Fra Dolcino
Pubblichiamo questa lettera che ci è arrivata anche se ci sembra un po' troppo "religiosa" e "mitologica"
e non certo per i riferimenti a fra Dolcino quanto per una ( troppo grande ) fiducia
nelle masse popolari che sono tutt'altro che pure e semplici come vengono di seguito descritte....
Prima lettera di Dolcino e Margherita ai valsusini in lotta
Cari valligiani ribelli,
è con uno slancio del cuore che abbiamo deciso di scrivervi. Da secoli ci
aggiriamo, stanchi e obliqui, sopra i fatti del mondo, assistendo ad uno
spettacolo avvilente e angoscioso: montagne sventrate dall'arroganza del
danaro, vallate affogate nel cemento, fiumi color della fanga; e,
soprattutto, genti rassegnate e chine. Se il dolore è più forte nel veder
devastate zone a noi care, terre di comunanza, rifugio e resistenza, come la
Val di Ledro, la Val Sabbia o il monte Rubello (che la toponomastica
asservita chiama oggi S. Bernardo), nel mondo degli interessi meschini siamo
sempre stati stranieri, mentre ci siamo sentiti a casa nostra ovunque la
natura prospera rigogliosa e selvaggia e l?uomo vive in armonia con la terra
che gli è madre, fratello del suo simile. a
C?è capitato di rompere il nostro silenzio, scrivendo di tanto in tanto a
uomini e donne dal cuore puro e dal braccio fermo per incoraggiarli nella
battaglia per la propria libertà, ma l'astuzia della Storia (dei potenti) ha
sempre fatto sparire queste nostre lettere. Sul finire del secolo apertosi
con la la morte sul rogo del nostro fratello Segalello, scrivemmo ai
lollardi inglesi e, nella Pasqua del 1420, agli Adamiti, che predicavano in
Boemia le dottrine dei Fratelli del Libero Spirito e della Libera
Intelligenza. Scrivemmo a Thomas Müntzer e a Michael Gaismair durante quelle
rivolte in cui, nella prima metà del Cinquecento, il "pover?uomo comune"
fece rivivere lo spirito millenario della fratellanza contro i soprusi della
toga, della tunica e dell'uniforme. Rivolte in cui la libertà si intrecciava
con la difesa dei saperi e degli usi collettivi. Alla nostra epoca, sapete,
c?erano parole simili per indicare la base delle comunità umane, per
suggerire un certo modo di stare insieme. In Valsesia si chiamavano "vicinìe", sull'Appennino
"comunaglie", sull'Altopiano di Asiago "fradelanze", ma rinviavano tutte
ad un'esperienza condivisa del mondo: la povertà. Pensate che ci fu un
periodo - noi avevamo da tempo abbandonato questo mondo che bisogna
abbandonare - in cui anche la parola repubblica (la "cosa di tutti") aveva
un suono dolce e promettente, non ancora falsato da un potere accentratore e
tiranno. Con quale gioia, allora, vi abbiamo sentiti parlare e ridere della
"Libera Repubblica di Venaus"! Con quale gioia abbiamo udito dei ragazzi
valsusini urlare ai gendarmi "a Venaus abbiamo abolito il denaro"! Sapete,
il nostro motto, per cui ancora oggi ci ricordano, era "tutte le cose sono
di tutti".
Abbiamo scritto, dicevamo, finché ci sono state congiure di uomini liberi
contro l'imperio e il danaro, finché c'è stato qualcuno a cui scrivere.
Abbiamo scritto al "capitano" Jonathan Swing e al "generale" Ned Ludd,
affidando i nostri messaggi alla nebbia delle campagne e dei borghi inglesi
sconvolti dalle prime aggressioni industriali; poi agli operai russi nel
1905, ai contadini spagnoli nel 1936 e ancora durante quella Resistenza in
cui molti avrebbero davvero voluto far guerra ai Palazzi. Avevamo, per di
più, in quest'ultimo caso, una ragione personale, se ci si perdona l'umana
debolezza. Erano stati i fascisti, nel 1927, a bombardare sul Rubello
l?obelisco che i socialisti avevano eretto nel 1907 in memoria di Dolcino
(Margherita è stata scoperta dalla storia dei maschi solo in seguito). Era
più di un tributo storico: proprio sul Rubello si erano infatti rifugiati i
sovversivi in fuga dalle persecuzioni per i fatti di Milano del 1898.
