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Avviso
agli studenti
di Raoul Vaneigem, 1995
Titolo originale: Avertissement aux écoliers et lycéens
(1995)
Traduzione di Sergio Ghirardi.
Pubblicato da Nautilus, 1996, Torino.
Indice
Capitolo I
Avviso Agli Studenti
Una scuola dove la vita si annoia insegna solo le barbarie
Capitolo II
Farla finita con l'educazione carceraria e la castrazione del desiderio
Una scuola che ostacola i desideri stimola l'aggressività
Come può esserci conoscenza dove c'è oppressione?
Imparare senza desiderio vuol dire disimparare a desiderare
Errore non vuol dire colpa
Solo coloro che posseggono la chiave dei campi e la chiave dei sogni apriranno
la scuola su una società aperta
Capitolo III
Smilitarizzare l'insegnamento
Ciò che si insegna attraverso la paura rende il sapere timoroso
Liberare dalla costrizione il desiderio di sapere
Capitolo IV
Fare della scuola un centro di creazione di vita, non l'anticamera di
una società parassitaria e mercantile
Delle nuove leve per gestire il fallimento
La fine del lavoro forzato inaugura l'era della creatività
Privilegiare la qualità
Capitolo V
Imparare l'autonomia, non la dipendenza
L'alleanza con il bambino è un'alleanza con la natura
Sull'aiuto indispensabile al rifiuto dell'assistenza permanente
Il denaro del servizio pubblico non deve più essere al servizio
del denaro
L'essere umano deve
potere tutto, e non dovere niente.
Non c'erano che poche cose, in effetti, di cui non si credeva capace.
Non contava che tutto quello che faceva gli riuscisse: spesso non gli
riusciva.
Ma lo poteva lo stesso.
Georg Groddeck
Capitolo I
Avviso agli studenti
La scuola è stata, con la famiglia, la fabbrica, la caserma e accessoriamente
l'ospedale e la prigione, il passaggio ineluttabile in cui la società
mercantile piegava a suo vantaggio il destino degli esseri che si dicono
umani.
Il governo che essa esercitava su nature ancora appassionate delle libertà
dell'infanzia l'apparentava, infatti, a quei luoghi poco propizi alla
realizzazione e alla felicità che furono - e che restano in diversa
misura - il recinto familiare, l'officina o l'ufficio, l'istituzione militare,
la clinica, le carceri.
La scuola ha forse perso il carattere ributtante che presentava nel XIX
e XX secolo, quando rompeva gli spiriti e i corpi alle dure realtà
del rendimento e della servitù, facendosi gloria di educare per
dovere, autorità e austerità, non per piacere e per passione?
Niente è meno certo, e non si potrà negare che sotto l'apparente
sollecitudine della modernità, numerosi arcaismi continuano a scandire
la vita di studentesse e studenti.
L'impresa scolastica non ha forse obbedito fino ad oggi a una preoccupazione
dominante: migliorare le tecniche di ammaestramento affinché l'animale
sia redditizio?
Nessun ragazzo supera la soglia di una scuola senza esporsi al rischio
di perdersi: voglio dire di perdere questa vita esuberante, avida di conoscenze
e di meraviglie, che sarebbe così esaltante nutrire, invece di
sterilizzarla e farla disperare con il noioso lavoro del sapere astratto.
Che terribile constatazione quegli sguardi così brillanti di colpo
sbiaditi!
Ecco quattro muri. Il consenso generale decide che, con ipocriti riguardi,
vi saremo imprigionati, costretti, colpevolizzati, giudicati, onorati,
puniti, umiliati, etichettati, manipolati, vezzeggiati, violentati, consolati,
trattati come aborti che questuano aiuto e assistenza. Di che cosa vi
lamentate? obbietteranno gli autori di leggi e decreti. Non è forse
il modo migliore di iniziare i novellini alle regole immutabili che reggono
il mondo e l'esistenza? Senza dubbio. Ma perché i giovani dovrebbero
ancora accontentarsi di una società senza gioia e senza avvenire,
che gli stessi adulti sopportano ormai rassegnati, con un'acrimonia e
un malessere crescenti?
Una scuola dove la vita si annoia insegna solo la barbarie
Il mondo è cambiato più in trent'anni che in tremila. Mai
- perlomeno nell'Europa occidentale - la sensibilità dei ragazzi
ha tanto deviato dai vecchi istinti predatori che fecero dell'animale
umano la più feroce e la più distruttrice delle specie terrestri.
Eppure, l'intelligenza resta fossilizzata, quasi impotente a percepire
la mutazione che si opera sotto i nostri occhi. Una mutazione paragonabile
all'invenzione dell'utensile, che produsse un tempo il lavoro di sfruttamento
della natura e generò una società composta di padroni e
di schiavi. Una mutazione in cui si rivela la vera specificità
umana: non la produzione di una sopravvivenza sottomessa agli imperativi
di un'economia lucrativa, ma la creazione di un ambiente favorevole a
una vita più intensa e più ricca.
Il nostro sistema educativo si inorgoglisce a ragione di aver risposto
con efficacia alle esigenze di una società patriarcale un tempo
onnipotente, tenendo conto di un solo dettaglio: che una tale gloria è
al contempo ripugnante e superata.
Su cosa poggiava il potere patriarcale, la tirannia del padre, la potenza
del maschio? Su una struttura gerarchica, il culto del capo, il disprezzo
della donna, la devastazione della natura, lo stupro e la violenza oppressiva.
Questo potere, la storia lo abbandona ormai in uno stato di avanzata decomposizione:
nella comunità europea, i regimi dittatoriali sono scomparsi, l'esercito
e la polizia virano all'assistenza sociale, lo Stato si dissolve nelle
acque torbide degli affari e l'assolutismo paternalistico non è
altro che un ricordo di marionette.
Bisogna davvero coltivare la stupidità con una prolissità
ministeriale per non revocare immediatamente un insegnamento che il passato
impasta ancora con i lieviti ignobili del dispotismo, del lavoro forzato,
della disciplina militare e di quell'astrazione, la cui etimologia - abstrahere,
tirar fuori da - esprime bene l'esilio da sé, la separazione dalla
vita.
Finalmente agonizza quella società in cui si entrava vivi solo
per imparare a morire. La vita riprende i suoi diritti timidamente come
se, per la prima volta nella storia, essa si ispirasse ad un'eterna primavera
anziché mortificarsi di un inverno senza fine.
Odiosa ieri, la scuola oggi è soltanto ridicola. Essa funzionava
implacabilmente secondo i meccanismi di un ordine che si credeva immutabile.
La sua perfezione meccanica tetanizzava l'esuberanza, la curiosità,
la generosità degli adolescenti per meglio integrarli nei cassetti
di un armadio che l'usura del lavoro trasformava a poco a poco in bara.
Il potere delle cose usciva vincitore sul desiderio degli esseri.
La logica di un'economia allora fiorente era irrefrenabile, come lo sgranarsi
delle ore della sopravvivenza che suonano con costanza a raccolta verso
la morte. La potenza dei pregiudizi, la forza d'inerzia, la rassegnazione
abitudinaria esercitavano così comunemente la loro presa sull'insieme
dei cittadini che ad eccezione di qualche renitente, amante dell'indipendenza,
la maggior parte delle persone trovava il proprio tornaconto nella miserabile
speranza di una promozione sociale e di una carriera garantita fino alla
pensione.
Non mancavano dunque delle eccellenti ragioni per spingere il ragazzo
sulla retta via della convenienza, perché rimettersi ciecamente
all'autorità professorale offriva all'impetratore gli allori di
una ricompensa suprema: la certezza di un lavoro e di un salario.
I pedagoghi dissertavano sul fallimento scolastico senza preoccuparsi
dello scacchiere su cui si tramava l'esistenza quotidiana, giocata ad
ogni passo nell'angoscia del merito e del demerito, della perdita e del
profitto, dell'onore e del disonore. Una costernante banalità regnava
nelle idee e nei comportamenti: c'erano i forti e i deboli, i ricchi e
i poveri, i furbi e gli imbecilli, i fortunati e gli sfortunati.
Certo la prospettiva di dover passare la propria vita in una fabbrica
o in un ufficio a guadagnare il denaro del mese non era atta ad esaltare
i sogni di felicità e di armonia che l'infanzia nutriva. Essa produceva
in serie degli adulti insoddisfatti, frustrati di un destino che avrebbero
desiderato più generoso. Delusi e istruiti dalle lezioni dell'amarezza
non trovavano, nella maggior parte dei casi, altra scappatoia al loro
risentimento che dispute assurde, sostenute dalle migliori ragioni del
mondo. I conflitti religiosi, politici, ideologici procuravano loro l'alibi
di una Causa - come dicevano pomposamente - che nascondeva loro di fatto
la triste violenza del male di sopravvivere di cui soffrivano. Così
la loro esistenza scorreva nell'ombra ghiacciata di una vita assente.
Ma quando l'aria è ammorbata, gli appestati dettano legge. Per
inumani che fossero i principi dispotici che reggevano l'insegnamento
e inculcavano ai ragazzi le sanguinose vanità dell'età adulta
- quelli che Jean Vigo beffeggia nel suo film Zero in condotta -, partecipavano
della coerenza di un sistema preponderante, rispondevano alle ingiunzioni
di una società che non si riconosceva altro motore principale se
non il potere e il profitto.
Ma oramai, anche se l'educazione si ostina ad obbedire agli stessi moventi,
la coerenza è scomparsa: c'è sempre meno da guadagnare e
sempre più vita sprecata a raschiare gli avanzi.
L'insopportabile predominanza degli interessi finanziari sul desiderio
di vivere non riesce più a ingannare. Il tintinnio quotidiano dell'esca
del guadagno risuona assurdamente nella misura in cui il denaro si svaluta,
che un fallimento comune livella capitalismo di Stato e capitalismo privato,
e che scivolano verso la fogna del passato i valori patriarcali del padrone
e dello schiavo, le ideologie di destra e di sinistra, il collettivismo
e il liberalismo, tutto ciò che si è edificato sullo stupro
della natura terrestre e della natura umana in nome della sacrosanta merce.
Un nuovo stile sta nascendo, dissimulato soltanto dall'ombra di un colosso
i cui piedi di argilla hanno già ceduto. La scuola rimane confinata
nella penombra del vecchio mondo che sprofonda.
Bisogna distruggerla? Domanda doppiamente assurda.
