LA QUESTIONE DEL KOSOVO. ORIGINI E STORIA

Indice

Posizione geografica e caratteristiche demografiche

Dall'impero ottomano all'occupazione serba

Il dominio serbo tra le due guerre

La seconda guerra mondiale e l'immediato dopoguerra

Il Kosovo nella federazione socialista Jugoslava

Il Kosovo dalla società parallela all'odierno conflitto armato

Bibliografia di riferimento



POSIZIONE GEOGRAFICA E CARATTERISTICHE DEMOGRAFICHE

Il Kosovo copre un'area di quasi 11.000 kmq (pari circa a quella dell'Abruzzo) e confina a sudùovest con l'Albania, a nordùovest con il Montenegro e la Serbia, a est con la Serbia e a sud con la Macedonia. Il suo territorio può essere diviso in due aree distinte: quella orientale e quella occidentale, che i serbi chiamano rispettivamente Kosovo e Meothija (Dukagjin per gli albanesi). La prima è costituita da una vallata al cui centro si trova la capitale Pristina ed è densamente popolata, con importanti risorse minerarie e agricole ed è attraversata inoltre da un'importante linea di comunicazione stradale e ferroviaria che collega Belgrado alla Macedonia e al litorale greco. La seconda ha dimensioni più ampie ed è prevalentemente agricola. I confini del Kosovo sono segnati a sud, ovest e nord da catene montuose, tra le quali la più alta e inaccessibile è quella della Sar Planina, posta sul confine con la Macedonia.

La popolazione del Kosovo era nel 1991 approssimativamente di 2.000.000 abitanti, di cui circa 1.700.000 albanesi, 170.000 serbi, con la presenza di altre minoranze come rom, turchi e musulmani. Si calcola che circa 300.000 albanesi, prevalentemente di età giovane, siano emigrati all'estero tra il 1989 e oggi. Dagli anni '70 è in atto una lenta, ma costante emigrazione di serbi verso le zone più ricche della Serbia. La densità del Kosovo è di 193 abitanti per kmq (più del doppio della media jugoslava all'inizio degli anni '90). Il tasso di crescita demografica, seppure diminuito negli ultimi anni, è il più alto d'Europa insieme a quello dell'Albania. La famiglia media è composta da 6,9 persone e nel solo quinquennio 1986ù1990 la popolazione del Kosovo è aumentata complessivamente del 23,4%.

Il 70% della popolazione è di religione o tradizione islamica, il 10% di religione ortodossa e il 5% di religione cattolica, ma va sottolineato che per gli albanesi l'identità religiosa ha avuto sempre storicamente scarsa rilevanza, a differenza di quella nazionale.

Le attività economiche principali sono quelle agricole e quelle minerarie e dell'industria pesante. Il complesso minerario di Trepca, nel Kosovo nordùorientale è uno dei maggiori produttori di piombo del mondo.

In Kosovo vi sono inoltre importanti centrali termoelettriche che costituiscono la principale fonte di energia elettrica della Serbia e della Macedonia.



DALL'IMPERO OTTOMANO ALL'OCCUPAZIONE SERBA

Il Kosovo è stato per quasi 500 anni, a partire dal XV secolo, sotto il dominio dell'impero ottomano, nell'ambito del quale ha vissuto un periodo iniziale di fioritura economica, dovuta soprattutto alle sue risorse minerarie e al fatto di essere attraversato da vie di comunicazione allora importanti. Tale periodo tuttavia è cessato tra il XVII e il XVIII secolo nel contesto generale di crisi economica e sociale dell'impero, che in Kosovo ha preso forme particolarmente acute.

Nei fatti, dal XVII secolo il Kosovo è diventato una delle aree più povere e isolate dei domini ottomani in Europa, tanto che è solo nell'800 che sono state tracciate le prime, approssimative carte geografiche della regione. Nel 1867, nell'ambito di una riforma territoriale dell'impero ottomano, viene creata una grande unità amministrativa, il vilayet di Prizren, che comprende l'intero odierno Kosovo, più le regioni di Debar, Skopje e Nis (tutte a maggioranza o a forte presenza albanese). Nel 1888 l'unità amministrativa prende il nome di vilayet del Kosovo e viene esteso anche al Sangiaccato di Novi Pazar, mentre la capitale diventa Skopje.

Il progetto della creazione di un vilayet che comprendesse tutte le popolazioni albanesi dell'area (cioè anche quelle dell'Albania attuale) è stato in quell'occasione accantonato dalle autorità ottomane.

Nel 1878, nell'ambito del risveglio nazionale albanese, viene creata su iniziativa di Abdyl Frasheri, originario del sud dell'Albania, la Lega di Prizren, che nell'intenzione del suo promotore doveva lottare per l'autonomia territoriale degli albanesi, ma che inizialmente, visti i timori delle ali più conservatrici, si impegna solo a impedire l'occupazione da parte di eserciti stranieri e dichiara fedeltà al sultano. Nel giro di pochi mesi, tuttavia, si intensificano le tendenze autonomistiche, mentre la Lega si struttura anche militarmente e nel 1880 ottiene un controllo di fatto dell'intero territorio del Kosovo. La reazione di Constantinopoli è stata allora durissima e dopo l'invio dell'esercito ottomano nel 1881 e le devastazioni compiutevi vi è stato un periodo di più di 20 anni di continue rivolte e repressioni.

