserme sono stati istituiti appositi "uffici matricola" per la presa in carico degli arrestati da parte dell'amministrazione penitenziaria, in vista del successivo trasferimento nelle carceri di Alessandria e di Pavia (ed eventualmente di Voghera e Vercelli). La situazione logistica rendeva difficile attrezzare nelle caserme dei locali per i colloqui e così, su sollecitazione dell'amministrazione (e dietro assicurazione di un sollecito trasferimento dei detenuti in carcere), la Procura di Genova ha disposto il differimento dei colloqui tra arrestati e difensori con un singolare provvedimento in cui il divieto di comunicazione viene motivato con la necessità di evitare "preordinate e comuni tesi difensive di comodo circa le iniziative e movimenti dei manifestanti e delle forze dell'ordine" e limitato al periodo di permanenza in caserma (con conseguente venir meno all'atto del trasferimento in carcere o, in ogni caso, della messa a disposizione del giudice) . La motivazione anzidetta contiene una evidente contraddizione (il rischio di "tesi difensive di comodo", concordate con i difensori, viene meno - ove mai esista - non con il trasferimento in carcere ma, caso mai, con l'avvenuto interrogatorio…) che ne denuncia il carattere di mera copertura delle esigenze dell'amministrazione. Gli esiti (seppur imprevisti) sono stati devastanti, ché il passaggio nelle caserme è diventato un trattenimento prolungato accompagnato - secondo molte denunce - da violenze e vessazioni. E non sono mancate - né potevano mancare - contestazioni e polemiche …" (in L. PEPINO, op. cit.).
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(82) S. PALIDDA, Vecchi e nuovi tipi di violenza nell'ordine liberista, in Zona Rossa, cit.
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(83) O. RAZAC, op. cit., p. 84.
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(84) O. RAZAC, op. cit., p. 91.