Prima di tutto perché è già distrutta. Sempre meno
interessati da ciò che insegnano e studiano - e soprattutto dalla
maniera di istruire e istruirsi - professori e allievi non sono forse
indaffarati a far colare a picco insieme il vecchio piroscafo pedagogico
che fa acqua da tutte le parti?
La noia genera la violenza, la bruttezza degli edifici incita al vandalismo,
le costruzioni moderne, cementate dal disprezzo degli impresari immobiliari,
si screpolano, crollano, prendono fuoco, secondo l'usura programmata dei
loro materiali di paccottiglia.
In secondo luogo, perché l'istinto di annientamento si iscrive
nella logica di morte di una società mercantile la cui necessità
lucrativa esaurisce la parte viva degli esseri e delle cose, la degrada,
la inquina, la uccide. Accentuare la rovina non dà profitti solo
agli avvoltoi dell'immobiliare, agli ideologi della paura e della sicurezza,
ai partiti dell'odio, dell'esclusione, dell'ignoranza, dà anche
garanzie a quell'immobilismo che non cessa di cambiare abiti nuovi e maschera
la sua nullità dietro a riforme tanto spettacolari quanto effimere.
La scuola è al centro di una zona di turbolenza dove gli anni giovanili
rovinano nella tetraggine, dove la nevrosi coniugata dell'insegnante e
dell'insegnato imprime il suo movimento al bilanciere della rassegnazione
e della rivolta, della frustrazione e della rabbia. Essa è anche
il luogo privilegiato di una rinascita. Porta in gestazione la coscienza
che è al centro della nostra epoca: assicurare la priorità
di ciò che vive sull'economia di sopravvivenza.
Essa detiene la chiave dei sogni in una società senza sogno: la
risoluzione di cancellare la noia sotto il rigoglio di un paesaggio in
cui la volontà di essere felici bandirà le fabbriche inquinanti,
l'agricoltura intensiva, le prigioni di ogni genere, i laboratori di affari
sospetti, i depositi di prodotti sofisticati, e quelle cattedre di verità
politiche, burocratiche, ecclesiastiche che chiamano lo spirito a meccanizzare
il corpo e lo condannano a claudicare nell'inumano.
Stimolato dalle speranze della Rivoluzione, Saint-Just scriveva: "La
felicità è un'idea nuova in Europa." Ci sono voluti
due secoli perché l'idea, cedendo al desiderio, esigesse la sua
realizzazione individuale e collettiva.
Ormai, ogni bambino, ogni adolescente, ogni adulto si trova all'incrocio
di una scelta: sfinirsi in un mondo sfinito dalla logica della redditività
ad ogni costo, o creare la propria vita creando un ambiente che ne assicuri
la pienezza e l'armonia. Perché l'esistenza quotidiana non può
essere confusa più a lungo con questa sopravvivenza adattativa
a cui l'hanno ridotta gli uomini che producono la merce e dalla quale
sono prodotti.
Noi non vogliamo più una scuola in cui si impara a sopravvivere
disimparando a vivere. La maggior parte degli uomini non sono stati altro
che animali spiritualizzati, capaci di promuovere una tecnologia al servizio
dei loro interessi predatori ma incapaci di affinare umanamente la vita
e raggiungere così la propria specificità di uomo, di donna,
di fanciullo. Al termine di una corsa frenetica verso il profitto, i topi
in tuta e in giacca e cravatta scoprono che non resta più che una
misera porzione del formaggio terrestre che hanno rosicchiato da ogni
lato. Dovranno progredire nel deperimento, o operare una mutazione che
li renderà umani.
É tempo che il memento vivere prenda il posto del memento mori
che bollava le conoscenze sotto il pretesto che niente è mai acquisito.
Ci siamo lasciati troppo a lungo persuadere che non c'era da attendere
altro dalla sorte comune che la decadenza e la morte. É una visione
da vegliardi prematuri, da golden boys caduti in senilità precoce
perché hanno preferito il denaro all'infanzia. Che questi fantasmi
di un presente coniugato al passato cessino di occultare la volontà
di vivere che cerca in ciascuno di noi la via della sua sovranità!
Per spezzare l'oppressione, la miseria, lo sfruttamento, non basta più
una sovversione avvelenata dai valori morti che essa combatte. É
venuta l'ora di scommettere sulla passione incomprimibile di ciò
che è vivo, dell'amore, della conoscenza, dell'avventura che chiunque
abbia deciso di crearsi secondo la sua "linea di cuore" inaugura
ad ogni istante.
La società nuova comincia dove comincia l'apprendistato di una
vita onnipresente. Una vita da percepire e da comprendere nel minerale,
nel vegetale, nell'animale, regni da cui l'uomo deriva e che porta in
sé con tanta incoscienza e disprezzo. Ma anche una vita fondata
sulla creatività, non sul lavoro; sull'autenticità, non
sull'apparire; sull'esuberanza dei desideri, non sui meccanismi di rimozione
e di sfogo. Una vita spogliata della paura, dell'obbligo, del senso di
colpa, dello scambio, della dipendenza. Perché essa coniuga inseparabilmente
la coscienza e il godimento di sé e del mondo.
Una donna che ha la sfortuna di abitare un paese incancrenito dalla barbarie
e dall'oscurantismo scriveva: "In Algeria si insegna al bambino a
lavare un morto, io voglio insegnargli i gesti dell'amore." Senza
scadere in tanta morbosità, il nostro insegnamento, sotto la sua
apparente eleganza, troppo spesso, non è stato che un abbigliamento
dei morti. Si tratta ora di ritrovare fin nelle formulazioni del sapere
i gesti dell'amore: la chiave della conoscenza è la chiave della
libertà dove l'affetto è offerto senza riserve.
Che l'infanzia sia caduta nella trappola di una scuola che ha ucciso il
meraviglioso invece di esaltarlo indica abbastanza in quale urgenza si
trovi l'insegnamento, se non vuole cadere in seguito nella barbarie della
noia, di creare un mondo di cui sia permesso meravigliarsi.
Guardatevi tuttavia dall'attendere aiuto o panacea da qualche salvatore
supremo. Sarebbe vano, sicuramente, accordare credito a un governo, a
una fazione politica, accozzaglia di gente preoccupata di sostenere prima
di tutto l'interesse del loro potere vacillante; e nemmeno a tribuni e
maitres à penser, personaggi massmediatici che moltiplicano la
loro immagine per scongiurare la nullità che riflette lo specchio
della loro esistenza quotidiana. Ma sarebbe soprattutto andare contro
se stessi, inginocchiarsi come un questuante, un assistito, un inferiore,
mentre l'educazione deve avere per scopo l'autonomia, l'indipendenza,
la creazione di sé, senza la quale non vi è vero aiuto reciproco,
autentica solidarietà, collettività senza oppressione.
Una società che non ha altra risposta alla miseria che il clientelismo,
la carità e l'arte di arrangiarsi è una società mafiosa.
Mettere la scuola sotto il segno della competizione è incitare
alla corruzione, che è la morale degli affari.
La sola assistenza degna di un essere umano è quella di cui ha
bisogno per muoversi con i propri mezzi. Se la scuola non insegna a battersi
per la volontà di vivere e non per la volontà di potenza,
essa condannerà intere generazioni alla rassegnazione, alla servitù
e alla rivolta suicida. Rovescerà in soffio di morte e di barbarie
ciò che ciascuno possiede in sé di più vivo e di
più umano.
Io non immagino altro progetto educativo che quello di formarsi nell'amore
e nella conoscenza di ciò che è vivo. Al di fuori di una
scuola della vita* dove la vita si trova e si cerca senza fine - dall'arte
di amare fino alle matematiche speculative - non vi è che la noia
e il peso morto di un passato totalitario.
Nota:
* Nel testo école buissonnière. Faire l'école buissonière
significa marinare la scuola, ma nel contesto significa una struttura
di apprendimento senza rigidità, aperta alla vita (N. d. T.).
Capitolo II
Farla finita con l'educazione carceraria e la castrazione del desiderio
Ancora ieri istillato fin dalla più tenera infanzia, il sentimento
di colpa erigeva intorno a ciascuno la più sicura delle prigioni,
quella in cui sono murati i desideri. Per interi millenni, l'idea di una
natura sfruttabile e soggetta a servitù a piacere ha condannato
al peccato, al rimorso, alla penitenza, alla rimozione amara e allo sfogo
compulsivo la semplice inclinazione a godere di tutti i piaceri della
vita.
Quale dovrebbe essere la preoccupazione essenziale dell'insegnamento?
Aiutare il fanciullo nel suo approccio alla vita per fargli imparare a
sapere ciò che vuole e volere ciò che sa; cioè a
soddisfare i suoi desideri, non nella soddisfazione animale ma secondo
gli affinamenti della coscienza umana.
Si è prodotto l'opposto. L'apprendimento si è fondato sulla
repressione dei desideri. Si è rivestito il fanciullo di abiti
angelici sotto i quali non ha mai smesso di fare la bestia, una bestia
snaturata per di più. Come stupirsi che le scuole imitino così
bene, nella loro concezione architettonica e mentale, i penitenziari dove
i reprobi sono esiliati dalle gioie ordinarie dell'esistenza?
Una scuola che ostacola i desideri stimola l'aggressività.
Gli antichi edifici scolastici ricordano i penitenziari. Le finestre poste
in alto non permettevano allo sguardo dell'allievo che un'occhiata verso
il cielo, unico spazio riservato alla felicità delle anime, se
non dei corpi. Perché il corpo, immobilizzato su un banco di studio
presto trasformato in banco di tortura, subiva nell'imbarazzo ordinario
il suo destino terrestre.
Prevaleva allora l'opinione che per istruirsi (come per essere belli)
bisognava imparare a soffrire. Entrare nell'età adulta, non era
forse rinunciare ai piaceri dell'infanzia per progredire in una valle
di lacrime, di decrepitezza, di morte?
I pedagoghi hanno sempre affermato che la disciplina e il mantenimento
dell'ordine formavano la conditio sine qua non di tutta l'educazione.
Oggi percepiamo meglio fino a che punto la loro pretesa scienza discendeva
di fatto da una comunissima pratica repressiva: incoraggiare il disprezzo
di sé e vessare gli "appetiti carnali" allo scopo di
elevare l'uomo al settimo cielo dello spirito strappandolo alla materia
terrestre.
