Risposta di Paolo Ermano a Luciano Locci


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Caro Luciano,

rispondo al tuo intervento che ho trovato interessante e stimolante e che ho trasmesso in rete con questa mia risposta. Si tratta di brevi considerazioni che riguardano soprattutto un paio di punti su cui non concordo pienamente o interpreto in maniera differente. Penso che il senso del ripensare la maestra stia anche nel fatto di ridefinire il nostro essere in classe sempre come soggetti sessuati. Mi spiego meglio. Negli interventi delle colleghe ascoltati il 6 aprile, emergeva la complessità dell'essere insegnante che porta nella scuola un proprio sapere, ma anche il proprio vissuto, il proprio corpo, le proprie emozioni. Noi, (anzi forse ancora di più io nel triennio delle superiori), viviamo in un'istituzione che assegna, indipendentemente dall'età dei nostri allievi e delle nostre allieve, la prevalenza al sapere, i famosi o fumosi contenuti devono coprire la quasi totalità del nostro rapporto con le classi. Se c'è dell'altro è a discrezione dell'insegnante, della sua sensibilità, magari di padre o madre. In ogni caso è come se l'apprendimento scolastico seguisse una legge dell'inversamente proporzionale: nel corso degli anni emotività, passione, partecipazione affettiva vanno sostituite con conoscenza dei contenuti e sapere disciplinare (e tralascio il discorso sulle valutazioni che più si sale negli studi e più devono diventare oggettive!). Questo sarebbe dovuto anche al crescere di allievi ed allieve, più distaccati/e e critici/che verso il mondo adulto, e quindi meno disponibili agli affetti delle maestre. Penso che il processo sia stato e continui ad essere proprio quello di voler progressivamente escludere nel contesto scolastico la soggettività, nostra e delle classi, in nome di una cultura che, da professore, che si definisce soltanto con i contenuti della propria disciplina. Nel senso comune sono le materie che piacciono o meno, prima ancora del docente o della docente!
Ecco qui interviene il mio dissenso, credo che sia opportuno, riflettendo sull'esperienza delle maestre, ridefinirci come professori, che accanto al sapere, ripartono dal proprio corpo sessuato, dai propri desideri, dal proprio esporsi nei confronti della realtà. Mi pare, però, che dalle esperienze che descrivi tutto questo sia presente, il porre la tua soggettività nelle proposte di lettura, è il riconoscimento che la tua relazione con allievi ed allieve passa attraverso il vivere con passione, rabbia e gioia, fatica e soddisfazione, ciò che vuoi insegnare e far apprendere.

L'altro punto di dissenso è sulla questione femminismo e maschilismo. La mia esperienza con l'autoriforma gentile è stata anche l'incontro con uno sguardo prevalentemente femminile che mi ha arricchito per l'autorevole lettura del mondo scuola, ma soprattutto perché mi ha posto nella necessità di mettere in discussione il mio modo non più neutro (benevolo o rigido poco importa), ma maschile di essere professore. Maestri e professori hanno narrato la scuola in modo decadente e compiaciuto (ricordiamoci purtroppo i tremendi Orta e Starnone), penso invece che abbiamo bisogno di nuovi punti di partenza che non possono prescindere da uno sguardo nuovo verso noi stessi professori sessuati, presenti col nostro corpo, con le nostre passioni, interessi, da offrire come riferimento e misura alle nostre classi. Ma qui allora dobbiamo continuamente ripensare il nostro sapere e il nostro essere a scuola come vissuto maschile che si misura con classi composte da maschi e femmine, questo è un altro sguardo che dovremmo sempre più affinare.
Pertanto, quando affermi che il tuo insegnamento parte sempre e comprende il sapere che appartiene al tuo vissuto, e non al tuo (?) programma, credo che tu stia pienamente affermando quella necessità, che condivido, di porre se stessi in relazione con allievi ed allieve come fondamento dell'educazione scolastica.

Un caro saluto
Paolo Ermano.

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