Ai primi del '900 si intensificano le mire delle grandi potenze verso i Balcani e la Lega di Prizren adotta nuovamente una posizione di appoggio condizionato (e nei fatti ampiamente conflittuale) al sultano, nel timore di vedere le terre albanesi oggetto di nuove conquiste da parte degli occidentali e dei vicini stati balcanici. E' in questo contesto che nel 1912 si ha una massiccia insurrezione da parte degli albanesi, che arrivano a conquistare Skopje e avanzano la richiesta di una unificazione dei territori albanesi dell'impero ottomano, di una loro amministrazione autonoma e della creazione di un sistema educativo in albanese. Tutte le loro richieste verranno accettate, ma non vi sarà il tempo per applicarle, perché meno di due mesi dopo il Kosovo verrà invaso e occupato da truppe serbe.

Nel 1912, infatti, scoppia la Prima Guerra Balcanica, con la quale Serbia, Bulgaria e Grecia mirano a spartirsi i territori europei dell'impero ottomano ormai agonizzante, con il sostegno delle varie potenze europee. Dal 1912 al 1918 l'intera regione, tra guerre balcaniche e Prima guerra mondiale, rimane in stato di guerra permanente, con continui rovesciamenti di fronte, che vedranno il Kosovo occupato prima dai serbi, poi dagli austriaci e dai bulgari e, infine, di nuovo dai serbi.

L'intenzione della Serbia era quella di estendersi militarmente fino alla costa adriatica, a Durazzo, ma l'opposizione di Austria e Italia porterà nel dicembre del 1912 alla creazione di uno stato albanese corrispondente all'incirca a quello odierno. La decisione è stata il frutto di un compromesso, dopo che Francia e Russia si erano opposte alla creazione di un'Albania comprendente anche il Kosovo e le altre zone a maggioranza albanese.



IL DOMINIO SERBO TRA LE DUE GUERRE

Nel 1918, terminate le guerre di conquista, viene proclamato il regno jugoslavo, che a sud vede una Serbia ampliata fino a coprire l'intero Kosovo e l'intera Macedonia. Nonostate la firma di accordi internazionali per la protezione dei diritti delle minoranze, la Jugoslavia non rispetterà mai tali impegni. Nessuna scuola in albanese verrà mai aperta nei più di venti anni di dominio serbo e la regione verrà tenuta volutamente in uno stato di degrado sociale e culturale, instaurando inoltre un regime di capillare controllo poliziesco. Per il regime di Belgrado gli albanesi non hanno un'identità propria e sono solo serbi che hanno perso la loro memoria storica. Nel 1913, l'ex primo ministro serbo Djordjevic aveva addirittura scritto un opuscolo nel quale sosteneva in tutta serietà che fino a pochi decenni prima gli albanesi avessero ancora la coda.

Un altro importante personaggio, il prof. Vasa Cubrilovic, ha redatto nel 1937 per il governo jugoslavo un piano di espulsione in massa e con mezzi violenti degli albanesi dal Kosovo, affermando che "nel momento in cui la Germania può espellere decine di migliaia di ebreià la deportazione di qualche centinaia di migliaia di albanesi non porterà certo allo scoppio di una guerra mondiale". Il progetto, per il quale erano già stati presi precisi accordi con la Turchia, che avrebbe dovuto accogliere gran parte degli espulsi, doveva essere messo in atto in cinque anni tra il 1939 e il 1944, ma l'arrivo della Seconda guerra mondiale l'ha impedito.

Sempre in un tale contesto, negli anni '20 il governo jugoslavo ha messo in atto una riforma agraria, che nel caso del Kosovo e della Macedonia si è trasformata in una vera e propria colonizzazione, che ha visto la requisizione della terra a molti abitanti locali, per assegnarla a coloni provenienti dalla Serbia. Nell'ambito di tale riforma, 14.000 famiglie serbe si sono trasferite in Kosovo. Il governo di Belgrado, allora come in tempi più recenti, ha avuto difficoltà nel mettere in atto per intero i propri intenti, vista la scarsa disponibilità dei serbi a emigrare in una zona estremamente povera e ostile come il Kosovo. Va notato che l'arrivo dei coloni è stato allora osteggiato non solo dalla popolazione albanese della regione, ma anche da quella serba autoctona, vittima anch'essa di requisizioni delle proprie terre.

Subito dopo la Prima guerra mondiale, nel 1918, i principali leader albanesi avevano creato un'organizzazione mirata a promuovere la resistenza agli occupatori, il "Comitato per la Difesa Nazionale del Kosova", detto comunemente "Comitato Kosova". Il Comitato ha organizzato nel corso del decennio successivo un movimento di resistenza coordinando le operazioni delle bande di kacaki, ovvero i briganti locali di nazionalità albanese. Le loro azioni hanno avuto tuttavia scarso successo a causa della spietata repressione serba e dallo scarso appoggio fornito dall'Albania che negli anni '20, con l'arrivo al potere di Re Zog, nei fatti un vassallo di Belgrado, si è trasformato in una persecuzione vera e propria, tanto che il leader del Comitato, Hasan Prishtina, è stato fatto uccidere dal governo di Tirana nel 1933. I leader del Comitato, tutti finiti assassinati tra gli anni '20 e gli anni '30, hanno cercato di intessere rapporti anche a livello internazionale, poco curanti di chi fosse disponibile a sostenere la loro causa, arrivando così a collaborare negli stessi anni con il Comintern e con i servizi segreti fascisti italiani.