Una volta declassato il corpo allo stato di oggetto e, nel caso specifico,
di materiale scolastico, l'istruttore trovava ancor più facile
far entrare nel cranio dello studente delle nozioni rispettabili e rispettose
dell'autorità. Sollecitare l'intelligenza astratta e la ragione
"obiettiva" contribuiva a nascondere quell'intelligenza sensibile
e sensuale incastrata ai desideri, quella piccola luce del cuore che si
accende quando il fanciullo, ritrovandosi solo con se stesso, si pone
la domanda: tutte queste conoscenze, assestate con la forza e la minaccia,
quanto mi aiuteranno a sentirmi bene nella mia pelle, a vivere più
felice, a diventare ciò che sono?
I metodi educativi hanno rinunciato alle punizioni corporali all'epoca
in cui lo schiaffo e il calcio nel culo hanno smesso di costituire l'essenziale
di un'educazione familiare che, a detta dei torturatori, aveva sempre
dato prova di sé.
Eccome!
Questo non significa tuttavia che il corpo sfugga ormai alle vessazioni,
alla mortificazione, al disprezzo. I sensi non sono forse posti sotto
alta sorveglianza durante le ore di studio e nello spazio che è
loro riservato? L'occhio ha il dovere di incollarsi ai gesti del maestro.
La bocca non si aprirà che all'invito del mentore, e guai a ciò
che oserà profferire! Risposte sbagliate, proposizioni scandalose
suscitano la bastonata, il rabbuffo, la presa in giro, l'umiliazione;
mentre la parola pertinente o servile si attira la lode che il bilancio
promozionale di fine anno si incaricherà di contabilizzare. La
mano, infine, si leverà con educazione per sollecitare l'attenzione
del pedante, con il rischio, fino a poco tempo fa, di farsi battere sulle
dita con la regola del retto buon senso.
Ci si accorge, con la distanza del tempo, che studenti e studentesse sono
stati trattati secondo i procedimenti dello scienziato staliniano Pavlov
che, tra i cani del suo laboratorio, ricompensava la buona risposta con
uno zuccherino e puniva l'errore con un choc elettrico. Non fu forse necessario
che il disprezzo fosse la norma di un'epoca perché dei pedagoghi
preconizzassero un metodo educativo che nessun essere umano degno di questo
nome infliggerebbe oggi a un cane? Ed è poi così sicuro
che la scuola non resti, nella vigliaccheria di un consenso generale,
un luogo di ammaestramento e di condizionamento, al quale la cultura serve
da pretesto e l'economia da realtà?
Come può esserci conoscenza dove c'è oppressione?
Mantenute dalla paura di muoversi in una prigione di muscoli tetanizzati,
le emozioni rimosse instaurano tra l'oppressore e l'oppresso una logica
di distruzione e di autodistruzione che spezza ogni forma di comunicazione
illuminata.
Alle stupide pretese del maestro di regnare tirannicamente sulla classe
rispondono con eguale stupidità il baccano e il chiasso che servono
da sfogo alle energie represse.
Ovunque la prigione, il ghetto, la corazza caratteriale impongono la loro
strategia di clausura, lo slancio della disperazione leva il pugno del
devastatore. La mano dello scolaro si vendica mutilando tavoli e sedie,
macchiando i muri di segni insolenti, strappando gli orpelli della bruttezza,
sacralizzando un vandalismo in cui la rabbia di distruggere compensa il
sentimento di essere distrutti, violentati, messi a sacco dalla trappola
pedagogica quotidiana.
Le bocche si aprono in grida stizzose di protesta, gli occhi attingono
nella sfida il bagliore di entusiasmo che è loro rifiutato. Così
i movimenti di contestazione periodicamente risvegliati dalle direttive
di istanze burocratiche e governative scadono - per assenza di creatività
- nello stesso grigiore e nella stessa stupidità del potere inconsistente
che li ha provocati. Che ci si può aspettare da manifestazioni
gregarie in cui l'intelligenza degli individui, in mancanza di un progetto
di cambiamento radicale, si riduce, secondo il comun denominatore delle
folle, al più basso livello di comprensione?
Per evitare l'esplosione dei desideri rimossi alla rinfusa, le autorità
hanno saputo approntare sacche di decompressione e di trasgressioni controllate.
Il lassismo non è il soffio della libertà, è il fiato
della tirannia.
Il cortile di ricreazione previsto in prigioni, caserme e scuole permette
all'energia libidica compressa dai rigori della disciplina di sfogarsi
a piacimento. Esso conserva la separazione fra la testa - il "capo"
- e il resto del corpo, che per principio le è sottomesso, ma rovescia
l'ordine gerarchico stabilito durante il tempo dello studio. L'ultimo
vi diviene il primo: il cattivo scolaro e il bruto muscoloso diventano
i leader e la fanno pagare al primo della classe. Nulla è cambiato
se non che le pulsioni della vita oppressa si sfogano in pulsioni di morte.
Una volta chiusa la parentesi del disordine tollerato, lo spirito riprende
i suoi diritti, con la missione di regnare sul caos. Quelli che il potere
professorale ha aureolato della santità del sapere riprendono il
loro posto in testa al plotone. La loro intellettualità rigetta
nelle tenebre la bestia che si aggira nel profondo dell'essere, mentre
la loro superiorità si afferma sull'orda degli indisciplinati,
degli svagati, degli ultimi della classe, chiamati bestioni, secondo un
insulto che meriterebbe di essere analizzato più a fondo (quando
si prenderà coscienza che rinnegare l'animalità delle pulsioni
invece di affinarle non conduce all'umanità ma ad una bestialità
dal volto umano).
Esiste evidentemente un ritmo naturale dello sforzo e del riposo, della
concentrazione e del rilassamento, ma l'organizzazione sociale del lavoro
ha sostituito alla semplice alternanza di contrazione e decontrazione
il meccanismo psicologico di rimozione e sfogo. Il comportamento ordinario
dello sfruttatore che accorda agli sfruttati un periodo di ricreazione
per rinviarli ben disposti alla fabbrica e all'ufficio si è espresso
perfettamente nell'affermazione del generale de Gaulle irritato dalla
rivoluzione del 1968: "È ora di fischiare la fine dell'ora
di ricreazione."
Imparare senza desiderio vuol dire disimparare a desiderare.
Il disprezzo di sé e degli altri è inerente al lavoro di
sfruttamento della natura terrestre e della natura umana. Ecco perché
pochi pensano ad indignarsi del fatto che sia moneta corrente negli scambi
tra professori e allievi. Sarebbe illusorio credere che una pratica talmente
intollerabile possa cessare per effetto di una scelta etica, di una volontà
di cortesia, di qualche formula del tipo "le sarei grato di non parlarmi
su questo tono". Ciò che è in gioco è una rifondazione
radicale della società e di un insegnamento che non ha ancora scoperto
che ogni bambino, ogni adolescente possiede allo stato bruto l'unica ricchezza
dell'uomo, la sua creatività.
Come si può eccitare la curiosità in esseri tormentati dall'angoscia
della colpa e la paura delle sensazioni? Certo esistono professori sufficientemente
entusiasti da appassionare il loro uditorio e far dimenticare per un istante
le condizioni detestabili che degradano il loro mestiere. Ma quanti, e
per quanti anni?
Mettete da una parte i burocrati che terrorizzano la loro classe e ne
sono a loro volta terrorizzati, e dall'altra gli artisti, saltimbanchi
e funamboli del sapere, capaci di conquistare l'attenzione senza doversi
mai trasformare in guarda-ciurme o in caporali.
Non si tratta qui di giudicare, né di entrare nella pratica imbecille
del merito e del demerito, vituperando i primi e lodando i secondi. No,
ciò che importa è far di tutto perché l'insegnamento
mantenga sveglia quella curiosità naturale e così piena
di vita che permise a Sheherazade il privilegio di tenere in scacco la
morte di cui la minacciava un tiranno.
L'aberrazione del mondo a rovescio ha pesato per secoli sull'educazione
del fanciullo.
Cha tanti sforzi e fatica siano richiesti da parte del maestro e dell'allievo
per ravvivare un'avidità di sapere così freneticamente espressa
nella primissima infanzia dice abbastanza chiaramente che un'evoluzione
è stata brutalmente interrotta. La curiosità è stata
veramente soffocata in un periodo in cui essa partecipava dello sviluppo
ludico dell'infanzia, quando era divertente eppure gettava le basi di
una gaia scienza, incompatibile con la visione austera degli adulti, per
i quali la scienza si veste della serietà degli affari e deve propagarsi
tramite verità secche, noiose, astratte.
Ricordatevi delle mille domande che il bambino pone su se stesso e sul
mondo che scopre con uno stupore senza fine. Perché piove? Perché
il mare è blu? Perché mio fratello mi prende i giocattoli?
Le risposte ricevute erano nella maggior parte dei casi solo frasi evasive
e sgarbate. Finché stanco di un procedimento di cui gli veniva
fatta sentire la sconvenienza, si lasciava penetrare dall'impressione
di non essere né degno né capace di capire. Come se ogni
tappa dello sviluppo psicologico non avesse il suo modo di comprensione
adeguato.
Quando, finalmente disgustato da tante domande giudicate senza interesse,
entra nel ciclo degli studi, gli si danno risposte di cui ha perduto il
desiderio. Ciò che con passione aveva voluto conoscere qualche
anno prima, è costretto a studiare per forza e sbadigliando di
noia.
La differenza tra sensazioni di felicità e di infelicità
aveva fatto nascere in lui quella coscienza sperimentale che permetteva
di migliorare le prime ed evitare le altre. Sostenuta da una pedagogia
parentale piena di attenzione, di sollecitudine e di affetto, una tale
motivazione psicologica l'avrebbe spinto a desiderare senza fine, a volerne
sapere di più, ad affrontare il mondo con una curiosità
senza limiti. Per la semplice ragione che le conoscenze obbedivano allora
alla più naturale delle pulsioni: rendersi felici.
Se l'insegnamento è ricevuto con reticenza, e perfino con ripugnanza,
vuol dire che il sapere filtrato dai programmi scolastici porta il segno
di un'antica ferita: è stato castrato della sua sensualità
originaria.
La conoscenza del mondo senza la coscienza dei desideri di vita è
una conoscenza morta. Essa non ha utilità che al servizio dei meccanismi
che trasformano la società secondo le necessità dell'economia.
I lenimenti che essa procura alla sorte degli uomini, non li cede che
a malincuore, e sotto la minaccia di un rigore futuro che ne cancellerà
gli effetti.
Dopo aver strappato lo scolaro alle sue pulsioni di vita, il sistema educativo
si industria per ingozzarlo artificialmente allo scopo di immetterlo sul
mercato del lavoro, dove continuerà a ripetere stentatamente il
lietmotiv dei suoi anni giovanili fino al disgusto: vinca il migliore!
