Ho letto la lettera di Marinella come una sorta di memento mori visto che io, in questi giorni, lavoro a organizzare le liste della CUB Scuola per le RSU.
Mi è sembrata, nel senso migliore, una considerazione inattuale, uno spiazzamento rispetto alle questioni immediate ed alle urgenze sindacali, un ricordarci che le semplificazioni del tipo "o con i sindacati di stato o con i sindacati di base" sono, appunto, semplificazioni magari necessarie ma tali da comportare il pericolo di una perdita della capacità di leggere il quadro nel quale si giocano le partite che ci interessano come persone determinate.
Le ferree leggi della lotta politico sindacale da un lato e la ricchezza dell'esperienza vitale dall'altro, il politico inteso come accumulazione di forze, costruzione di strutture, accettazione del piano impostoci dall'avversario a fronte della ricchezza delle relazioni umane.
Questioni, insomma, di non poco conto, almeno per quanto mi riguarda. Proverò a destrutturare le tesi di Marinella senza pretendere di avere la sua abilità nella tecnica dello spiazzamento, abilità che conosco bene da molti anni.
Marinella si domanda, e si è già data una risposta, e ci domanda: "E' davvero così irragionevole credere di poter "lavorare" per favorire il conflitto e l'assunzione di responsabilità diretta da parte di altri e altre con cui condividiamo questo mestiere?"
In realtà, appare evidente che non solo non è irragionevole ma è necessario, almeno per coloro che scommettono sulla necessità, ai fini di un cambiamento dell'ordine sociale, dell'autorganizzazione sociale. Le stesse RSU potranno essere strumenti efficaci di tutela dei lavoratori solo se vi sarà un'assunzione di responsabilità e di iniziativa da parte dei lavoratori stessi, altrimenti saranno solo i terminali dei sindacati. Vi è una parola chiave nel testo di Marinella ed è la parola "mestiere". Fa pensare da due punti di vista:
- nella scuola non ci sono solo i docenti;
- le questioni sindacali si intrecciano con quelle professionali ma non si risolvono in esse.
Non credo assolutamente che Marinella abbia un punto di vista corporativo o categoriale in senso stretto ma il porre al centro il mestiere rischia di condurci in quella direzione che lo vogliamo o meno.
Marinella, infatti, afferma:
" Io, con altre e altri, mi sono impegnata, e continuerò a farlo, contro il progetto di "aziendalizzare" la scuola, cercando di far valere il peso che assumono "lavori" centrati su relazioni umane significative e importanti. Il nostro, di insegnanti, e, penso, anche tutti gli altri che hanno a che fare con le persone. Per dirla in termini un po' più generali con ciò che attiene la sfera della riproduzione, della "cura" e non della produzione. Credo si debbano concentrare in questa "lotta" energie, passione, creatività, pensiero per impedire l'appiattimento del "vivente" entro i confini mortiferi delle leggi del "mercato".
La contraddizione fra ricchezza dell'esperienza vitale e relazioni sociali capitalistiche viene ricondotta, direi ridotta, alla differenza fra lavoro direttamente produttivo, il lavoro in azienda, per intendersi, e lavoro volto alla riproduzione sociale, il lavoro nei servizi sociali. Ma è proprio cosi? Io penso di no e per due ragioni:
- questa contraddizione attraversa l'assieme dei rapporti sociali;
- il lavoro nei servizi sociali non è sottratto, non può essere sottratto, alle contraddizioni sociali che caratterizzano l'assieme del lavoro salariato. Può non piacerci ma noi siamo lavoratori salariati con caratteri specifici, questo va da sé, ma non siamo diversi in maniera radicale rispetto all'assieme del lavoro dipendente.
Non ho, in questa lettera, lo spazio per argomentare meglio questa tesi, mi limito a rilevare che oggi gli insegnanti manifestano un'apprezzabile resistenza alla modellizzazione del loro lavoro secondo i criteri aziendali, modellizzazione sovente più formale che sostanziale. Questa resistenza è assolutamente positiva, la riduzione dei margini di autonomia nel lavoro va contrastata e va evitata ogni apologetica esaltazione della proletarizzazione intesa come livellamento in basso della working class. Paradossalmente, se proprio dobbiamo essere ricondotti alla condizione di lavoratori salariati generici, l'unico modo per affrontare bene questo passaggio è l'opporvisi e il difendere ed inventare margini di autonomia. Ma l'opposizione non consiste nella rimozione dell'ordine della contraddizioni. La vita, come abbiamo dovuto imparare, è crudele e l'attacco ai margini di autonomia del lavoro semiprofessionale che l'amministrazione ed il padronato conducono non potrà essere contrastato efficacemente se non attraverso un conflitto adeguato all'ordine della trasformazione in corso.
Ovviamente, quest'opposizione non si riduce all'organizzazione sindacale della categoria ma ritengo non possa prescinderne. La concreta organizzazione del lavoro, la distribuzione del salario o saranno decise unilateralmente dalla dirigenza o saranno contrattate formalmente o informalmente. E la contrattazione o sarà gestita dall'apparato dei sindacati di stato e dai suoi terminators (terminali di scuola) o vedrà la presenza di delegati eletti su proposte chiare dai lavoratori. Tertium non datur.