LA SECONDA GUERRA MONDIALE E L'IMMEDIATO DOPOGUERRA

Nel 1941, un anno e mezzo dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, le potenze dell'Asse decidono di spartirsi militarmente i territori del regno jugoslavo: avrà inizio così l'occupazione tedesca, italiana e bulgara dei Balcani, che costerà la vita a centinaia di migliaia di persone in tutta la penisola. Il Kosovo, così come tutta l'Albania e i territori a maggioranza albanese della Macedonia, viene assegnato all'amministrazione fascista italiana, che ne manterrà il controllo fino al 1943, anche se una piccola, ma importante zona, quella mineraria di Trepca, viene assegnata fin dal 1941 alla Germania.

Gli albanesi del Kosovo, dopo decenni di repressioni e sfruttamento spietati da parte di Belgrado, accettano con favore il dominio italiano. Roma introduce per la prima volta l'insegnamento in lingua albanese nella regione, ma non consente mai alcuna forma di amministrazione autonoma del Kosovo, inviando commissari dall'Albania, colonia italiana già da anni, e sottoponendolo a un'occupazione militare. L'Italia è in quel periodo abile nel giocare sulle divisioni tra serbi e albanesi, consentendo azioni violente contro la popolazione serba, ma spesso prendendo le difese di quest'ultima.

Dopo l'8 settembre 1943 la Germania prende il controllo dell'intero Kosovo e proclama indipendente l'Albania, comprensiva del Kosovo e delle zone a maggioranza albanese della Macedonia. Tuttavia anche la Germania mantiene un regime di occupazione militare e non consente alcuna organizzazione autonoma degli albanesi. Sotto i tedeschi riprendono le deportazioni di serbi e montenegrini, per la maggior parte coloni, avviate già dall'Italia nel 1941: le autorità naziste alla fine del 1944 hanno calcolato come pari complessivamente a 40.000 il numero di serbi e montenegrini deportati in Serbia durante la loro occupazione di fatto del Kosovo.

A causa della complessa storia passata, in Kosovo il movimento partigiano è sempre stato scarsamente sviluppato. Le scarne organizzazioni del Partito Comunista nella regione erano essenzialmente serbe e gli albanesi che ne hanno fatto parte non hanno mai superato le poche decine, a differenza di quanto avveniva in Albania, dove esisteva un movimento bene organizzato. Oltre ai comunisti, in Kosovo operavano anche i cetnici, una formazione nazionalista serba diventata in seguito collaborazionista, e il Balli Kombetar (Fronte Nazionale). Quest'ultimo era una forza nazionalista albanese fondata nel 1942, l'unica nella resistenza con un certo seguito tra la popolazione, di tendenze repubblicane e genericamente di centroùsinistra, ma vicino alle classi possidenti. Nel 1943 vi è stato un incontro tra il Balli Kombetar e un rappresentante del Partito Comunista Jugoslavo, con il quale è stata siglata una dichiarazione comune a favore "della lotta per l'indipendenza dell'Albania e, attraverso l'applicazione del principio dell'autodeterminazione dei popoli, per un'Albania etnica", dichiarazione che verrà tuttavia immediatamente disconosciuta dagli alti gradi della resistenza comunista, con la conseguente apertura di un conflitto esplicito tra le due parti e il progressivo spostamento del Balli Kombetar su posizioni collaborazioniste.

Nei giorni a cavallo tra il 1943 e il 1944, inoltre, si tiene a Bujan una conferenza dei delegati del Partito Comunista Jugoslavo del Kosovo, i quali decidono la creazione di un Consiglio Regionale per l'intero Kosovo e formulano una dichiarazione in cui si dice: "il KosovoùMetohija è un'area a maggioranza albanese che, oggi come sempre in passato desidera unirsi all'Albania [à]. L'unico modo in cui gli albanesi del Kosovo-Metohija possono unirsi all'Albania è attraverso una lotta comune con gli altri popoli della Jugoslavia contro gli occupatori e i loro lacché. Perché l'unico modo in cui è possibile raggiungere la libertà è se tutti i popoli, ivi inclusi gli albanesi, avranno la possibilità di decidere da soli il loro destino con il diritto all'autodeterminazione, ivi incluso quello alla secessione". Il Comitato Centrale del Partito Comunista non gradisce tale formulazione e invia un rappresentante in Kosovo per comunicarlo, ma la dichiarazione rimane tuttavia il programma ufficiale del Consiglio Regionale fino alla scacciata dei tedeschi, avvenuta nel novembre del 1944. Nei fatti una decisione in merito ai futuri destini del Kosovo e dell'Albania viene rimandata a dopo la liberazione, nel contesto di quella che si prevedeva sarebbe stata la creazione di una federazione balcanica. Il Partito Comunista Jugoslavo, proprio nel contesto di tale progetto di federazione, mantiene in questo periodo un controllo di fatto anche sulla resistenza comunista in Albania.