Vincere che cosa? Più intelligenza sensibile, più affetto,
più serenità, più lucidità su se stesso e
sul mondo, maggiori mezzi di agire sulla propria esistenza, più
creatività? Niente affatto, più denaro e più potere,
in un universo che ha usato il denaro e il potere a forza di essere usato
da loro.
Errore non vuol dire colpa
Il sistema educativo non si è accontentato di murare i desideri
d'infanzia nella corazza caratteriale dove i muscoli tetanizzati, il cuore
indurito e lo spirito impregnato dall'angoscia non favoriscono davvero
l'esuberanza e la realizzazione. Non si è limitato a collocare
lo scolaro in edifici senza gioia, destinati a ricordargli, nel caso se
ne dimenticasse, che non è lì per divertirsi. Ha anche sospeso
sulla sua testa la spada di Damocle, al contempo ridicola e minacciosa,
di un verdetto.
Ogni giorno l'allievo penetra, che lo voglia o no, in un pretorio dove
compare davanti ai suoi giudici sotto l'accusa di presunta ignoranza.
Sta a lui dimostrare la sua innocenza rigurgitando a richiesta teoremi,
regole, date, definizioni che contribuiranno al suo rilascio alla fine
dell'anno scolastico.
L'espressione "mettere in esame", cioè procedere, in
materia criminale, all'interrogatorio di un sospetto e all'esposizione
delle accuse, rievoca la connotazione giudiziaria che rivestono la prova
scritta e orale inflitte agli studenti.
Nessuno intende qui negare l'utilità di controllare l'assimilazione
delle conoscenze, il grado di comprensione, l'abilità sperimentale.
Ma è necessario per questo travestire in giudice e in colpevole
un maestro e un allievo che chiedono soltanto di istruire ed essere istruito?
Di quale spirito dispotico e desueto si investono i pedagoghi per erigersi
a tribunale e tranciare nel vivo col rasoio del merito e del demerito,
dell'onore e del disonore, della salvezza e della dannazione? A quali
nevrosi e ossessioni personali obbediscono per osar segnare con la paura
e la minaccia di un giudizio sospensivo il cammino di fanciulli e adolescenti
che hanno soltanto bisogno di attenzione, di pazienza, di incoraggiamenti
e di quell'affetto che conosce il segreto di ottenere molto esigendo poco?
Non sarà che il sistema educativo persiste a fondarsi su un principio
ignobile, frutto di una società che non concepisce il piacere se
non al vaglio di una relazione sadomasochista tra maestro e schiavo: "Chi
più ama più punisce"?
È un effetto della volontà di potenza, non della volontà
di vivere, il pretendere di determinare con un giudizio la sorte altrui.
Giudicare impedisce di comprendere per correggere. Il comportamento di
questi giudici, allontana dall'allievo impegnato nella sua lunga marcia
verso l'autonomia delle qualità indispensabili: l'ostinazione,
il senso dello sforzo, la sensibilità all'erta, l'intelligenza
aperta, la memoria sempre in esercizio, la percezione della vita sotto
tutte le sue forme e la presa di coscienza dei progressi, dei ritardi,
delle regressioni, degli errori e della loro correzione.
Aiutare un fanciullo, un adolescente a rinsaldare la maggiore autonomia
possibile implica senza alcun dubbio una lucidità costante sul
grado di sviluppo delle capacità e sull'orientamento che le favorirà.
Ma che cosa c'è di comune tra il controllo al quale l'allievo si
sottometterebbe, una volta pronto a superare una tappa della conoscenza,
e la messa in esame davanti ad un tribunale professorale? Lasciate dunque
il senso di colpa agli spiriti religiosi che non si occupano che di tormentarsi
tormentando gli altri.
Le religioni hanno bisogno della miseria per perpetuarsi, esse la mantengono
per dare maggior risalto ai loro atti di carità. Ebbene, il sistema
educativo agisce forse diversamente quando presuppone nell'allievo una
debolezza costitutiva, sempre esposta al peccato di pigrizia e di ignoranza,
da cui può assolverlo solo la missione per così dire sacra
del professore? È ora di finirla con queste frottole del passato!
Ognuno possiede la sua propria creatività. E non tollera più
che venga soffocata trattando come un crimine passibile di punizione il
rischio di sbagliarsi. Non ci sono colpe, ci sono solo errori, e gli errori
si correggono.
Solo coloro che posseggono la chiave dei campi e la chiave dei sogni apriranno
la scuola su una società aperta
La prospettiva di una redditività a tutti i costi è la cortina
di ferro di un mondo chiuso dall'economia. La prospettiva di vita si apre
su un mondo dove tutto è da esplorare e da creare. L'istituzione
scolastica, invece, appartiene al mondo degli affari che la vorrebbe gestire
cinicamente, senza l'ingombro del vecchio formalismo umanitario. Resta
da sapere se allievi e professori si lasceranno ridurre alla funzione
di meccanismi lucrativi, o se, non aspettandosi niente di buono dalla
gestione, alla quale li si invita, di un universo in rovina, scommetteranno
sull'ipotesi di imparare a vivere anziché a economizzarsi. Tutto
si gioca su un cambiamento di mentalità, di visione, di prospettiva.
Infilzare una farfalla su uno spillo non è la miglior maniera di
fare la sua conoscenza. Chi trasforma ciò che è vivo in
cosa morta, qualunque ne sia il pretesto, dimostra soltanto che il suo
sapere non gli è neppure servito a diventare umano.
Esiste, in compenso, un approccio che svela l'irraggiamento della vita
in seno a un cristallo, in una poesia, un'equazione, una formula chimica,
una pianta, un manufatto. Questo approccio stabilisce tra osservatore
e osservato un rapporto di osmosi in cui tutto è distinto senza
che niente sia separato.
La coscienza di una presenza viva nel soggetto e nell'oggetto non è
di natura tale da manifestare quanto vi è di maestro nell'allievo
e di allievo nel maestro? Dove manca l'intelligenza della vita ci sono
soltanto rapporti tra bruti. Ciò che non si sprigiona da quanto
vi è in noi di più vivo per farvi ritorno devia verso la
morte, per la gloria più grande degli eserciti e delle tecnologie
di profitto. È il motivo per cui la maggior parte delle scuole
sono dei campi di battaglia, dove il disprezzo, l'odio e la violenza devastatrice
definiscono il fallimento di un sistema educativo che obbliga l'insegnante
al dispotismo e l'insegnato al servilismo.
Questa rassegnazione nella clausura spacciata per studio in cui l'allievo
è invitato a sacrificarsi e a sbattere sulla sua felicità
la porta della rinuncia! E come istruirà i fanciulli che ha davanti
a sé l'educatore che non è nemmeno più capace di
ritornare bambino rinascendo ogni giorno a se stesso? Colui che porta
nel suo cuore il cadavere della propria infanzia non educherà mai
nient'altro che delle anime morte.
Impartire la conoscenza è risvegliare la speranza di un mondo meraviglioso
che la gioventù ha nutrito e di cui l'uomo non cessa di nutrirsi.
Bisogna ancora, allo stesso tempo, spezzare la maledizione dei pregiudizi
e non curarsi di quei contabili del potere e del profitto che hanno escluso
così bene dalla loro realtà il meraviglioso che l'impazienza
infantile relega nel regno delle fate e l'impotenza dei vecchi nella palude
dell'utopia.
Il corpo umano, il comportamento animale, il fiore, la speculazione filosofica,
la coltura del grano, l'acqua, la pietra, il fuoco, l'elettricità,
la lavorazione del legno, l'equitazione, la fisica quantica, l'astronomia,
la musica, un improvviso momento privilegiato nella vita quotidiana, tutto
nasce dal meraviglioso, non per mistica contemplativa, ma perché
la scelta di una preminenza di ciò che è vivo cessa di piegarsi
agli imperativi tradizionali dello sfruttamento lucrativo.
Quando la foresta è il polmone della terra e non il prezzo di un
certo numero di are o uno spazio da devastare per interesse immobiliare,
allora si manifesta il senso umano di una natura che offre le sue risorse
energetiche a chi l'affronta senza violentarla.
L'apprendimento della vita è una passeggiata nell'universo del
dono. Un andar per funghi per così dire, dove la guida insegna
a distinguere i funghi commestibili dagli altri, inadatti al consumo,
se non mortali, ma dai quali un trattamento appropriato può trarre
virtù curative.
Invece di una trincea dove langue tristemente una manodopera di riserva,
perché non fate della scuola un parco di attrazioni del sapere,
un luogo aperto in cui i creatori verrebbero a parlare del loro mestiere,
della loro passione, della loro esperienza, di ciò che gli sta
a cuore?
Un liutaio, un ortolano, un ebanista, un pittore, un biologo hanno certamente
da insegnare più o meglio di quegli uomini d'affari che vengono
a sostenere l'adattamento alle leggi aleatorie del mercato.
Che l'apertura sul mondo culturale sia anche l'apertura sulla diversità
delle età! Perché riservare ai giovani il diritto all'istruzione,
escludendo gli adulti interessati ad iniziarsi alla letteratura o alla
matematica? Non avremmo tutti da guadagnare da un contatto che rompesse
l'opposizione fittizia tra le classi di età?
Ma non esiste né ricetta né panacea. Appartiene solo alla
volontà di vivere di ciascuno di aprire ciò che è
stato chiuso dalla violenza del totalitarismo economico. In questo l'immaginazione
dimostrerà la sua potenza.
Non passa anno che dozzine di maestri e professori inventivi non suggeriscano
metodi di insegnamento fondati su un nuovo accordo degli esseri e delle
cose. Voi che vi lamentate del numero di burocrati che usurpano il nome
di insegnante, e che gettano sul pianeta il freddo sguardo delle cifre
a forza di limitare il loro interesse alla busta paga, quando mai avete
rivendicato che fossero portate più avanti le idee di Freinet e
di qualche altro dal sapere generoso? Quando mai avete opposto ai distillatori
di noia che vi governano dei progetti di educazione ludica e vivente?
Avete mai cercato di sostituire al rapporto gerarchico tra maestro e allievo
un rapporto fondato non più sull'obbedienza, ma sull'esercizio
della creatività individuale e collettiva?
Quando degli uomini politici di una costernante mediocrità vi invitano
a sottoporre loro le vostre rivendicazioni, non hanno forse la soddisfazione
di scoprirvi miserabili quanto loro, se non finanziariamente, almeno per
intelligenza e immaginazione? Non abbiate dubbio che al prezzo scontato
a cui vi svendete, vi concedano senza indugiare il diritto di deriderli
in grandi manifestazioni catartiche.
