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From william maddler <maddler@maddler.net>
Date Sun, 15 Dec 2002 16:18:49 +0100
Subject [hackmeeting] Fwd: traduzione articolo Le Monde

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Grazie ad un'amica... anche i non francofono/fili possono leggere 
l'articolozzo! :))

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Hacker attitude
Giovedì 24 ottobre 2002

Stéphane Mandard

In tutta Europa, gli hackers organizzano grandi meeting per dimostrare
di non essere pirati informatici, ma militanti della Rete. Ricordiamo
l'esperienza italiana.
BOLOGNA, dal nostro inviato speciale

Grandi lastre di formica appoggiate sui cavalletti sostengono a mala
pena centinaia di computer. I cavi scendono dal soffitto e corrono sul
pavimento tra i cartoni per la pizza e i sacchi a pelo. I ventilatori
rinfrescano appena un'atmosfera soffocante. Sugli schermi, le righe di
codice sfilano. Di mano in mano passano le canne e sulle teste risuonano
le note di musica elettronica. Nonostante sia notte fonda più di 200
patiti di informatica, a torso nudo o in maglietta, neanche o da poco
ventenni, continuano a digitare con frenesia sulle loro tastiere.
All'inizio dell'estate tutta l'Italia della controcultura digitale -
circa 3000 persone - si è ritrovata al Teatro Polivalente Occupato (TPO)
di Bologna per il suo 5° "Hackmeeting". Tre giorni e due notti per
mettere in pratica il motto: "Cyberpunk è un'attitudine".

Al primo piano di questo vecchio deposito trasformato in centro
socioculturale autogestito, dietro alle facciate di cemento coperte di
graffiti, gli autistici - come si sono autodefiniti i maniaci della
programmazione - si scambiano con allegria componenti informatici e
software. I più stanchi, da parte loro, cercano alla bell'e meglio di
riposarsi sui sacchi a pelo messi direttamente per terra, in una sala
leggermente in disparte. Al piano terra, l'atmosfera è più esplosiva. In
una sala scura, che normalmente serve da sala cinematografica, una folta
platea applaude con entusiasmo la polemica del newyorchese Richard
Stallman, professore al Massachusetts Institute of Technologie (MIT) e
guru del "software libero" - dai diritti di riproduzione e di
distribuzione - contro la ditta di Bill Gates. "Bisogna combattere
contro Microsoft in tutto il mondo! Lottare per il software libero! E
questo sarà lottare per la libertà", esclama il fondatore della Free
Software Foundation, barba e capelli irsuti, prima di prendersela con lo
stesso successo con il presidente USA, accusato di violare i diritti
dell'uomo in nome della lotta contro il terrorismo.

Un poco prima, al posto del professore, c'era un giovane, testa rasata,
t-shirt e bermuda neri (l'uniforme di rito dell'hacker italiano) che
tiene un corso per un centinaio di colleghi. Argomento: Linux, il più
celebre dei software liberi. "Non siamo "nerds" né pericolosi pirati che
penetrano nei sistemi per distruggere o rubare le informazioni top
secret", precisa "Maddler" - che come la maggior parte dei membri della
comunità hacker risponde ad uno pseudonimo - per puntualizzare su un
"cliché" che lui considera molto presente nei media. "L'hacking è
un'etica basata sulla condivisione delle conoscenze", cerca di spiegare
questo romano di 30 anni, programmatore free-lance e membro attivo di
Isole nella Rete, la principale rete alternativa italiana su cui dal
1996 si appoggiano i numerosi "centri sociali" - squats usciti dai
movimenti autogestiti e anarchici - della penisola.