Immediatamente dopo la cacciata dei nazisti, in Kosovo si verifica un primo grave fatto di violenza. Nella regione di Drenica vengono scoperti i corpi di 250 albanesi massacrati da partigiani jugoslavi, come scopre una commissione inviata a verificare quanto accaduto. Le autorità del Partito Comunista, tuttavia, non adottano alcuna misura punitiva e fanno invece fucilare il responsabile della commissione. Si tratta della scintilla che fa scattare una vera e propria insurrezione della popolazione albanese contro le autorità jugoslave, che durerà per buona parte del 1945. Il Kosovo viene dichiarato "zona militare" e viene messa in atto una spietata repressione che causa la morte di decine di migliaia di albanesi, con episodi particolarmente tragici, come quello avvenuto in Montenegro, dove 1670 civili vengono chiusi in un tunnel e asfissiati con il gas. Le repressioni e i massacri vengono giustificati con la necessità di estirpare gli elementi collaborazionisti, ma nella realtà sono una vera e propria guerra contro la popolazione insorta che rivendicava, tra le altre cose, anche l'unione del Kosovo con l'Albania. La sezione serba del Partito Comunista condanna a quei tempi gli "eccessi" nella repressione, ma non adotta alcuna misura e sui fatti verrà stesa una cortina di silenzio che durerà fino alla fine della Jugoslavia.

Nel luglio del 1945, a insurrezione ormai quasi liquidata, il Partito Comunista Jugoslavo sancisce che il Kosovo deve rimanere nella Serbia, come regione priva di diritti amministrativi autonomi. Inoltre, la nuova costituzione non riconosce tra le nazionalità costituenti della Jugoslavia quella albanese. Nel tentativo di guadagnarsi qualche favore presso la popolazione albanese le autorità decidono di vietare il rientro in Kosovo ai circa 50.000 serbi che ne erano stati scacciati durante la guerra e non applicano contro gli albanesi le misure di punizione delle "responsabilità collettive dei popoli collaborazionisti", messe in atto invece con deportazioni massicce contro tedeschi, ungheresi e italiani.



IL KOSOVO NELLA FEDERAZIONE SOCIALISTA JUGOSLAVA

Nel 1946 viene approvata la prima Costituzione della Repubblica Federativa Socialista Jugoslava, della quale il Kosovo entra a fare parte come regione interna della Serbia. All'interno di quest'ultima, la posizione del Kosovo è decisamente inferiore a quei tempi a quella della Vojvodina, che viene dichiarata provincia (un grado superiore a quello di regione, nel sistema jugoslavo) con il diritto a un proprio parlamento e a un proprio sistema giuridico, diritti di cui il Kosovo invece non gode. Successivamente, nel 1953, vi è stato un emendamento della costituzione che ha declassato le istituzioni amministrative come quelle del Kosovo da entità federali, a entità delle repubbliche di appartenenza; tale emendamento è stato ulteriormente perfezionato nel 1963 con il trasferimento dalla federazione alle varie repubbliche dell'autorità per creare o cancellare le entità autonome interne. Inoltre, le suddivisioni territoriali tra le varie repubbliche della Federazione hanno smembrato la popolazione albanese in tre repubbliche diverse (Serbia, Macedonia e Montenegro) con l'evidente scopo di non offendere le sensibilità dei tre nazionalismi slavi.

Fino al 1948, tuttavia, rimane ancora aperta la possibilità della creazione di una Federazione Balcanica, nell'ambito della quale Kosovo e Albania avrebbero potuto unirsi o comunque convivere fianco a fianco, ma con la rottura dei rapporti tra Cominform e Jugoslavia nel 1948 tale prospettiva svanisce definitivamente e in Jugoslavia viene rafforzato il regime poliziesco, che assume in Kosovo toni particolarmente duri per un periodo di più di 15 anni, fino alla destituzione dello spietato Ministro degli interni Rankovic nel 1965. Sempre in questo periodo, il governo di Belgrado promuove, con una tattica del bastone e della carota, una politica di espulsione degli albanesi dal Kosovo e dalla Macedonia verso la Turchia che porterà all'esodo complessivamente di 195.000 persone.

Accanto a questi aspetti, ve ne sono altri che consentono agli albanesi del Kosovo un miglioramento delle proprie condizioni di vita. La pesante eredità di decenni di dominazione straniera aveva lasciato gli albanesi del Kosovo nel 1948 con un tasso di analfabetismo del 73%, mentre erano molti quelli che sapevano leggere l'alfabeto cirillico, ma non quello albanese. Il governo di Belgrado mette in atto in quell'anno un capillare programma di apertura di scuole in albanese e di corsi di alfabetizzazione per adulti che con gli anni otterrà successo e comporterà una fondamentale svolta nella storia degli albanesi del Kosovo, anche se va notato che i programmi scolastici a quei tempi erano assolutamente imposti dall'alto dalle autorità serbe e ignoravano completamente la storia del Kosovo e della nazione albanese. A livello economico, il Kosovo viene ritenuto dalle autorità federali troppo vulnerabile per avviarvi importanti programmi industriali, ma la ricchezza di risorse minerarie della regione porta alla creazione di grandi complessi per la loro lavorazione, avviando un processo che fa del Kosovo un fornitore di materie prime per le altre repubbliche jugoslave. Negli anni '50 viene inoltre avviato un programma di aiuti alle regioni meno sviluppate, del quale il Kosovo sarà sempre il maggiore destinatario, arrivando negli anni '70 ad avere il 70% del proprio bilancio finanziato da tale programma. Tali finanziamenti, tuttavia, non faranno che perpetrare la situazione di sottosviluppo economico del Kosovo.