La peggior rassegnazione è quella che veste gli abiti della rivolta.
Nutrite per voi stessi così poca stima da non prendere il tempo
di riconoscere i vostri desideri di vita, da non sapere quale esistenza
volete condurre? Non concepite dunque altra scelta che l'alternativa che
vi è ufficialmente proposta tra la povertà del ricco e la
miseria del povero?
Il desolante avvenire di una vita passata a racimolare il denaro del mese
deve sembrarvi luminoso solo perché l'ombra della disoccupazione
cresce ovunque regni il sole mediatico del pieno impiego? Nulla uccide
con più sicurezza che accontentarsi di sopravvivere.
Capitolo III
Smilitarizzare l'insegnamento
Lo spirito da caserma ha regnato sovrano nelle scuole. Vi si marciava
al passo, ubbidendo agli ordini dei sorveglianti ai quali non mancavano
che l'uniforme e i galloni. La configurazione dell'edificio obbediva alla
legge dell'angolo retto e della struttura rettilinea. Così l'architettura
si impegnava a sorvegliare le trasgressioni con la rettitudine di un'austerità
spartana.
Fin negli anni sessanta, l'istituzione educativa rimase impastata delle
virtù guerriere che prescrivevano di andare a morire alle frontiere
piuttosto che dedicarsi ai piaceri dell'amore e della felicità.
Una tale ingiunzione cadrebbe oggi nel ridicolo ma, a dispetto della mutazione
cominciata nel maggio '68 e del discredito nel quale è caduto l'esercito
di un'Europa senza conflitti (ad eccezione di qualche guerra locale in
cui disdegna di intervenire), sarebbe eccessivo pretendere che sia caduta
in desuetudine la tradizione dell'ingiunzione vociferata, dell'insulto
abbaiato, dell'ordine senza replica e dell'insubordinazione che ne è
la risposta appropriata.
L'autorità quasi assoluta di cui è investito il maestro
serve piuttosto all'espressione di comportamenti nevrotici che alla diffusione
di un sapere. La legge del più forte non ha mai fatto dell'intelligenza
altro che una delle armi della stupidità. Molti arricciano il naso,
sicuramente, per il fatto di non avere che il diritto di tacere. Ma finché
una comunità di interessi non situerà al centro del sapere
le inclinazioni, i dubbi, i tormenti, i problemi che ciascuno risente
giorno dopo giorno - cioè quel che forma la parte più importante
della sua vita -, non vi sarà che l'obitorio e il disprezzo per
trasmettere dei messaggi il cui senso non ci riguarda veramente in quanto
esseri di desiderio.
Ciò che si insegna attraverso la paura rende il sapere timoroso
L'autorità legalmente accordata all'insegnante dà un gusto
così amaro alla conoscenza che l'ignoranza arriva a drappeggiarsi
degli allori della rivolta. Chi dispensa il suo sapere per piacere non
sa che farsene di imporlo, ma l'irreggimentazione educativa è tale
che bisogna istruire per dovere, non per piacere.
Provate un po' a sostenere una mutua comprensione tra un professore che
entra nella classe come in una gabbia di fiere e degli studenti abituati
a schivare la frusta e pronti a divorare il domatore! Mentre, in Europa
occidentale, l'autocratismo è ovunque attaccato, la scuola resta
dominata dalla tirannia. Si fa a chi abbaia più forte in un'arena
in cui le frustrazioni si sbranano.
Niente è più ignobile della paura, che abbassa l'uomo alla
bestia braccata, ed io non concepisco che la si possa tollerare né
da parte dell'allievo né da quella del professore. Nulla progredisce
attraverso il terrore se non il terrore stesso. Quand'anche le direttive
pedagogiche si sfiancassero a privilegiare il principio che mi sembra
la condizione di un vero apprendimento della vita: togliere la paura e
dare la sicurezza, bisognerebbe, per applicarlo, fare della scuola un
luogo in cui non regnano né autorità né sottomissione,
né forti né deboli, né primi né ultimi. Finché
non formerete una comunità di allievi e di insegnanti appassionati
a perfezionare ciò che ciascuno ha di creativo in sé, avrete
un bell'indignarvi della barbarie sotto ogni forma, del fanatismo religioso,
del settarismo politico, dell'ipocrisia e della corruzione dei governanti,
non scaccerete né gli integralismi, né le mafie della droga
e degli affari, perché vi è nell'organizzazione gerarchizzata
dell'insegnamento un fermento sornione che predispone al loro dominio.
Ora che le ideologie di sinistra e di destra si sciolgono al sole della
loro comune menzogna, l'unico criterio di intelligenza e di azione risiede
nella vita quotidiana di ciascuno e nella scelta alla quale ogni istante
lo confronta, tra ciò che afferma la propria vita e ciò
che la distrugge. Se tante idee generose sono diventate il loro contrario,
è perché il comportamento che militava in loro favore ne
era la negazione. Un progetto di autonomia e di emancipazione non può
fondarsi, senza vacillare, sulla volontà di potenza che continua
ad imprimere nei gesti il segno del disprezzo, della servitù, della
morte.
Non intravvedo altro modo di finirla con la paura e la menzogna che ne
consegue se non in una volontà ravvivata incessantemente di godere
di sé e del mondo. Imparare a sgarbugliare ciò che ci rende
più vivi da ciò che ci uccide è la prima delle lucidità,
quella che dà il suo senso alla conoscenza.
Le tecniche più elaborate mettono a nostra disposizione una notevole
quantità di informazioni. Tali progressi non sono da sottovalutare
ma resteranno lettera morta se un rapporto privilegiato tra educatori
e piccoli gruppi di scolari non innesterà la rete delle conoscenze
astratte sul solo "terminale" che ci interessa: quello che ciascuno
vuole fare della sua vita e del suo destino.
Liberare dalla costrizione il desiderio di sapere
Lo sfruttamento violento della natura ha sostituito la costrizione al
desiderio; esso ha propagato ovunque la maledizione del lavoro manuale
e intellettuale, e ridotto ad un'attività marginale la vera ricchezza
dell'uomo: la capacità di ricrearsi ricreando il mondo.
Producendo un'economia che li economizza fino a farne l'ombra di se stessi,
gli uomini non hanno fatto altro che ostacolare la loro evoluzione. È
per questo che l'umanità resta da inventare.
La scuola porta il marchio visibile di una frattura nel progetto umano.
Vi si percepisce sempre di più come e in quale momento la creatività
del bambino vi è fatta a pezzi sotto il martellamento del lavoro.
La vecchia litania familiare: "Prima lavora, ti divertirai in seguito"
ha sempre espresso l'assurdità di una società che ingiungeva
di rinunciare a vivere per meglio consacrarsi a una fatica che distruggeva
la vita e non lasciava ai piaceri che i colori della morte.
Ci vuole tutta la stupidità dei pedagoghi specializzati per stupirsi
che tanti sforzi e fatiche inflitti agli scolari portino a risultati così
mediocri. Che cosa aspettarsi quando il cuore è assente? Charles
Fourier, nel corso di un'insurrezione, osservando con quale cura e quale
ardore gli agitatori disselciavano i sanpietrini di una strada e alzavano
una barricata in qualche ora, notava che per la stessa opera ci sarebbero
voluti tre giorni di lavoro ad una squadra di sterratori agli ordini di
un padrone. I salariati non avrebbero trovato altro interesse nella faccenda
che la paga, mentre la passione della libertà animava gli insorti.
Solo il piacere di essere sé e di appartenersi darebbe al sapere
quell'attrazione passionale che giustifica lo sforzo senza ricorrere alla
costrizione.
Perché diventare ciò che si è esige la più
intransigente delle risoluzioni. Ci vuole costanza e ostinazione. Se non
vogliamo rassegnarci a consumare delle conoscenze che ci ridurranno al
miserabile stato di consumatori, non possiamo ignorare che, per uscire
dall'imbroglio in cui si è impantanata la società del passato,
dovremo prendere l'iniziativa di una spinta nel senso opposto. Ma come?
Vi si vede pronti a battervi e a schiacciare gli altri per ottenere un
impiego ed esitereste ad investire le vostre energie in una vita che sarà
tutto l'impiego che farete di voi stessi?
Noi non vogliamo essere i migliori, noi vogliamo che il meglio della vita
ci appartenga, secondo quel principio di inaccessibile perfezione che
abolisce l'insoddisfazione in nome dell'insaziabilità.
Capitolo IV
Fare della scuola un centro di creazione di vita, non l'anticamera di
una società parassitaria e mercantile
Nel dicembre 1991 la Commissione europea ha pubblicato un memorandum sull'insegnamento
superiore. Vi si raccomandava alle università di comportarsi come
imprese sottoposte alle regole concorrenziali del mercato. Lo stesso documento
auspicava che gli studenti fossero trattati come dei clienti, incitati
non ad apprendere ma a consumare.
I corsi diventavano così dei prodotti, i termini "studenti",
"studi", lasciavano il posto ad espressioni più appropriate
al nuovo orientamento: "capitale umano", "mercato del lavoro".
Nel settembre 1993 la stessa Commissione recidiva con un Libro verde sulla
dimensione europea dell'educazione. Vi si precisa che, sin dalla scuola
materna, bisogna formare delle "risorse umane per i bisogni esclusivi
dell'industria" e favorire "una maggiore adattabilità
di comportamento in maniera da rispondere alla domanda del mercato della
manodopera".
Ecco come lo zoom insudiciato del presente proietta come futuro radioso
la forza esaurita del passato!
Una volta eliminato quel che sussisteva di mediocremente redditizio nella
scuola di ieri - il latino, il greco, Shakespeare e compagnia -, gli studenti
avranno finalmente il privilegio di accedere ai gesti che salvano: equilibrare
la bilancia dei mercati producendo dell'inutile e consumando della merda.
L'operazione è sulla buona strada perché per quanto si dicano
diversi, i governi aderiscono all'unanimità al principio: "L'impresa
deve essere impostata sulla formazione e la formazione sui bisogni dell'impresa."
Delle nuove leve per gestire il fallimento
Non è inutile precisare, per aiutare alla comprensione della nostra
epoca, attraverso quale processo lo sviluppo del capitalismo sia sfociato
in una crisi planetaria che è la crisi dell'economia nel suo funzionamento
totalitario.
Ciò che ha dominato, dall'inizio del XIX secolo, l'insieme dei
comportamenti individuali e collettivi, è stata la necessità
di produrre. Organizzare la produzione tramite il lavoro intellettuale
e il lavoro manuale esigeva un metodo direttivo, una mentalità
autoritaria, se non dispotica. Erano i tempi della conquista militare
dei mercati. I paesi industrializzati depredavano senza scrupoli le risorse
delle nuove colonie.
