Questo scritto è tratto da "Marea"n. 3/2001, rivista trimestrale di saperi delle donne. E' stato composto dopo i terribili giorni di Genova da Lidia Campagnano. Lo riportiamo integralmente perché ci sembra una adeguata sintesi dei sentimenti che ci stanno travolgendo in questi giorni di guerra non così lontana.
Vediamo una distanza tra i pensieri espressi e raccolti tra donne attorno al mondo globalizzato e il trauma dei giorni di luglio a Genova? Ciascuna, come si suol dire, parte da sé, e io la distanza la vedo. Temevo Genova, temevo una morte, temevo una violenza informe che lasciasse un segno, fratture incancellabili tra chi si stava movendo da tanto tempo contro la nuova barbarie del mondo unificato di flussi di capitali e armi. Non volevo che si andasse a Genova così, non sono andata a Genova.
Quello che è accaduto è andato oltre le mie previsioni, oltre e anche altrove.
Il mio dissenso di giugno non conta niente, spero sia chiaro: conferma forse solo il sentimento di una storia che rotola, anche sopra la mia testa, secondo movimenti non controllabili. Neppure da parte di chi detiene i maggiori poteri. Una storia che si va facendo da sé, nel bene e nel male, come si addice al Grande Libero Mercato. E' questo che, tra l'altro, mi rende distante dalle
interpretazioni politiche di sinistra "sui fatti di Genova": quel loro far discendere i fatti o dalla natura intrinseca del potere globalizzato, o dalla limpida volontà repressiva del governo italiano. E tra l'altro, non mi pare che tanto determinismo scientifico sia utile a elaborare, sanare, trasformare in qualcosa di vitale tutto il dolore che mi arriva, per vie private e per vie pubbliche, da chi a Genova è andato. Amiche, amici, volti conosciuti e sconosciuti. Tra i quali Carlo Giuliani, suo padre, e la madre alla quale continuo a pensare sperando che abbia luogo adeguato, suo, nel quale riprendere, un giorno, la parola.
L'elaborazione del dolore mi preme, va messa accanto, e intrecciata, a quell'altro lavoro tutto iperpolitico che identifica i risultati raggiunti tanto quanto le perdite (lavoro tradizionale che va fatto con coraggio). Non si può passar sopra infatti, com'è nella tradizione politica, al lutto, occultandolo con categorie del martirio e dell'eroismo. Né si può passar sopra all'esperienza di riduzione a cosa di chi è stato tormentato e umiliato, né alla paura di morire, occultati dalle affermazioni di potenza e di vittoria di poi. Mi preme, l'elaborazione del dolore, per due motivi. Il primo sta nella trama di sentimenti semplici, elementari e dunque così radicali, così controcorrente, che ho visto tessere dentro questo movimento: sentimenti che (ancora?) permettono la percezione dell'ingiustizia, della menzogna e della violenza che dominano il mondo senza più veli, quasi come agli esordi del capitalismo. Sentimenti che preludono già alla trasformazione del dolore in molla di coscienza e conoscenza.
Il capitalismo fa schifo, senza attenuanti, il fumo degli Anni Ottanta si è disperso.
Lo si vuole significare e simbolizzare. E qui radica il secondo motivo per l'elaborazione del dolore. Come significare e comunicare un sentire semplice, cioè fondamentale? Come renderlo comprensibile, così che prenda e offra a chiunque dignità e integrità umana?
Ho toccato con mano, in particolare nell'incontro di giugno fra donne, l'affanno di trovare "le modalità" di manifestare questo sentire. L'insistenza sulle "modalità pacifiche" non mi pareva solo dettata dalla paura, pur giustificatissima, che le modalità violente facessero perdere il controllo sul senso e sull'esito del manifestare. Mi è parso che si trattasse soprattutto di esplicitare una resistenza, un modo d'essere integralmente diverse, e diversi, dall'orrore dominante. Visibilmente diversi e diverse fin nel sentire elementare, appunto. E nel provare gioia in questo resistere ed essere.