Nel 1966, con il Plenum di Brioni, la Lega dei Comunisti di Jugoslavia (SKJ) vara un programma di decentralizzazione che prevede tra le altre cose la parità tra repubbliche e provincie a livello federale e una maggiore affermazione delle identità etniche. Vengono in parte allentati i controlli polizieschi e incoraggiati i rapporti ufficiali con l'Albania, ma ben presto scoppiano sporadici scontri in Kosovo, perché le autorità serbe ostacolano le misure adottate a livello federale.

Il 27 novembre 1968 gli studenti dell'Università di Pristina organizzano una manifestazione che si trasforma in una vera e propria rivolta, all'insegna degli slogan "No alla colonizzazione del Kosovo" e "vogliamo essere una repubblica". Belgrado invia nella regione alcune unità dell'esercito e i carri armati prendono il controllo di Pristina, ma nel giro di qualche settimana scoppiano manifestazioni simili anche nelle zone a maggioranza albanese della Macedonia, che costringono per la prima volta le autorità di Skopje a riconoscere alcuni diritti nazionali agli albanesi della repubblica. Nel 1969 il Parlamento serbo adotta una nuova costituzione per il Kosovo, che prevede la creazione di un sistema giudiziario della provincia, maggiori poteri di autonomia nell'amministrazione, la parità tra le lingue albanese, serboùcroata e turca e la creazione dell'Università albanese di Pristina, che sarà negli anni seguenti un punto di riferimento anche per gli albanesi della Macedonia e del Montenegro.

Nel 1974 il progetto di decentralizzazione a livello federale culmina con l'approvazione di una nuova Costituzione che fa delle province autonome del Kosovo e della Vojvodina soggetti federali con diritto di veto all'interno della loro repubblica, un fatto che provoca un forte risentimento nelle autorità serbe, le quali recriminano inoltre che nulla di simile sia stato proposto per la minoranza serba in Croazia. Contemporaneamente alla ristrutturazione della federazione, la Costituzione prevede un'intensificazione del sistema dell'autogestione che aprirà nuovi spazi all'espressione politica degli albanesi del Kosovo, anche se largamente frustrata dalla sostanziale mancanza di democrazia in Jugoslavia e dalla natura burocratica e verticistica delle misure adottate. Permangono quindi l'insoddisfazione e le tensioni, come testimoniano il processo svoltosi nel 1974 contro vari studenti di Pristina che avevano fondato un "Movimento per la liberazione nazionale del Kosovo" che chiedeva l'unione delle regioni a maggioranza albanese della Macedonia e del Montenegro con il Kosovo e quello del 1976 contro lo scrittore Adem Demaci e altri 18 albanesi, accusati di avere criticato i dirigenti della SKJ e il sistema dell'autogestione e condannati alla pena pesantissima di 15 anni di prigione, pur non avendo né predicato né messo in atto azioni violente.

Nonostante questo, vi sono degli indubbi progressi: aprono numerose testate giornalistiche in albanese, si intensificano gli scambi con l'Albania e la storia nazionale non è più un tabù assoluto, mentre l'Università albanese di Pristina può adottare programmi propri. Questo processo di emancipazione, pur carente di democrazia, viene reso ancora più dinamico dalla struttura demografica della popolazione del Kosovo, nella quale, in conseguenza dell'alto tasso di natalità, si fa sempre più ampio l'elemento giovanile. A livello economico permangono invece le distorsioni del passato e il Kosovo rimane sempre un produttore di materie prime per le altre repubbliche e un beneficiario massiccio di sovvenzioni statali. Per avere un'idea delle disparità all'interno della federazione basta citare il dato del 1979 secondo cui il reddito pro capite in Kosovo era di $795, mentre la media jugoslava era di $2.635 e la repubblica più ricca, la Slovenia, aveva un reddito pro capite di $5.315.

A livello politico si ha in questi anni la rapida formazione di una classe politica albanese, che viene ben presto cooptata anche nelle più alte strutture della repubblica e della federazione, ma sull'agire di questa classe politica peserà sempre il fatto di essere per l'appunto espressione non della volontà degli albanesi, quanto piuttosto dei vertici federali e serbi. Inoltre, con il consolidarsi delle proprie posizioni, tale classe politica diventa il principale fruitore e amministratore dei fondi di assistenza alla provincia e diviene sempre più interessata a favorire gli interessi di Belgrado piuttosto che quelli della popolazione del Kosovo. Basti pensare, a tale proposito, che il 25% degli occupati in Kosovo era rappresentato in quel periodo da funzionari statali ben retribuiti, i cui privilegi provocavano tra l'altro il risentimento dei moltissimi lavoratori sottopagati o disoccupati.