Quando il proletariato iniziò a coordinare le sue rivendicazioni,
subì, a dispetto della sua spontaneità libertaria, l'influenza
autocratica che la preminenza del settore produttivo esercitava sui costumi.
Sindacati e partiti operai si danno una struttura burocratica che avrebbe
finito per ostacolare le masse laboriose con il pretesto di emanciparle.
Il potere rosso si stabilisce tanto più facilmente perché
riesce a strappare alla classe sfruttatrice porzioni dei benefici, tradotte
in aumenti salariali, miglioramenti del tempo lavorativo (la giornata
di otto ore, le ferie pagate), vantaggi sociali (sussidio di disoccupazione,
mutua).
Gli anni 20 e 30 spingono al suo stadio supremo la centralizzazione
della produzione. Il passaggio dal capitalismo privato al capitalismo
di Stato avviene brutalmente in Italia, in Germania, in Russia, dove la
dittatura di un partito unico - fascista, nazista, stalinista - impone
la statalizzazione dei mezzi di produzione.
Nei paesi in cui la tradizione liberale ha salvaguardato una democrazia
formale, la concentrazione monopolistica che attribuisce allo Stato una
vocazione padronale si compie in modo più lento, sornione, meno
violento.
È negli Stati Uniti che si manifesta per la prima volta un nuovo
orientamento economico, votato ad uno sviluppo che trasformerà
sensibilmente le mentalità e i costumi: l'incitamento al consumo
infatti diventa più forte della necessità di produrre.
A partire dal 1945 il piano Marshall, destinato ufficialmente ad aiutare
l'Europa devastata dalla guerra, apre la via alla società dei consumi,
identificata ad una società del benessere.
L'obbligo di produrre a qualunque prezzo cede il posto ad un'impresa addobbata
con gli ornamenti della seduzione, sotto la quale si nasconde nei fatti
un nuovo imperativo prioritario: consumare. Consumare qualunque cosa,
ma consumare.
Si assiste allora ad un'evoluzione sorprendente: un edonismo da supermercato
e una democrazia da self-service, propagando l'illusione dei piaceri e
della libera scelta riescono a minare - in modo più sicuro di quanto
lo avrebbero sperato gli anarchici del passato - i sacrosanti valori patriarcali,
autoritari, militari e religiosi che un'economia dominata dagli imperativi
della produzione aveva privilegiato.
Si misura meglio oggi quanto la colonizzazione delle masse lavoratrici,
attraverso l'incitamento pressante a consumare una felicità secondo
i propri gusti, abbia rallentato la stretta dell'economia sulle colonie
d'oltremare e abbia favorito il successo delle lotte di decolonizzazione.
Se la libertà degli scambi e la loro indispensabile espansione
hanno contribuito alla fine della maggior parte dei regimi dittatoriali
e al crollo della cittadella comunista, hanno svelato assai rapidamente
i limiti del benessere consumabile.
Frustrati da una felicità che non coincideva propriamente con l'inflazione
di gadgets inutili e di prodotti adulterati, a partire dal 1968, i consumatori
hanno preso coscienza della nuova alienazione di cui erano fatti oggetto.
Lavorare per un salario che si investe nell'acquisto di merci di un valore
d'uso aleatorio, suggerisce meno lo stato di beatitudine che l'impressione
spiacevole di essere manipolati secondo le esigenze del mercato. Coloro
che subivano l'officina e l'ufficio durante la giornata ne uscivano solo
per entrare nelle fabbriche meno coercitive ma più menzognere del
consumabile.
I falsi bisogni prevalendo su quelli veri, questo "gadget qualunque"
che bisognava comprare ha finito per generare a sua volta una produzione
sempre più aberrante di servizi parassitari, orditi intorno al
cittadino con il compito di rassicurarlo, inquadrarlo, consigliarlo, sostenerlo,
guidarlo, in breve di inglobarlo in una sollecitudine che lo assimila
a poco a poco a un handicappato.
Si sono visti così i settori prioritari sacrificati a vantaggio
del settore terziario, che vende la propria complessità burocratica
sotto forma di aiuti e protezioni. L'agricoltura di qualità è
stata schiacciata dalle lobbies dell'agroalimentare che producono in eccesso
surrogati di cereali, carni e verdure. L'arte di abitare è stata
sepolta sotto il grigiore, la noia e la criminalità del cemento
che assicura le entrare dei gruppi di affari.
Per quanto riguarda la scuola, essa è chiamata a servire da riserva
per gli studenti d'élite ai quali è promessa una bella carriera
nell'inutilità lucrativa e nelle mafie finanziarie. Il circolo
è chiuso: studiare per trovare un impiego, per quanto aberrante
sia, si è riallacciato con l'ingiunzione di consumare nel solo
interesse di una macchina economica che si blocca da tutte le parti in
Occidente - anche se gli specialisti ci annunciano ogni anno la sua trionfale
ripresa.
Ci impantaniamo nelle paludi di una burocrazia parassitaria e mafiosa
in cui il denaro si accumula e circola in circuito chiuso anziché
investirsi nella fabbricazione di prodotti di qualità, utili al
miglioramento della vita e del suo ambiente. Il denaro è ciò
che manca di meno, contrariamente a quello che vi rispondono i vostri
deputati, ma l'insegnamento non è un settore redditizio.
Esiste tuttavia un'alternativa all'economia di deperimento e al suo impossibile
rilancio. Allontanandosi dal fossato che si scava sempre di più
tra gli interessi della merce e l'interesse di ciò che vive, l'alternativa
propone di riconvertire al servizio dell'umano una tecnologia che l'imperialismo
lucrativo ha disumanizzato, fino a farne - nel caso della fissione nucleare
e della sperimentazione genetica - delle temibili nocività. Essa
esige di accordare la priorità alla qualità della vita e
a quelle attività di base che l'assurdità del capitalismo
arcaico condanna precisamente a cadere a pezzi sotto i colpi di continue
restrizioni di bilancio: l'abitazione, l'alimentazione, i trasporti, l'abbigliamento,
la salute, l'educazione e la cultura.
Una mutazione si mette in moto sotto i nostri occhi. Il neocapitalismo
si prepara a ricostruire con profitto ciò che il vecchio ha rovinato.
A dispetto delle resistenze del passato, le energie naturali finiranno
per sostituirsi ai mezzi di produzione inquinanti e devastanti.
Come la rivoluzione industriale ha suscitato, dall'inizio del XIX secolo,
un numero considerevole di inventori e di innovazioni - elettricità,
gas, macchina a vapore, telecomunicazioni, trasporti rapidi -, così
la nostra epoca esprime una domanda di nuove creazioni che prenderanno
il posto di ciò che oggi serve la vita solo minacciandola: il petrolio,
il nucleare, l'industria farmaceutica, la chimica inquinante, la biologia
sperimentale... e la pletora di servizi parassitari dove prolifera la
burocrazia.
La fine del lavoro forzato inaugura l'era della creatività
Il lavoro è una creazione abortita. Il genio creatore dell'uomo
si è trovato preso in trappola in un sistema che l'ha condannato
a produrre potere e profitto, non lasciando altro sfogo al suo rigoglio
che l'arte e il sogno.
Ora, questo lavoro di sfruttamento della natura, così spesso esaltato
come la potenza prometeica che trasforma il mondo, ci consegna oggi il
suo bilancio definitivo: una sopravvivenza confortevole le cui risorse
ed il cui cuore si consumano nel circolo vizioso del profitto.
Come potrebbe un lavoro così inutile e così nocivo alla
vita non esaurirsi a sua volta? Ieri procurava l'automobile e la televisione,
al prezzo dell'aria inquinata e dei palliativi di una vita assente. Oggi
resta solo un salvagente aleatorio di una società paralizzata dall'inflazione
burocratica, dove niente è più garantito, né il salario,
né la casa, né i prodotti naturali, né le risorse
energetiche, né le conquiste sociali.
In un'atmosfera resa oppressiva dalla rarefazione degli affari, la diminuzione
del lavoro è evidentemente sentita come una maledizione. La disoccupazione
è un lavoro svuotato. Una stessa rassegnazione vi fa attendere
un'elemosina come il lavoratore attende il suo salario dedicandosi ad
un'occupazione che lo annoia (anche se ormai giudica imprudente confessarlo).
Mentre tutto va alla malora sul filo di una disperazione ispirata dall'autodistruzione
planetaria economicamente programmata, un mondo è là, lasciato
all'abbandono, un mondo che bisogna restaurare, spogliare delle sue nocività
e ricostruire per il nostro benessere, come se, spezzandosi, lo specchio
delle illusioni consumistiche avesse messo la felicità alla nostra
portata, dopo averne mostrato il falso riflesso.
Diminuire il tempo di lavoro per meglio distribuirlo? Sia pure. Ma in
quale prospettiva e con quale coscienza? Se l'obbiettivo dell'operazione
è, per i più, aumentare la produzione di beni e di servizi
utili al mercato e non alla vita, in cambio di un salario che ne pagherà
il consumo crescente, allora il vecchio capitalismo non avrà fatto
altro che recuperare a suo profitto ciò che finge di abbandonare
al profitto di tutti.
Al contrario, se la stessa pratica ubbidisce alle sollecitazioni di un
neocapitalismo che cerca nell'investimento ecologico un'arma contro l'immobilismo
di un padronato senza immaginazione, mancherà soltanto una presa
di coscienza perché il salario garantito e il tempo di lavoro ridotto
aprano a ciascuno il campo di una libera creazione e la libertà
di ritrovarsi ed essere infine se stessi.
Perché, a dispetto dell'occultazione che intrattengono intorno
ad essa le burocrazie della corruzione e le mafie affariste, esiste una
domanda economico-sociale che va controcorrente rispetto alle grida di
soccorso del disastro ordinario. Essa reclama un ambiente che migliori
la qualità della vita, una produzione senza oppressione né
inquinamento, dei rapporti autenticamente umani, la fine della dittatura
che la redditività esercita sulla vita. Sta a voi - e alla nuova
scuola che inventerete - impedire che la creatività, obiettivamente
stimolata dalla promessa di impieghi di utilità pubblica, si intrappoli
nell'alienazione economica, tagliandosi fuori dalla creazione di sé.
Se vi dimenticate di ciò che siete e in quale vita volete essere,
non sperate in un altro destino che quello di una merce buona da buttare
appena superata la cassa.