Fuori, il caldo della canicola pomeridiana non si è ancora fermato.
"Blicero", stessa T-shirt e bermuda neri del suo amico ma con i capelli
molto più lunghi, si ritrova suo malgrado spinto in piscina - come in
Loft Story, ma senza la telecamera, Loana e Jean-Edouard - che è
diventata insieme al bar (1 euro e 50 una birra) il luogo preferito per
rinfrescare il corpo e le idee. Blicero qui si trova come un pesce
nell'acqua. A 26 anni, questo milanese non ha mancato nessun
"hackmeeting" fin dalla prima edizione a Firenze nel 1998. "A differenza
di ciò che accade in Germania o negli USA, gli incontri degli hackers
italiani sono più politici che tecnici, spiega il ragazzo che definisce
l'hacker come "una persona che vuole capire i meccanismi che regolano il
mondo, per decostruirli e ricostruirli nel senso del progresso sociale".
E secondo lui è soprattutto con la comunicazione e le sue tecnologie,
che "formano il pensiero dei popoli", che bisogna interagire per
"lottare contro il capitale e contro lo stato". Questa analisi tutta
teorica, lui cerca di metterla in pratica nel Loa Hacklab di Milano, uno
dei laboratori di "informatica antagonista" tipici dell'Italia che si
trovano in una decina di centri sociali a Torino, Roma o Firenze per
prolungare lo slancio e lo spirito degli hackmeeting.

Con il Loa Hacklab, Blicero nutre molte ambizioni. Tiene dei corsi di
informatica "perché le tecnologie possano essere padroneggiate da più
persone possibile e stornate dal loro uso commerciale" e conduce delle
campagne di opinione per "il libero accesso e la libera circolazione dei
saperi". L'ultima in ordine di tempo: il collage a grande scala, su
libri, dischi e altri CD-Rom, di fac-simile di timbri della Siae - che
devono essere applicati su tutti i prodotti culturali, compresi i
software liberi! - per protestare contro il diritto della "mafia degli
autori" e reclamare a voce alta che "il sapere è un bene collettivo".

Come la maggior parte degli hackers, Blicero lavora "il meno possibile",
come webmaster, "per mangiare e pagarsi i viaggi". Il suo amico romano
"Graffio", sulla quarantina, approfitta dell'incontro per fare il giro
della comunità e raccogliere materiale informatico che porterà ad agosto
in Chiapas, per realizzare un hacklab in una scuola zapatista. Blicero,
da parte sua, ha in mente Betlemme, con la sezione italiana di Indymedia
(rete di informazione alternativa, internazionale e online che, dal
contro-vertice di Seattle del dicembre 1999, fa da cinghia di
trasmissione per il movimento contro la globalizzazione liberale), per
aiutare nella costruzione di un "IMC" (Independent media center) in
Palestina. "L'obiettivo è favorire la comunicazione tra palestinesi,
rifugiati e comunità internazionale e rafforzare i rapporti con
Indymedia Israele, i cui membri sono considerati come dei traditori
dentro la loro propria famiglia", spiega l'hacker, che si è già recato
in Palestina, lo scorso aprile, con dei pacifisti europei per protestare
contro l'assedio di Ramallah e Betlemme da parte dell'esercito
israeliano.

Sotto i portici del TPO, un muro di schermi TV proietta immagini veloci:
territori occupati, Tsahal e i suoi carri armati, Sharon, Bush,
Berlusconi, le manifestazioni contro il vertice del G8 a Genova, i colpi
di pistola dei carabinieri e Carlo Giuliani, morto, steso in una chiazza
di sangue. Era il 20 luglio 2001. "Blutaz" e "Rator", due ragazzi di una
ventina d'anni, vendono le magliette di Indymedia con la parola d'ordine
"Don't hate the media,
become the media!" - perché bisogna pure finanziare il materiale per
essere in prima linea con macchine fotografiche e videocamere in mano.
"Non siamo giornalisti ma mediattivisti [militanti dell'informazione]
perché il nostro impegno non è professionale ma politico" spiegano i due
ragazzi. Sono convinti di partecipare alla "sola esperienza di gestione
orizzontale dell'informazione". Indymedia ha la particolarità infatti di
funzionare - come nei software liberi dove il codice sorgente può essere
modificato da chiunque - secondo un modello di pubblicazione aperta a
tutti i contributi. Un principio che ha i suoi pregi ma mostra anche i
suoi limiti: dall'inizio della seconda Intifada, il sito francese di
Indymedia ha lasciato pubblicare dei testi a carattere antisemita.