In tale situazione non vi è da meravigliarsi che nel 1981 siano scoppiate massicce e violente manifestazioni. La scintilla che ha fatto scoppiare le proteste è stata la dimostrazione dell'11 marzo di quell'anno organizzata dagli studenti di Pristina per protestare contro le loro condizioni di vita. Le manifestazioni sono andate progressivamente ampliandosi e il 26 marzo una grande folla si è riunita nelle strade di Pristina, con immediati scontri con le forze di polizia e numerosi atti di violenza da entrambe le parti. La reazione delle autorità di Belgrado è stata nuovamente quella di inviare i carri armati in Kosovo, solo che questa volta in maniera molto più massiccia, tanto che in breve tempo le truppe inviate nella provincia sono arrivate a 30.000 unità. I morti ufficialmente sono stati 11, ma in realtà sicuramente centinaia, mentre fonti albanesi parlano addirittura di 1.000 morti. La SKJ ha immediatamente condannato le manifestazioni come "controrivoluzionarie e irredentiste", mettendo in atto vaste purghe al suo interno, mentre era ancora in atto lo stato di emergenza: più di 1.000 albanesi sono stati espulsi dal partito, mentre il leader regionale Bakalli è stato destituito d'autorità. Contemporaneamente, nell'Università di Pristina venivano imposte drastiche misure censorie nell'insegnamento della storia, della lingua e della letteratura albanese, mentre veniva ridotto il numero di posti riservati a studenti albanesi.

Tra gli anni '70 e '80 sorgono alcune organizzazioni marxisteùleniniste clandestine che rivendicano la creazione di una Repubblica del Kosovo in Jugoslavia o l'unione con l'Albania di Enver Hoxha. Per quanto ideologicamente vicini a quest'ultima, tali gruppi non ricevono importanti aiuti da Tirana, che durante gli anni '80 segue una linea di non interferenza con le politiche jugoslave in Kosovo e, per esempio, respinge regolarmente in Jugoslavia i profughi politici. Le organizzazioni marxisteùleniniste, come il Movimento per la Liberazione Nazionale del Kosovo o il Gruppo MarxistaùLeninista del Kosovo riescono a ottenere un certo seguito nelle zone rurali, ma le repressioni delle autorità di Belgrado riescono a impedirne il diffondersi e molti leader vengono incarcerati per lunghi anni oppure sono costretti a emigrare. Queste organizzazioni, che pure hanno vissuto tra gli anni '80 e '90 violente lotte intestine, sono il nucleo di quello che alla fine degli anni '90 diventerà noto in tutto il mondo come Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK).

Gli anni dopo il 1981 proseguono in questo clima di purghe, arresti e censure da parte delle autorità jugoslave e giungono a una svolta decisiva nel 1986. In quell'anno prende corpo una massiccia propaganda delle autorità serbe, già preparata negli anni precedenti nel corso di riunioni ad alto livello all'interno della Lega dei Comunisti della Serbia, con la partecipazione in particolare del noto scrittore Dobrica Cosic. Vengono organizzate dalle strutture del partito locali del Kosovo le prime proteste di serbi contro il nazionalismo albanese, mentre nello stesso anno compare in versione non ufficiale un Memorandum dell'Accademia serba delle scienze che lamenta, tra le altre cose, il "genocidio" della popolazione serba del Kosovo a opera degli albanesi. Tale propaganda si basa su accuse che parlano di un massiccio esodo forzato di serbi dal Kosovo, secondo Belgrado provocato da una strategia intenzionale e violenta degli albanesi. In realtà, le stesse statistiche jugoslave dimostrano che i flussi migratori di serbi dal Kosovo corrispondono esattamente a quelli delle altre regioni più depresse della federazione. Allo stesso tempo, viene avviata una massiccia campagna di denuncia di violenze sessuali contro le donne serbe del Kosovo a opera degli albanesi, ma anche in questo caso le statistiche federali dicono che la percentuale di tali violenze sul numero degli abitanti è addirittura inferiore a quella della stessa Serbia. E' tuttavia indubbio che il clima di repressioni sistematiche messe in atto da Belgrado crea effettivamente un contesto di tensioni e di conflitto, che questa propaganda sfrutta abilmente.

Tale clima fa un salto di qualità l'anno successivo, quando in Serbia inizia l'ascesa al potere di Slobodan Milosevic, un burocrate della Lega dei Comunisti che era stato per lungo tempo dirigente d'azienda. Milosevic, che mai aveva avuto posizioni nazionaliste in passato, usa il Kosovo e le tematiche antialbanesi come trampolino di lancio per vincere la lotta per il potere in Serbia. Nel 1987 viene messa a punto la prima bozza di una cancellazione dell'autonomia del Kosovo e il quotidiano di partito "Politika" titola: "Nessuna forza può ostacolare l'unificazione della Serbia".

Alcuni mesi dopo, i minatori albanesi del Kosovo danno il via a una grande mobilitazione contro i progetti di cancellazione dell'autonomia: alla loro marcia di 70 km. verso Pristina si uniscono progressivamente altri lavoratori e gli studenti, dando vita a un corteo di più di 100.000 persone che rimane mobilitato per cinque giorni. La risposta di Belgrado è quella di procedere a nuove massicce purghe (gran parte dei lavoratori è ancora iscritta alla Lega dei Comunisti) e alla sostituzione del dirigente della provincia Vllasi con un albanese strettamente controllato dai vertici di partito serbi. Questa mossa, e il successivo colpo di mano interno all'organizzazione di partito dell'altra provincia autonoma, la Vojvodina, consentiranno alla Serbia di avere nel 1989 quattro voti nella presidenza collettiva della Federazione jugoslava e di promuovere così i propri progetti egemonici.