Privilegiare la qualità
A forza di obbedire al criterio della quantità, la corsa al profitto
scade nell'assurdità della sovrapproduzione. Produrre molto aumentava
ieri il plusvalore dei padroni, che non esitavano a distruggere le eccedenze
di caffé, di carne, di grano per impedire un abbassamento dei pressi
sul mercato.
Lo sviluppo del consumo, toccando un più vasto settore della popolazione,
ha permesso di assorbire in una certa misura una crescente quantità
di merci concepite piuttosto a scopo di guadagno che per il loro uso pratico.
La qualità di un prodotto è stata considerata con tanta
più disinvoltura in quanto non era questa a determinare il livello
delle vendite, ma la menzogna pubblicitaria di cui era rivestita per sedurre
il cliente. Ma a forza di lavare sempre più bianco anche la menzogna
finisce per logorarsi. Offesa dall'eccesso di disprezzo, la clientela
ha finito per recalcitrare. Si è mostrata critica, ha rifiutato
di ingoiare ciecamente quello che il cucchiaino dello slogan gli infilava
ad ogni momento negli occhi, in bocca, nelle orecchie, in testa.
Molti hanno dunque deciso di non lasciarsi più consumare da un'economia
che se ne infischia della loro salute e della loro intelligenza. Esigendo
la qualità di ciò che viene loro proposto, scoprono o riscoprono
la loro qualità di esseri, la loro specificità di individui
lucidi, che era stata occultata da quella riduzione allo stato gregario
provocata e intrattenuta dalla propaganda consumistica.
Ma, mentre gli organismi di difesa dei consumatori organizzano il boicottaggio
dei prodotti snaturati da un'agricoltura che inonda il mercato di cereali
forzati, di ortaggi concimati, di carni provenienti da animali martirizzati
in allevamenti-lager, sembra che nelle scuole ci si rassegni a vedere
la cultura avviarsi sulla stessa strada della peggiore agricoltura.
Se gli uomini politici nutrissero nei riguardi dell'educazione le buone
intenzioni che proclamano a ogni piè sospinto, non dovrebbero mettere
in opera tutto per garantire la qualità? Tarderebbero forse a decretare
le due misure che determinano la condizione sine qua non di un apprendimento
umano: aumentare il numero di insegnanti e diminuire il numero di allievi
per classe, in modo che ciascuno sia trattato secondo la sua specificità
e non nell'anonimato di una folla?
Ma, apparentemente, l'interesse ha per loro una connotazione più
economica che semplicemente umana. Se i governi privilegiano l'allevamento
intensivo di studenti consumabili sul mercato, allora i principi di una
sana gestione prescrivono di stivare nello spazio scolastico più
piccolo la quantità minima di teste, modellabili dal minimo personale
possibile. La logica è perfetta e nessuna società protettrice
degli animali insorgerà contro il consumo forzato di conoscenze
sottoposte alla legge della domanda e dell'offerta, né contro gli
usi da mercanti di cavalli che regnano sulla fiera del lavoro.
Rassegnatevi dunque al partito preso della stupidità che implica
lo stato gregario, perché per educare una classe di trenta allievi
non vedo che la sferza o l'astuzia.
Ma non invocate l'impossibilità materiale di promuovere un insegnamento
personalizzato. Gli sviluppi delle tecniche audiovisive non potrebbero
permettere ad un grande numero di studenti di ricevere individualmente
ciò che un tempo apparteneva al maestro di ripetere fino a memorizzazione
(ortografia, grammatica elementare, vocabolario, formule chimiche, teoremi,
solfeggio, declinazioni...)? Oppure di verificare come in un gioco il
grado di assimilazione e di comprensione?
Così liberato di un'occupazione ingrata e meccanica, l'educatore
non avrebbe più che da dedicarsi all'essenziale del suo compito:
assicurare la qualità delle informazioni globalmente ricevute,
aiutare alla formazione di individui autonomi, dare il meglio del suo
sapere e della sua esperienza aiutando ciascuno a leggersi e a leggere
il mondo.
Informazione al massimo numero di soggetti possibili, formazione per piccoli
gruppi. Al centro di una vasta rete di irrigazione che dreni verso ogni
allievo la molteplicità delle conoscenze, l'educatore avrà
finalmente la libertà di diventare ciò che ha sempre sognato
di essere: il rivelatore di una creatività di cui non vi è
nessuno che non possieda la chiave, per quanto nascosta essa sia sotto
il peso delle passate costrizioni.
Capitolo V
Imparare l'autonomia, non la dipendenza
La scuola ha promulgato per secoli il sequestro del fanciullo da parte
della famiglia autoritaria e partiarcale. Ora che si abbozza tra i genitori
e la loro progenie una comprensione reciproca fatta di affetto e di autonomia
progressiva, sarebbe un peccato che la scuola cessasse di ispirarsi alla
comunità familiare.
Paradossalmente il sistema educativo, che accoglie con i giovani ciò
che cambia di più, è anche quello che meno è cambiato.
La famiglia tradizionale preferiva fabbricare dei bambini in serie piuttosto
che offrire la vita a due o tre piccoli esseri ai quali avrebbe dedicato
senza riserve amore e attenzione. Quelli che non morivano in tenera età
serbavano nel cuore il più delle volte una ferita segreta. La tirannia,
il senso di colpa, il ricatto affettivo generarono in tal modo generazioni
di spacconi che nascondevano sotto la durezza del carattere un infantilismo
che imponeva loro di cercare un sostituto del padre e della madre in quelle
famiglie a prestito che erano le chiese, i partiti, le sette, il gregarismo
nazionale e i corpi di armata di ogni genere. La storia non ha conosciuto,
per la sua disumanità, che dei bravacci in carenza di affetto.
Ci voleva un bel po' di cinismo per evocare la "selezione naturale",
tipica della specie animale, quando la produzione di carne da cannone
e da fabbrica implicava la sua correzione statistica, e l'economia familiare
di procreazione comportava un vizio di forma in cui la morte svolgeva
la sua parte.
L'evoluzione dei costumi ci fa guardare oggi come ad una mostruosità
questa proliferazione bestiale di vite irrimediabilmente condannate a
venir riassorbite sotto i colpi di machete della guerra, del massacro,
della carestia, della malattia. Eppure: stigmatizzare la sovrappopolazione
dei paesi dove l'oscurantismo religioso si nutre della miseria che consciamente
mantiene, e accettare che in Europa uno stesso spirito arcaico e sprezzante
continui a trattare gli studenti come bestiame denota un'evidente incoerenza.
Perché il sovraffollamento delle classi non è solo causa
di comportamenti barbari, di vandalismo, di delinquenza, di noia, di disperazione,
perpetua per di più l'ignobile criterio della competitività,
la lotta concorrenziale che elimina chiunque non si conformi alle esigenze
del mercato. Il bruto arrivista ha la meglio sull'essere sensibile e generoso,
ecco ciò che i disonesti al potere chiamano anch'essi, come i brillanti
pensatori di un tempo, una selezione naturale.
Non ci sono bambini stupidi, ci sono solo educazioni imbecilli. Forzare
lo scolaro a issarsi fino in cima al cesto contribuisce al progresso laborioso
della rabbia e della furbizia animali, non certo allo sviluppo di un'intelligenza
creatrice e umana.
Ricordate che nessuno è paragonabile né riducibile a nessun
altro, a niente altro. Ciascuno possiede le sue proprie qualità,
non gli resta che affinarle per il piacere di sentirsi in accordo con
ciò che vive. Che si cessi dunque di escludere dal campo educativo
il fanciullo che si interessa più ai sogni e ai criceti che alla
storia dell'Impero romano. Per chi rifiuta di lasciarsi programmare dai
calcolatori della vendita promozionale, tutte le strade portano verso
di sé e verso la creazione.
Ieri ci si doveva identificare al padre, eroe o cretino dai così
dolci sarcasmi. Ora che i padri si accorgono che la loro indipendenza
progredisce con l'indipendenza del bambino, ora che sentono abbastanza
l'amore di sé e degli altri per aiutare l'adolescente a disfarsi
della loro immagine, chi sopporterà che la scuola proponga ancora
come modelli di realizzazione il finanziere efficace e corrotto, l'uomo
politico energico e rimbecillito, il mafioso che regna con il clientelismo
e la corruzione, mentre l'uomo d'affari trae i suoi ultimi profitti dal
saccheggio del pianeta?
Ricercare la propria identità in una religione, un'ideologia, una
nazionalità, una razza, una cultura, una tradizione, un mito, un'immagine
vuol dire condannarsi a non raggiungersi mai. Identificarsi a ciò
che si possiede in sé di più vivo, questo solo emancipa.
L'alleanza con il bambino è un'alleanza con la natura
La violenza esercitata contro il bambino da parte della famiglia patriarcale
partecipava dello stupro della natura operato dal lavoro della merce.
Che la coscienza di un saccheggio planetario sia passata dalla difesa
dell'ambiente ad una volontà di approccio non violento alle risorse
naturali ha contribuito non poco a spezzare il giogo che lo sfruttamento
economico faceva pesare sull'uomo, la donna, il bambino, la fauna e la
flora.
Il sentire che noi deriviamo da una matrice comune, la terra, il cui ricordo
si ravviva al momento della gestazione nel ventre materno, ha tanto meglio
nutrito la nostalgia di un'età dell'oro e di un'armonia originale
quanto più il lavoro forzato ci separava dalla natura e da noi
stessi con uno strappo a lungo percepito come un tormento esistenziale,
una sofferenza dell'essere.
Il fallimento di un'economia di saccheggio e di inquinamento e l'emergere
di un progetto di ricreazione simbiotica dell'uomo e del suo ambiente
naturale ci sbarazzano ormai di un paradiso perduto il cui fantasma ha
ossessionato la storia impotente a costruirsi umanamente: il mito del
buon selvaggio, del comunismo primitivo, del millenarismo apocalittico
che, dopo aver fatto i bei giorni del nazismo, rinasce sotto il nome di
integralismo.
Almeno avremo imparato che la vita non è una regressione allo stadio
protoplasmatico ma un processo di affinamento e di organizzazione dei
desideri.
Nella lotta contro il cancro, è prevalsa a lungo l'idea che si
dovessero distruggere le cellule che un'improvvisa e frenetica proliferazione
condannava al deperimento. Si ritiene oggi preferibile rafforzare il potenziale
di vita delle cellule periferiche sane e favorire la riconquista di ciò
che è vivo piuttosto che annientare quelle di cui la morte si è
impadronita. Mi piacerebbe molto che un simile atteggiamento determinasse
sovranamente il nostro rapporto con noi stessi, coi nostri simili e con
il mondo.
