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Da "625 Libro bianco sulla Legge Reale" - pp. 317
Una lettera
di Ernesto Balducci *

Badia Fiesolana, 28 luglio 1989

La sentenza con cui, il 7 aprile '89, l'agente della Digos che, tre anni fa, uccise Luca Rossi, è stato in pratica prosciolto, è un nuovo segnale dello stato di violenza istituzionale in cui ci tocca ancora vivere, anche dopo che la stagione dei cosiddetti "anni di piombo", per riconoscimento ufficiale, si è chiusa.

Chi ha conosciuto come me la famiglia in cui Luca ha vissuto, l'ambiente sociale e politico che per anni è stato il suo mondo non può non avere dubbi sul carattere intrinsecamente violento delle istituzioni a cui è affidato l'ordine nel nostro paese e della società che in esse si riconosce. La passione per i diritti dell'uomo, verificati nella quotidiana esperienza dei processi di emarginazione e di sopruso che hanno libero spazio in una città come Milano, ormai del tutto posseduta dall'idolatria del profitto, non può non tener viva, specie nei più giovani, l'indignazione morale e spesso suggerisce forme associative dove è molto forte la ripugnanza per la violenza, specie per la violenza legale.

Luca era figlio di questo popolo sommerso, la cui forza coesiva è la scommessa, pagata di persona, sulla possibilità di un mondo diverso da questo. Sebbene formalmente fortuita, la sua morte è stata avvertita dal mondo a cui apparteneva come una morte programmata, già scritta nella tracotanza che il sistema repressivo inocula nelle forze dell'ordine, predisponendole al crimine preterintenzionale. Quest'ultimo rilievo non è genericamente moralistico, è storico, circostanziato, perché chiama in causa una serie di disposizioni legislative, escogitate per soffocare il terrorismo, fatte apposta per mettere in mora le garanzie democratiche della nostra costituzione. Le leggi dell'emergenza sono l'espressione e insieme la causa di una cultura la cui segreta intenzione è la demonizzazione del dissenso e quindi virtualmente la legittimazione di ogni gesto che si proponga di eliminarlo.

Mi torna in mente una pacifica riunione culturale (il tema era la ricerca scientifica) che si tenne, a Firenze, alla metà degli anni '70, nel palazzo Medici Riccardi.
Tra gli oratori c'era anche Lucio Lombardo Radice. Verso mezzanotte si udì un tumulto nelle strade vicine e poi un uragano di urla e di rumori metallici lungo le scale e i corridoi che immettevano nella sala. Entrarono, alla ricerca di un "provocatore", un gruppo di poliziotti armati di tutto punto, con i mitra spianati. Ne ebbi uno a un palmo dalla faccia. Notai le mani tremanti del poliziotto adolescente, il moto convulso dei suoi muscoli facciali. Poteva succedere una strage. Solenne e sereno, Lombardo Radice si recò tra di loro, li ammonì paternamente e li calmo. Uno di loro mi disse: «Sono 48 ore che non dormo, non ne posso più! » . Capii allora che l'eccitazione di quei giovani non era fortuita ma programmata, che il fatto di sangue non era un'eventualità imprevista ma uno sbocco messo tranquillamente in conto. E difatti, quella notte a Firenze, un pacifico dimostrante, l'operaio Boschi**, cadde ucciso sul marciapiede, forse da uno dei poliziotti entrati nella sala, vicino al palazzo mediceo.

Se ricordo il fatto è perché esso servì ad inculcarmi una convinzione che si è fatta sempre più salda, anche per il moltiplicarsi di episodi come la morte di Luca Rossi, e che in questi ultimi mesi è riaffiorata in me in occasione della proposta di indulto a favore dei carcerati per terrorismo.
E' una proposta di astuto paternalismo, il cui vero intento è di eludere un obbligo ben più grave che non quello, di per sé apprezzabile, di liberarsi la coscienza dalle malefatte delle leggi d'emergenza.

Stiamo ancora aspettando, in sede pubblica, un giudizio globale sul periodo che prende nome dalle Brigate rosse ma che ebbe origine con la strage di Stato di piazza Fontana.

Il terrore non va imputato in esclusiva ai terroristi rossi, va imputato globalmente alla società italiana degli anni '70 e in specie alle sue istituzioni dentro le quali - lo abbiamo saputo dopo - proliferavano gli adepti della P2.

Un parlamento degno delle sue funzioni istituzionali dovrebbe avocare a sé un giudizio globale per il quale i tribunali non hanno competenze.
Dovrebbe mettere sotto giudizio - parlo di un giudizio etico-politico - l'intero sistema che ha governato (e ancora governa?) la nostra società. Tra gli imputati collettivi dovrebbero esserci anche gli apparati giudiziari (non vanno dimenticati i famigerati carceri speciali) e in specle la polizia. In quella sede - chiedo scusa se mi abbandono a un sogno - noi dovremmo, attraverso i nostri rappresentanti, passare al vaglio, costituzione alla mano, i comportamenti degli apparati dello Stato, dall'esercito alla magistratura, dagli organi dell'esecutivo alle centrali pubbliche di informazione, e in questo quadro far luce sui crimini commessi dai fautori della lotta armata. Solo se, in base a questo pubblico giudizio, potessimo concludere che «Si, finalmente una pagina triste della nostra storia si è chiusa», solo in questo caso potremmo decidere se provvedere alla riconciliazione nazionale mediante un'amnistia.

Ma davvero quella pagina si è chiusa? L'ideologia del terrore non ha per caso le sue ostinate propaggini in molti angoli oscuri della nostra società? La documentazione preparata dal Centro di iniziativa Luca Rossi parla chiaro: le forze dell'ordine continuano ad uccidere in virtù di un automatismo che non trova il debito freno nei tutori delle garanzie democratiche.

La cronaca del processo contro l'uccisore di Luca è impressionante: essa documenta che la cultura che ha prodotto quell'assassinio è ancora molto diffusa, gode di insospettate omertà. E' bene gridarlo, anche se quell'omertà è in grado di soffocare ogni grido. E' bene, in ogni caso, affidare le sorti della verità, in attesa di un futuro migliore, al tam tam degli ostinati fautori della legalità democratica. Non ci basterebbe mandare in prigione un assassino vestito in divisa: il nostro scopo è di sottoporre gli organi dello Stato alla rigorosa, permanente sorveglianza della sovranità popolare. Il nome di Luca mette un sigillo di dignità a questo nostro impegno.

Ernesto Balducci


* (Pubblicista)
** [ll fatto avvenne il 19 aprile 1975 in una delle manifestazioni seguite alle uccisioni di Varalli e Zibecchi. A Firenze in quell'occasione entrarono in azione, sparando, agenti speciali in borghese (N.d.c.)]