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DOCUMENTAZIONE - NAUTILUS |
Miguel Amorós. L'INCREDIBILE ARTE DI DISTRUGGERE LE CITTÀ Sulla tendenza totalitaria del fenomeno urbano Elaborato sulla base delle interviste, delle conversazioni e dei dibattiti svoltisi il 7, 8 e 9 gennaio 2010 presso Radio Black Out (Torino), Librería Calusca (Milano), Sala Pasquale Cavaliere (Torino) ed Ex Pescheria di Avigliana (Val Susa). La città è un modello particolare di insediamento umano comparso per la prima volta nel IV millennio a.C. in Mesopotamia. Il vero Eden era una città, non un giardino. Lì nacquero la scrittura, la contabilità, le scienze, le arti e la vera democrazia; le idee di libertà e di rivoluzione, la sessualità non convenzionale, la poesia, la storia e la filosofia; ma anche la burocrazia, le gerarchie, le classi, gli eserciti regolari e il denaro. Pausania si rifiutava di chiamare città gli agglomerati privi di una piazza e di edifici pubblici, vale a dire senza uno spazio pubblico, senza un luogo di partecipazione e intervento diretto della cittadinanza, senza un terreno per la politica comunitaria (politica deriva da polis , città in greco). Infatti nella città il governo, la giustizia, la festa, il mercato, il teatro, il pensiero, il cerimoniale e la pedagogia, cioè tutte le attività considerate pubbliche, avvenivano all'aria aperta o in luoghi aperti al pubblico. I limiti della città erano perfettamente definiti da un recinto urbano protetto da mura e fossati. Esisteva una chiara distinzione tra la città, la forma eccezionale di uno spazio abitato, e la non città, la campagna, la forma abituale. Mantenendo tali criteri, nessuna urbe oggi conosciuta all'epoca sarebbe stata considerata una città, dato che nessuna dispone di spazi pubblici. Le rotonde hanno sostituito le piazze e le zone verdi i giardini pubblici, testimoni di un passato sul quale è stata fatta, teoricamente e praticamente, tabula rasa, mentre le nuove autostrade periferiche segnavano la demarcazione temporanea da colmare con un'ininterrotta ondata urbanizzatrice. L'urbe totalitaria nasce dalla distruzione e dalla fagocitazione dello spazio rurale; non si distingue da ciò che la circonda se non per la densità edificatoria, in costante aumento; non ha porte né limiti, solo circonvallazioni a più corsie, veri tentacoli attraverso i quali stringe l'intero territorio in un abbraccio letale. Alla varietà e originalità delle vie e delle piazze della città tradizionale contrappone la volgarità e la monotonia dei quartieri giustapposti. Alla bellezza delle sue architetture, che esprimono amore per la vita e per tutto ciò che è umano, l'urbe sovrappone la mostruosità di monumenti che pretendono di simboleggiare il progresso e la modernità. Le decisioni che riguardano i suoi abitanti sono prese in spazi totalmente chiusi, per non dire blindati, spesso privati, difesi da sbirri e telecamere. Niente avviene gratuitamente, nemmeno i grandi spettacoli sportivi e culturali che scandiscono le tappe urbanizzatrici: l'ingresso è a pagamento, bisogna sempre comprare un biglietto. La vita quotidiana trascorre all'interno di un veicolo, oppure in una casa-dormitorio bunkerizzata. Se la morte in città aveva sempre provocato una manifestazione di dolore pubblico, nell'urbe totalitaria è un fatto privato senza importanza, che riguarda soltanto il defunto. Vita e morte sono così simili che appena si riesce a distinguerle. Il risultato è l'insensibilità generale: i morti viventi non si preoccupano né delle sofferenze altrui, né dell'aria che respirano. In un'espansione senza fine, il territorio rurale perde il suo patrimonio storico, le sue leggi, le sue tradizioni locali e i suoi tratti identitari per trasformarsi in satellite amorfo della conurbazione centrale. In realtà è un territorio considerato edificabile, residenziale, area logistica o luogo di passaggio; insomma, un prolungamento dell'urbe al quale trasferire le sue penose condizioni di sopravvivenza e il suo modo tutto speciale di intendere il progresso: carovita, consumismo, ingorghi, insalubrità, nevrosi, rumore, inquinamento e cibo industriale. Non sarà certo l'amore per la libertà, la solidarietà o la vendetta di classe che potrà caratterizzare l'abitante, bensì le virtù del cittadino moderno, cioè la paura del prossimo, l'odio razziale e la manipolabilità: condizioni politiche fasciste. In realtà il territorio si potrebbe definire come lo spazio interstiziale tra due conurbazioni, destinato in quanto tale a scomparire per cedere il posto alle infrastrutture di trasporto veloce e alla concentrazione della popolazione dispersa. Il territorio occupato razionalmente, cioè con una bassa densità di popolazione, ideale per il modello di vita rurale, è inconcepibile per l'economia capitalista. A conti fatti, la vita in campagna risulta parca di profitti monetari; bisogna concentrare i suoi abitanti intorno a un centro commerciale e ricreativo, rinchiuderli in casa e collegarli alla televisione. Forse non