Marinella si pone e ci pone una precisa domanda ed offre, come è suo costume, una risposta spiazzante:
"Chi ha bisogno di questa RSU nella scuola?.....Chi l'ha voluta e congegnata in modo così soffocante?.......A chi serve?
Mi pare che non problematizzare né mettere in dubbio la validità della RSU sia, di fatto, un modo di accreditare il processo di trasformazione della scuola pubblica in qualcosa di altro."
È, infatti, evidente che queste RSU le hanno volute l'amministrazione ed i sindacati di stato e si sono dati regole volte a controllarne e limitarne l'attività. Non credo possano esservi dubbi nel merito visto che gli accordi sindacali non li fa Alice nel paese delle meraviglie con il cappellaio pazzo ma l'ARAN con i soliti noti. Il problema, da mio punto di vista, non è se le RSU, in quanto tali, siano una manifestazione particolarmente racconsolante della bontà divina, non lo sono, ma se possano, non debbano, essere strumenti utili all'organizzazione sindacale della categoria laddove settori di lavoratori decidano di operare in questa direzione.
A questa domanda, ovviamente, non è possibile dare una risposta secca. Se vi sarà un numero adeguato di delegati eletti su posizioni di opposizione, se questi delegati sapranno essere punto di riferimento per i colleghi, se opereranno sulla base di mandati operativi, se il conflitto fra lavoratori ed amministrazione sarà di livello tale da stimolare lo sviluppo di un sindacalismo combattivo andrà nella direzione che riteniamo desiderabile. Altrimenti le RSU saranno una rete di microapparati subalterni al macroaaparato sindacale. Questa alternativa mi pare assolutamente evidente.
Ritengo, però, altrettanto evidente che non si deve confondere la causa con l'effetto. Nel caso peggiore, non saranno le RSU a rendere passiva la categoria ma la passività della categoria a produrre RSU deboli, clientelari, burocratiche e subalterne.
Marinella scrive: "Da un lato la Dirigenza, dall'altro la RSU. Niente più Collegi docenti litigiosetti e "ingovernabili". D'ora in avanti tutte le questioncelle di ordinaria amministrazione avranno una precisa sede in cui venire affrontate: l'ufficio dove Dirigente e delegati/e dei lavoratori e lavoratrici contratteranno."
Credo che dobbiamo fare alcune considerazioni:
- per un verso dobbiamo difendere le prerogative degli organi collegiali che i dirigenti stanno cercando di svuotare di funzione, di senso, di potere (Vedi "Z, l'orgia del potere");
- non mi pare, però, che i collegi docenti siano i consigli degli operai, dei contadini e dei soldati do ottant'anni addietro. Per come li conosco, sono luoghi sin troppo spesso inquinati da vaniloqui, beghe personali, logiche di cordata tanto è vero che abbiamo spesso criticato gli organi collegiali realmente esistenti proprio per il loro carattere burocratico e per i loro scarsissimi poteri reali;
- soprattutto, nel merito dell'organizzazione del lavoro e della distribuzione della retribuzione, gli organi collegiali sono tipiche strutture corporative nel senso peggiore del termine: i lavoratori (e non tutti i lavoratori visto che gli ATA non vi partecipano) e l'amministrazione cogestiscono la spartizione delle noccioline;
- ritengo un bene che siano separate l'assemblea sindacale che esprime, e deve esprimere, il punto di vista di una parte (i lavoratori) rispetto, preferirei contro, un'altra (il dirigente) e il collegio docenti che è un organismo professionale;
- se i delegati risponderanno o meno all'assemblea sindacale e, comunque, ai lavoratori è un altro problema o, meglio, il vero problema. Ma su questo terreno, ritengo valga la pena di impegnarsi.
Marinella rileva che vi è un preciso pericolo: "Inoltre, non si andrà ad incrementare l'abitudine a "delegare" a qualcuno, più "esperto" la soluzione di problemi in una categoria che di per sé non brilla certo per spirito di iniziativa?"
Per quanto mi risulta, però, vi è poco da incrementare, oggi il sindacalismo scolastico si fonda sulla consulenza individuale e poco altro. I sindacati di stato, lo abbiamo detto mille volte, sono simili ai medici che curano, o simulano di curare, la malattia che hanno contribuito a diffondere. La costruzione del sindacato aziendale attraverso la RSU può, non necessariamente, aprire spazi ad un rapporto diverso. Su questo rapporto ritengo valga la pena di scommettere.
Marinella pone un'altra domanda: "Non è più rischioso e politicamente perdente adeguarsi a scelte che hanno lo scopo di aumentare il controllo e circoscrivere eventuali, possibili forme di conflitto entro contesti predefiniti e già ingabbiati che "rischiare", mettendo in campo forme di "resistenza", di "disobbedienza", di "conflitto" che rendano ingovernabile il processo?"
Direi che, se non vi saranno forme di conflitto, resistenza, disobbedienza, senza virgolette, significativi potremo dedicarci al giardinaggio e lasciar stare la lotta sindacale.
Per concludere, ritengo la lettera di Marinella straordinariamente interessante perché pone con forza questioni serie ed importanti. Il fatto che non mi abbia del tutto convinto non le toglie alcun merito. Il fine di una discussione vera non è il convincere l'interlocutore delle proprie tesi ma il crescere assieme e il rendere chiari i termini di una contraddizione. Varrebbe la pena di discuterne anche sulla base delle concrete esperienze che altri hanno fatto e che noi faremo nella scuola.