Il 28 marzo 1989 il Parlamento serbo cancella d'autorità l'autonomia politica del Kosovo, sottoponendolo al controllo centrale di Belgrado, con una mossa che viola il principio secondo il quale il Kosovo è un'entità costitutiva della Federazione. Circondato dai carriarmati e largamente infiltrato da elementi estranei, il Parlamento del Kosovo ratifica gli emendamenti. Subito l'intera popolazione del Kosovo si mobilita: sono di nuovo i minatori i primi ad avviare le proteste, ma a loro si aggiungono ancora una volta altri lavoratori e studenti di tutta la provincia, le cui attività vengono completamente bloccate. Il 28 giugno Milosevic si reca in Kosovo per le celebrazioni del seicentesimo anniversario della storica battaglia di Kosovo Polje, alle quali parteciperà un milione di serbi. Tra le parole che egli pronuncia in quell'occasione vi sono le seguenti: "Oggi, seicento anni dopo, stiamo ancora combattendo delle battaglie; non si tratta di battaglie armate, anche se non si può escludere che ce ne saranno".

Nel luglio 1990 il Parlamento serbo chiude d'autorità l'Assemblea provinciale del Kosovo e ne espelle fisicamente i delegati che, riunitisi in strada, proclamano la Repubblica del Kosova all'interno della federazione jugoslava e separata dalla Serbia. Due mesi dopo viene approvata clandestinamente una costituzione della Repubblica del Kosova. I media in lingua albanese vengono occupati e chiusi dalle autorità di Belgrado, la Biblioteca Nazionale viene depredata di gran parte delle sue opere in albanese e i programmi di studio autonomi della provincia vengono aboliti e sostituiti con quelli messi a punto da Belgrado. A tutto ciò gli albanesi del Kosovo reagiscono organizzando uno sciopero generale.



IL KOSOVO DALLA SOCIETA' PARALLELA ALL'ODIERNO CONFLITTO ARMATO

Gli scioperi e le mobilitazioni del triennio 1988ù1990 sono gli ultimi episodi di resistenza attiva, anche se pacifica, alle repressioni di Belgrado, prima di un lungo periodo di 7 anni di resistenza passiva sotto la guida del leader politico Ibrahim Rugova, eletto clandestinamente nel 1992 presidente della Repubblica del Kosova. Sotto la sua guida e quella del suo partito, la Lega Democratica del Kosova, fondata alla fine del 1989 da gruppi di intellettuali fuoriusciti dalla Lega dei Comunisti di Jugoslavia, si ha la creazione di una vera e propria "società parallela" con un sistema educativo, sanitario e di rappresentanza politica interamente proprio. Uno dei principali presupposti della creazione di tale sistema è costituito dall'ulteriore stadio di repressioni messe in atto da Belgrado nel 1990, con la chiusura di numerose aziende, la confisca dei beni della Banca del Kosovo a favore della Jugobanka, l'adozione di un regolamento che impone alle aziende di assumere un serbo per ogni albanese assunto e, soprattutto, la costrizione dei lavoratori a firmare una "lettera di fedeltà" alla Serbia e al Partito Socialista Serbo, pena il licenziamento. Non va dimenticato che tali misure si inseriscono in un contesto di disfacimento dell'economia serba e jugoslava e dei conseguenti dissesti sociali.

La LDK nel frattempo conquista una posizione egemonica all'interno della società albanese del Kosovo, che ne fa più un movimento nazionale che un vero e proprio partito. Nel contesto della dissoluzione della Jugoslavia e della guerra in Croazia prima e in Bosnia poi, la LDK adotta una politica di "non ingerenza" e di sostanziale immobilità, mentre i leader favorevoli a forme di resistenza attiva vengono progressivamente marginalizzati. Nelle elezioni clandestine, ma non turbate dalle autorità serbe, svoltesi nel settembre del 1991 la LDK ottiene il 99,87% dei voti degli albanesi del Kosovo (l'87% degli aventi diritto al voto che hanno partecipato alle elezioni).

Nel frattempo, la questione del Kosovo prende rilevanza internazionale. Le reazioni vanno da quelle del presidente croato Tudjman, che definisce il Kosovo una questione interna della Serbia, a quelle della Comunità Europea che respinge una domanda di riconoscimento della Repubblica del Kosova guidata da Rugova, all'appoggio dichiarato degli USA alle politiche di resistenza passiva della LDK, senza tuttavia alcun riconoscimento della repubblica. Solo il governo di Tirana, nel 1991, riconosce ufficialmente il governo e le strutture parallele del Kosovo, mentre la LDK intesse strette relazioni con il Partito Democratico di Berisha, che condivide per il Kosovo la linea di resistenza passiva propugnata da Rugova.

Le strutture democratiche della repubblica kosovara clandestina non diventeranno mai effettivamente operative, come dimostra il solo fatto che il Parlamento in un periodo di 7 anni non si è mai riunito e che i mandati dell'assemblea parlamentare e quelli di presidente sono stati prorogati per decreto in funzione della situazione contingente. Tutte le decisioni politiche vengono adottate da ristretti gruppi di lavoro o dal governo guidato da Bukoshi che, per ragioni logistiche, opera in esilio in Germania e lontano quindi dalla popolazione del Kosovo.