Al contrario di tante generazioni abbrutite che fecero della sensibilità
una debolezza, da cui molti si premunivano diventando sanguinari, noi
sappiamo ormai che l'amore di ciò che vive risveglia un'intelligenza
senza pari misura con lo spirito contorto che regna sugli universi totalitari.
Un'etica del rispetto degli esseri, altamente stimabile, prescrive di
non uccidere un animale, di non abbattere un albero senza aver tentato
di tutto per evitarlo. Ciò nondimeno, quel che una tale raccomandazione
comporta di artificio e di costrizione, non eliminerà mai la convinzione
come la coscienza che il danno che si fa a ciò che è vivo
lo si fa a se stessi, se non si fa attenzione, perché ciò
che è vivo non è un oggetto ma un soggetto che merita di
essere trattato secondo il diritto imprescrittibile di ciò che
è nato alla vita.
Sull'aiuto indispensabile al rifiuto dell'assistenza permanente
Il cammino dell'autonomia è simile a quello del bambino che impara
a camminare.
Non ci si riesce senza lacrime e sforzi. Il rischio di cadere, di farsi
male, di soffrire aggiunge ai primi passi l'ostacolo della paura. Tuttavia
il soccorso di un affetto che incoraggia a rialzarsi, a ricominciare,
ad ostinarsi, a coordinare i gesti dimostra che la padronanza dei movimenti
si acquisisce meglio e più presto che nelle condizioni di un tempo
in cui si trattava di progredire non solo sotto i fuochi incrociati della
vanità beffarda, della minaccia diffusa, dell'angoscia di non essere
più amati se non ci si applica, ma soprattutto attraverso un malessere,
discretamente nutrito dall'ambiguità dei genitori desiderosi e
nello stesso tempo timorosi che il loro bambino faccia i suoi primi passi
verso un'autonomia che lo sottrarrebbe alla loro autorità tutelare
e toglierebbe loro la sensazione di essere indispensabili.
L'insegnamento dei più piccini si è modellato senza fatica
sulle attitudini familiari che fanno di tutto per assicurare la felicità
nell'indipendenza - tant'è vero che i genitori la recuperano non
appena l'adolescente ne prende possesso. Ispirandosi a quella comprensione
osmotica dove si educa lasciandosi educare, le scuole materne attingono
al privilegio di accordare il dono dell'affetto e il dono delle prime
conoscenze - e che una qualità tanto preziosa all'esistenza degli
individui e delle collettività sia considerata degna dei salari
più bassi da parte dell'affarismo governativo la dice lunga su
quale disprezzo dell'utilità pubblica raggiunga la logica del profitto.
La rottura è brutale all'ingresso nelle superiori. Si regredisce
nella famiglia arcaica dove il fanciullo imparava a cavarsela da solo
unicamente firmando un atto di una riconoscenza eterna a coloro che avevano
assicurato il suo ammaestramento. La fiducia in sé, minata e compensata
con l'insolenza, ricompone la ripugnante mescolanza di superbia e servilità
che formava, nel passato, la norma del comportamento sociale.
Al desiderio sincero di fare dell'adolescente un essere umano a tutti
gli effetti si sovrappone in un evitabile malessere l'esercizio di un
potere al quale la struttura gerarchica costringe l'insegnante. Come potrebbe
non vincere la tentazione di rendersi indispensabile e di coltivare nello
studente una debolezza che ne rende più facile il dominio? Chi
vende stampelle ha bisogno di zoppi.
Usciamo appena e con pena da una società in cui, non avendo mai
potuto credere in se stessi, gli individui hanno accordato la loro credenza
a tutti i poteri che li storpiavano facendoli marciare. Dio, chiese, Stato,
patria, partito, leaders e piccoli padri dei popoli, tutto è stato
ragionevole pretesto per non dover vivere da se stessi. Questi bambini
che un tempo rialzavamo per farli cadere, è tempo di insegnar loro
a imparare da soli. Che sia infine rotta l'abitudine di essere in domanda
anziché essere in offerta, e che sia archiviata la miserabile società
di assistiti permanenti la cui passività fa la forza dei corrotti.
Il denaro del servizio pubblico non deve più essere al servizio
del denaro
L'educazione appartiene alla creazione dell'uomo, non alla produzione
di merci. Avremmo dunque revocato l'assurdo dispotismo degli dei per tollerare
il fatalismo di un'economia che corrompe e degrada la vita sul pianeta
e nella nostra esistenza quotidiana?
La sola arma di cui disponiamo è la volontà di vivere, alleata
alla coscienza che la propaga. A giudicare dalla capacità dell'uomo
a sovvertire ciò che lo uccide, può essere un'arma assoluta.
La logica degli affari, che tenta di governarci, esige che ogni retribuzione,
sovvenzione o elemosina consentita si paghi con la massima obbedienza
al sistema mercantile. Non avete altra scelta che seguirla o rifiutarla
seguendo i vostri desideri. O entrerete come clienti nel mercato europeo
del sapere lucrativo - cioè come schiavi di una burocrazia parassitaria,
condannata a crollare sotto il peso crescente della sua inutilità
-, o vi batterete per la vostra autonomia, getterete le basi per una scuola
ed una società nuove, e recupererete, per investirlo nella qualità
della vita, il denaro dilapidato ogni giorno nella corruzione ordinaria
delle operazioni finanziarie. "Il Sindacato nazionale unificato delle
imposte valuta a 230 miliardi di franchi, cioè quasi l'ammontare
del deficit del bilancio francese, la frode imputabile ai gruppi di affari
come lo dimostra il velo appena sollevato sulle pratiche di corruzione
dei grandi gruppi industriali e finanziari." *
Il denaro rubato alla vita è messo al servizio del denaro. Tale
è la realtà nascosta dall'ombra assurda e minacciosa delle
grandi istituzioni economiche: Banca mondiale, Fondo monetario internazionale,
Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico, Accordo generale
sulle tariffe doganali e il commercio, Commissione europea, Banca di Francia,
eccetera. Il loro sostegno alle fondazioni e ai centri di ricerca universitaria
richiede in cambio che sia propagato il vangelo del profitto, facilmente
trasfigurato in verità universale dalla venialità della
stampa, della radio, della televisione.
Ma per quanto sembri formidabile, la macchina gira a vuoto, si sfascia,
lentamente; finirà come nella Colonia penale di Kafka, per scolpire
la sua Legge nella carne del suo padrone.
Non si vede forse, col favore di una reazione etica, qualche magistrato
coraggioso spezzare l'impunità che garantiva l'arroganza finanziaria?
Tassare le grandi fortune (l'1% dei francesi possiede il 25% della ricchezza
nazionale e il 10% ne detiene il 55%), tassare gli introiti incassati
dagli uomini d'affari, denunciare lo scandalo delle spese di rappresentanza,
colpire con pesanti multe i gestori della corruzione, bloccare gli averi
della frode internazionale indicando a sufficienza, su una carta leggibile
da tutti, gli accessi al tesoro che i cittadini alimentano e di cui sono
sistematicamente spogliati. Non è meno vero che la pista si confonderà
sotto l'effetto devastante della rassegnazione se il denaro non sarà
recuperato per essere investito nel solo campo che sia veramente di interesse
generale: la qualità della vita quotidiana e del suo ambiente.
Certo i magistrati integri dispongono dell'apparato della giustizia, e
voi non avete niente perché non avete creato niente che possa sostenervi.
Eppure voi possedete sulla repressione, per quanto giusta si ritenga,
un vantaggio di cui questa non potrà mai avvalersi: la generosità
di ciò che è vivo, senza la quale non c'è né
creazione né progresso umano.
L'insegnamento si trova nello stato di quegli alloggi non occupati che
i proprietari preferiscono abbandonare al degrado perché lo spazio
vuoto è redditizio mentre accogliervi degli uomini, delle donne,
dei bambini, spogliati del loro diritto all'habitat, non lo è.
Come viene accertato da The Economist, "La subordinazione del commercio
ai diritti dell'uomo avrebbe un costo superiore ai benefici previsti"
(9 Aprile 1994). Tuttavia, requisire un edificio per trovare un riparo
alla miseria - voglio dire installarvisi passivamente perché ci
si sta al caldo - non sfugge in ultima istanza al piano di distruzione
dei beni utili al quale conducono l'inflazione dei settori parassitari
e la burocrazia proliferante da lei generata.
Ciò di cui vi impadronirete vi apparterrà veramente soltanto
se lo renderete migliore; nel senso stesso in cui vivere significa vivere
meglio. Occupate dunque gli edifici scolastici anziché lasciarvi
possedere dal loro sfacelo programmato. Abbelliteli secondo il vostro
gusto, ché la bellezza incita alla creazione e all'amore, mentre
la bruttezza attira l'odio e l'annientamento. Trasformateli in ateliers
creativi, in centri di incontro, in parchi dell'intelligenza attraente.
Che le scuole siano i frutteti di un gaio sapere, come gli orti che i
disoccupati e i più deboli non hanno ancora avuto l'immaginazione
di piantare nelle grandi città sfondando il bitume e il cemento.
Gli errori e i tentativi di chi intraprende di creare e di crearsi non
sono niente a confronto del privilegio che conferisce una tale decisione:
abolire il timore di essere se stessi che segretamente nutre e solletica
le forze della repressione.
Noi siamo nati, diceva Shakespeare, per camminare sulla testa dei re.
I re e i loro eserciti di boia sono ormai polvere. Imparate a camminare
soli e sfiorerete coi piedi quelli che, nel loro mondo che muore, non
hanno che l'ambizione di morire con lui.
Sta alle collettività di allievi e professori il compito di strappare
la scuola alla glaciazione del profitto e renderla alla semplice generosità
dell'umano. Perché bisognerà presto o tardi che la qualità
della vita trovi accesso alla sovranità che un'economia ridotta
a vendere e a valorizzare il suo fallimento le nega.
Dal momento in cui voi formulerete il progetto di un insegnamento fondato
su un patto naturale con la vita, non dovrete più mendicare il
denaro di quelli che vi sfruttano e vi disprezzano approfittando di voi.
Quel denaro lo esigerete perché saprete come e perché impadronirvene.
Si è al di sotto di ogni speranza di vita finché si resta
al di qua delle proprie capacità.
20 febbraio 1995
Nota:
* C. de Brie, "La politica pervertita dai gruppi d'affari",
Le Monde Diplomatique, ottobre 1994
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