Genovesi, Blutaz et Rator hanno portato diverse ore di video che hanno
montato sul sito di Indymedia Italia. Ma, lo scorso febbraio, i
carabinieri hanno perquisito il TPO - che ospita i mediattivisti
bolognesi - e confiscato hard disk e archivi. "Il governo ha voluto
organizzare una prequisizione mediatica per intimidire il movimento
sociale in generale", interpreta Federico, sulla trentina e uno dei
pochi partecipanti all'hackmeeting che non ha uno pseudonimo, né la
maglietta nera. Federico è avvocato, specializzato nel diritto delle
nuove tecnologie. E' arrivato da Firenze - dove si terrà a novembre il
prossimo Forum sociale europeo - per assistere al seminario sui
cyberdiritti. Quando non lavora, Federico, 31 anni, prende la
videocamera per Indymedia. A Porto Alegre lo scorso febbraio, a Genova
l'anno scorso, il militante mette il suo occhio al servizio della causa
antiliberista. Il film che ha realizzato su Genova è uscito a settembre
in un centinaio di sale italiane. "La gente normale deve vedere cosa è
successo", dice questo cineamatore.

Da luglio 2001, con l'irruzione della sala stampa che avevano insediato
in una scuola del centro del capoluogo ligure per assicurare la
copertura del controvertice del G8, i mediattivisti italiani sono nel
mirino del Ministro dell'Interno, Claudio Scajola. "Durante il G8,
milioni di internauti hanno partecipato ad un Netstrike (un attacco
virtuale che consiste nel saturare un server bombardandolo di email)
contro il sito del FMI e della Banca Mondiale", ricorda Federico. "Oggi
due persone, bloccate per caso, sono indagate dalla giustizia italiana".
E l'avvocato continua: "Dall'11 settembre, l'Unione Europea si è
allineata agli Stati Uniti nell'adottare una legislazione molto
repressiva nei confronti di tutte le forme di dissidenza e in
particolare del movimento sociale. In Italia, per esempio, i guidici
possono ormai appoggiarsi ad una nuova legge del codice penale che
condanna gli "interventi illeciti di comunicazione elettronica" per
perseguire gli autori di Netstrikes, che non fanno d'altronde niente di
più riprorevole dei manifestanti che sfilano in piazza!".

Per evitare problemi con la giustizia, Raffaella, raro - anche se non
unico - esemplare femminile nell'universo molto maschile della comunità
hacker, ha forse trovato come uscirne: il boicottaggio elettronico.
Davanti ad una folla molto attenta, T-shirt con scritto "unhackable" sul
petto, questa romana spiega, piuttosto intimidita e assistita da suo
computer portatile, il concetto che sta sviluppando da quando è tornata
ad Aprile dalla Palestina tramite una lista di discussione che raggruppa
una cinquantina di persone. E che intende mettere in pratica contro un
primo bersaglio: Israele. "Ne' il governo italiano né l'Unione Europea
vogliono attuare l'embargo contro uno Stato che ne occupa un altro.
Abbiamo deciso quindi di fare da noi usando Internet. Cercando sul Web,
abbiamo identificato un obiettivo preciso: Gilat, una multinazionale
leader della nuova economia israeliana, quotata al Nasdaq e con un
volume d'affari annuo di 600 milioni di euro. Soprattutto abbiamo
scoperto che Tiscali, il principale fornitore d'accesso a Internet in
Italia, la cui comunicazione ruota tutta intorno ai valori di pace e
libertà, è il suo principale partner commerciale europeo. Per questo
abbiamo deciso di minacciarla di boicottaggio se non interrompe la sua
collaborazione con Gilat". Raffaella, che non naconde la sua difficoltà
a conciliare il fatto che lavora in una grande banca e il suo impegno
militante, conta su Internet per moltiplicare l'appello. "Grazie al web,
ognuno ha la possibilità di trasformarsi in un agente di diffusione
virale, nella famiglia, nella cerchia di amici o con i propri contatti
professionali". Una petizione indirizzata al CdA della ditta italiana è
già pronta per essere spedita.

A qualche passo da lì, all'ombra di un albero c'è un piccolo gruppo di
Barcellona che ha preferito venire a Bologna piuttosto che mescolarsi
alle decine di mgliaia di militanti andati a manifestare a Siviglia
contro il vertice dell'Unione Europea, e che non si pente della sua
scelta. "Qui è veramente fantastico - si entusiasmano l'uno con l'altro
- - abbiamo imparato molto dal nostro scambio con gli hacker italiani:
sono molto avanti rispetto a noi". All'inizio di ottobre, hanno
organizzato a Madrid il loro hackmeeting. I loro omologhi francesi
dovrebbero fare lo stesso alla fine di dicembre.

Stéphane Mandard

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