Nel 1995, con gli accordi di Dayton per la Bosnia che conferiscono a Milosevic il ruolo internazionale di garante della pace nei Balcani, agli occhi dei kosovari si fanno sempre meno probabili le ipotesi di un riconoscimento della loro volontà di indipendenza mediante la resistenza passiva e il sostegno diplomatico dell'Occidente. All'interno della dirigenza kosovara emergono, seppure dapprima in sordina, fratture in merito alla linea da seguire, che si faranno sempre più nette nel 1997. In tale anno, infatti, la rivolta in Albania altera il quadro politico complessivo all'interno della nazione albanese. Inoltre, gli Stati Uniti esercitano forti pressioni per un'integrazione delle strutture parallele kosovare nel sistema politico serbo, pressioni alle quali Rugova cede decidendo di rinviare le elezioni in vista di una possibile partecipazione a quelle imminenti in Serbia e nella Federazione. Nel corso dell'estate le fratture si fanno esplicite e in settembre gli studenti avviano delle mobilitazioni a favore del passaggio a una resistenza attiva, riconoscendo in Demaci il loro punto di riferimento politico ed entrando in conflitto con Rugova, che chiede loro di revocare ogni mobilitazione, come richiedono UE e USA. Dissidi aperti si hanno anche tra il governo in esilio di Bukoshi e alcuni leader politici emarginati dalla LDK, da una parte, e la dirigenza di quest'ultima dall'altra.

In questo contesto si intensificano le azioni terroristiche, in passato del tutto sporadiche, dell'Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK), così come le repressioni, spesso sanguinose, delle autorità serbe. L'UCK, che era stato creato nel 1996 da un gruppo di qualche decina di persone, ottiene un grosso successo nel novembre del 1997 quando riesce per la prima volta a difendere un villaggio dall'arrivo di ingenti forze corazzate serbe. Si tratta del primo abbozzo della trasformazione dell'UCK da organizzazione terroristica in vero e proprio movimento di guerriglia insurrezionale, trasformazione che si compirà nel corso dell'anno successivo. Nel gennaio del 1998 la LDK espelle alcuni importanti leader che erano in dissidio con Rugova, il quale continua tra l'altro a sostenere che l'UCK è solo un'invenzione dei servizi segreti serbi, posizione che manterrà per svariati mesi ancora.

Tra febbraio e marzo, una serie di massacri perpetrati dalle forze serbe nel Kosovo centrale fa scattare un vasto movimento di resistenza armata che porta migliaia di persone, soprattutto giovani, ad aderire all'UCK. La leadership kosovara rifiuta di dare legittimità a questo movimento e, contro la volontà dei partiti di opposizione che le boicottano, organizza elezioni nel mese di marzo, in pieno stato di guerra, che danno a Rugova un nuovo controllo assoluto del Parlamento. Si tratta della prima mossa che era stata chiesta dalle grandi potenze, la seconda essendo quella di avviare trattative con Milosevic, che si concretizzano nel mese di maggio con l'incontro tra quest'ultimo e Rugova, il quale tuttavia ormai non ha una rappresentatività politica sufficiente per condurre da solo negoziati. Nel giugno dello stesso anno, quando ormai l'UCK controlla vaste aree del Kosovo, giungono le prime minacce di un intervento NATO, mentre il mediatore statunitense Holbrooke cerca di convincere in un incontro dirigenti dell'UCK ad accettare la leadership politica di Rugova. Fallito questo tentativo, scatta una massiccia offensiva serba che durerà due mesi, causando almeno 300.000 profughi e immense distruzioni nelle aree rurali e in alcuni grandi centri. Terminata a settembre questa offensiva con una sostanziale, ma temporanea, vittoria delle forze serbe, scattano nuovamente le minacce NATO di bombardamenti, che tuttavia non verranno attuate alla scadenza del 13 ottobre in conseguenza della firma tra Holbrooke e Milosevic di un accordo di pace. Le carenze di tale accordo, come per esempio il fatto di non coinvolgere la parte albanese, e le immediate violazioni, nonché le successive massicce offensive e i massacri operati dalle forze serbe, porteranno all'apertura di un ulteriore processo diplomatico gestito dalle grandi potenze.



SCHEDE

Kòsovo o Kosòva?

Parlando del Kosovo spesso si usano denominazioni divergenti. Gli albanesi chiamano la loro regione "Kosòva". Il nome ufficiale della provincia fino al 1968 era "KosovoùMetohija", in breve Kosmet, secondo la denominazione serba. Ma gli albanesi non hanno mai accettato questa definizione, che è stata reintrodotta nel 1989. Divergono anche le definizioni della popolazione albanese autoctona: i serbi in gergo li chiamano "schipetari", termine che ha acquisito un senso denigratorio e che era proprio anche delle forze di occupazione dell'Italia fascista.

In questo testo usiamo il termine "Kòsovo" perché più consueto in italiano, invece di Kosòva, la denominazione albanese.



Bibliografia di riferimento:

* Benedikter, Thomas, "Il dramma del Kosovo", Datanews, Roma, 1998

* Malcolm, Noel, "Kosovo - A Short History", MacMillan, Londra, 1998

* Roux, Michel, "Les albanais en Yougoslavie", Ed. Science de l'homme, Parigi, 1992

* Vickers, Miranda, "Between Serb and Albanian - A History of Kosovo", Hurst, Londra, 1998