fa bene agli abitanti, ma fa bene alla speculazione immobiliare, alla motorizzazione e all'attività turistica, quindi fa bene all'economia, che alla fine è quella che decide. L'urbanesimo vero e proprio nasce con la rivoluzione industriale. Nel corso della storia la città aveva già subìto gli attacchi di poteri totalitari, mai però le sue componenti erano rimaste intrappolate in una relazione sociale astratta, mai erano state condizionate esclusivamente da cose, che fossero merce, lavoro o denaro. Questo processo ebbe inizio con l'ascesa della borghesia al potere. Se il primo urbanesimo borghese proclamò la città il luogo privilegiato per l'accumulazione del capitale, è soltanto quando questa funzione viene dichiarata l'unica che si può parlare di totalitarismo. Da un dominio formale del capitale si è passati a un dominio reale. Ho definito questa fase sviluppo urbanizzatore perché in tale fase storica, che prelude all'urbe fascista, viene stabilita la priorità della crescita economica e urbana al di là di qualsiasi altra considerazione. Questo proposito fu suggellato da un patto sociale concluso tra dirigenti politici, imprenditori nazionali e funzionari sindacali, che ha prodotto trent'anni gloriosi di benefici e ha trasformato le classi pericolose in masse addomesticate. Le grandi famiglie borghesi hanno ceduto il comando a dirigenti e quadri esecutivi. Da una società di produttori si è passati a una società di consumatori; da un'economia industriale a un'economia di servizi; da un capitalismo nazionale tutelato dallo Stato a un capitalismo globale diretto dall'alta finanza. Lo sviluppo urbano è un periodo di transizione che comincia con l'annientamento dell'agricoltura contadina e finisce con la crisi dell'industria. A partire da questo momento tutti i problemi saranno ridotti alla loro dimensione tecnica, specialmente quelli urbanistici. Di lì in poi la politica, l'economia, il diritto e la morale saranno privi di autonomia, e potranno essere affrontati soltanto sul piano della tecnica, in nome del progresso e del futuro, intesi - è chiaro - come progresso e futuro tecnici. Quando la tecnologia si sovrappone a qualsiasi discorso ideologico e occupa un posto centrale, essa diventa il punto di partenza per la soluzione di tutte le questioni. La modernizzazione tecnologica sarà la chiave per superare tutti gli ostacoli e il criterio fondamentale della verità ammodernata. Per contro, la resistenza oppostale definirà il nemico sociale, il reazionario, l'«antisistema». La libertà esiste in una sola direzione, quella della tecnica: chiunque è libero di comprare un'automobile e ha diritto alla velocità; la lentezza e il camminare sono atti sovversivi. La tecnica non è neutrale; è strumento e arma e, in quanto tale, è al servizio di chi ne detiene il segreto, di chi decide dove e come applicarla. Serve cioè il potere dominante, il potere della dominazione. È il connubio con il capitale ad averla posta al servizio dell'oppressione, determinandone sia l'evoluzione e lo sviluppo, sia il divenire religioso. La tecnica è simultaneamente condizione esistenziale e religione delle masse spoliticizzate, ammaestrate e spaventate. Giunta a questo stadio, la tecnica è già totalitaria. Non tanto perché abbraccia la totalità della vita, ma perché distrugge tutto. Non conosce limiti, perché non riconosce la supremazia dell'umano. La stessa limitazione delle risorse, delle nocività ambientali o del degrado della vita serve da stimolo. Esistono soluzioni tecniche per tutto, e non ne occorrono altre. In questo caso specifico diremmo che l'urbanesimo totalitario è tecnicistico, che segue le leggi e i principi della tecnologia e, come la tecnologia, funziona distruggendo tutto il precedente per poi ricostruirlo ad ogni innovazione. Sotto la dittatura della tecnologia non è il lavoro a diventare precario: è l'esistenza stessa. Eliminato il proletariato dalle fabbriche, le forze produttive, già eminentemente tecniche, sono in sostanza forze distruttive. Anche l'urbanesimo lo è. La crescita economica, che può basarsi soltanto su mezzi tecnici, impone, attraverso i meccanismi urbanizzatori, uno stato di guerra permanente contro il territorio e i suoi abitanti. Per questo gli architetti e gli urbanisti dovranno essere giudicati come criminali di guerra. La lotta contro lo sviluppo e in difesa del territorio è l'unica che solleva la questione sociale nella sua totalità, perché è più che mai una lotta per la vita. È la lotta di classe del XXI secolo. Una lotta che non si intende condurre in armonia con un modello capitalista che non viene messo in discussione: tale lotta è impensabile se non si inserisce in un contesto di autogestione territoriale. Soltanto sul terreno delle lotte contro la barbarie urbanizzatrice potranno soffiare i venti di libertà esalati dalle città originarie e potranno rinascere le pratiche vitali e feconde che caratterizzarono la cultura agraria. Hic Rhodus, hic salta! |
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