Ma ce lo siamo detto: non è così facile trovare i simboli che ci esprimano, perché anche i simboli, o soprattutto i simboli, sono stati portati al mercato globale e ai mercatini collaterali. Un simbolo di gioia facilmente si converte,una volta messo in scena, in simbolo di eterna infanzia, per esempio un messaggio di sobrietà economica appare come un simbolo di pietismo neocoloniale, la colomba della pace mondiale è andata a bombardare Belgrado, un simbolo di storia femminile finisce per confermare la nostalgia di una femminilità senza storia. E per giunta, tutta questa ambiguità va a collocarsi paciosamente accanto alla simbolizzazione della rabbia e dell'indignazione e della disperazione, segnata dagli allenamenti più che consentiti tanto nella brutalità privata che nelle domeniche delle tifoserie o nelle bande di quartiere nelle metropoli americane o nordeuropee, tanto nella solitudine del gesto violento quanto nel fare "gruppo" con i suoi riti e i suoi travestimenti (straordinaria somiglianza tra le divise dei black block e quelle leggermente fuori ordinanza degli agenti dell'ordine pubblico).
Così è sembrato, nei racconti come nelle immagini trasmesse dalla televisione, che una punizione selvaggia, e davvero senza testa, si scatenasse sui corpi e sulle menti di una marea di persone tutte differenti tra loro, intente a praticare una libertà che non avevano, e a dibattersi nelle gabbie tutt'altro che metaforiche della città deformata. Uno spettacolo indecente, di fronte al quale sembra che una bella fetta di opinione (fatico a chiamarla pubblica, tanto è privata e inarticolata e analfabeta) stia cercando di abituarsi di acconsentire. Ma esiste un'altra opinione privata e pubblica alla quale raccordarsi?
Sì, se la si riconosce dall'umore, dall'indignazione. No se si cerca un giudizio politico adeguato. Per intenderci: chi afferma che in Italia è arrivato un regime fascista, invece di riconoscere che c'è del fascismo, attivo e organizzato e ringalluzzito, insieme all'incompetenza professionale, alla stupidità politica e all'imbarbarimento sociale e culturale di giovani uomini e donne in divisa per l'occasione, si toglie al movimento il suo carattere internazionale e interculturale in sviluppo per farne un caso italiano e per costringerlo in un futuro già visto, un passato come futuro insomma, oltretutto senza preoccuparsi del fatto che mancano, del passato, cose come partiti, sindacato, tradizioni organizzative, stili di appartenenza eccetera. Non mi pare un bel regalo questa reazione, soprattutto se viene, da parte della mia generazione.
Potrebbe andare in un altro modo, invece. Potrebbe darsi che chi tiene alle "modalità pacifiche" dell'espressione politica continui a scavare nel proprio desiderio di mettere in campo la resistenza di un'alterità umana, a partire dallo sgomento provato a Genova, dallo stupore. Potrebbe darsi che le nuove generazioni così visibili nel movimento contro l'orrore economico diventino molto brave, molto più dei loro genitori effettivi o simbolici, nel fare i conti con la violenza e le sue motivazioni, comprendendola più a fondo, nelle sue radici all'incrocio tra vicenda politica e vicenda personale, tra orrore economico e sentimentale planetario e arte di arrangiarsi personale, erodendola, trasformandola come si trasforma il dolore, contagiandola con il proprio stile, i propri progetti.
A ciascuno il suo: ricordando il lavoro collettivo praticato dentro il gruppo sull'ordine sentimentale della globalizzazione, il giugno scorso, sempre a Genova, si potrebbe dire che il tema era azzeccato e utile, e andrebbe sviluppato. Ma che ha avuto paura di guardarsi troppo attorno, nella città dove l'impianto delle palme nascondeva a malapena l'erezione delle sbarre. Ha avuto paura di parlare della pura più immediata, quella che si preparava per luglio, soltanto un mese dopo. Paura, o sfiducia, nelle capacità di ciascuna e di tutte di riconoscere indicazioni anche politiche immediate in quel tema, e capacità di previsione politica immediata in quel poco di produzione antropologica che si andava facendo. Non c'è da vergognarsi, in un'epoca nella quale nessun professionista della politica sa prevedere mai niente. Ma chi dice che non possa nascere e crescere un'altra intelligenza, più efficace e accorta perché più vasta e profonda?