Insomma, sono passati i decenni
. Da allora quel "formicaio di uomini soli" che ancora chiamate società ci
ha tolto ogni gusto per la parola. La passione che forza le catene della
scrittura ci è tuttavia tornata vedendo quegli stessi sentieri partigiani
ripercorsi da donne, uomini e bambini ostili ad un treno carico di sventure
e difeso da mercenari in uniforme. Il 31 ottobre al Seghino e l'8 dicembre a
Venaus eravamo con voi, valligiani fieri e testardi. Ancora una volta, sulle
montagne.
Un tal ministro vi ha definito "sfaccendati", qualcun altro
"montagnini". Le epoche passano, le menzogne restano. Noi fummo accusati
di aver fondato una setta fra gente di montagna "rude, credulona,
ignorante". Credere a ciò che si vede, si sente, si vive invece che alle
sirene dei cantori dell'avvenire - non è forse questo, oggi come ieri, il
peggior crimine di lesa maestà? Noi fummo bruciati vivi perché volevamo la
felicità su questa terra, e non in un lontano aldilà. Per questo la "grande
meretrice rivestita di porpora", alleata del potere temporale, ci dichiarò
eretici. Eppure, noi e voi sappiamo che perdere ogni rapporto sensibile con
i propri simili, con la propria storia e con la propria terra è da sempre il
modo migliore per finire con l?abbeverarsi alla fonte di tutte le fandonie.
Diffidate sempre dei valori che non hanno i piedi ben piantati per terra. I
montanari che ci ospitarono e ci difesero contro le persecuzioni scatenate
da Clemente V e dai signori locali non sapevano che farsene di sistemi di misura estranei al loro sapere.
Dieci soldi, cento ettari, due ore erano criteri astratti di un mondo
astratto e crudele. Per loro un pascolo lo si misurava in base a quante
bestie ci potevano mangiare, le distanze in base ai giorni di cammino
necessari per percorrerle, i raccolti in base ai cicli della luna. La
semplicità della loro vita, la povertà come esperienza non mediata del
mondo, ci fece accogliere come fratelli, perché il nostro cristianesimo si
fondeva con le loro esigenze più profonde. Quell?incontro non cambiò solo
loro, ma anche e soprattutto noi. Dal 1300 in poi ci siamo sempre spostati
per fuggire le attenzioni moleste dei nostri inquisitori, vivendo
pacificamente nell?attività manuale e nella predicazione. Fu sempre la
povera gente ad ospitarci. A Cìmego, nelle valli del Chiese, fu un fabbro,
Alberto, fratello apostolico anch'egli da diverso tempo, ad aprirci la porta
di casa e della fucina. A Gattinara, in Valsesia
, fu un contadino, Milano Sola (che i nostri fratelli trentini ripagarono
insegnando alle genti di lì la coltivazione della vite). Nelle loro comunità
ci trovammo sempre tra uguali, poveri tra i poveri e poi ribelli tra i
ribelli. I signorotti locali, che ci spalancarono le corti per arruolarci
nelle loro sanguinose beghe, furono sempre pronti a venderci. In montagna,
invece, i "rudi, i creduloni e gli ignoranti" vendettero cara la propria
pelle per difendere noi, foresti portatori di grattacapi. Le nostre
ispirazioni e la loro vita collettiva si incontrarono: fu la folgore. Con
noi c?erano molti che si erano uniti nel viaggio dalle valli del Chiese alla
Valsesia, passando sui monti di Brescia, Bergamo, Como e Milano. Fiorino,
Giacomino, Oprandino, Longino, Federico, Catarina. tanti fratelli e sorelle
spinti dall?esempio di una vita più semplice e più libera, di una comunità
aperta a tutti, uomini e donne, sposati e nubili, vecchi e bambini. Una
comunità in cui la donna era libera, custode del rapporto con la natura, la prima a saltar sui
precipizi. Con quale gioia, allora, abbiamo visto le donne in prima fila
nella vostra lotta, cuore pulsante dei presìdi e segnalatrici di tempesta!
La vita in montagna ci cambiò, dicevamo. Non avevamo mai pensato, prima di
arrivare nel Vercellese, di prendere le armi contro le persecuzioni della
Chiesa e dei feudatari. Furono i montanari, conoscitori delle rocce e abili
con l?arco, a insegnarci a resistere. Noi avevamo solo illuminato alcune
ragioni di una rivolta che loro covavano e praticavano da secoli. E come li
ha ripagati la Storia (dei potenti), questi montanari generosi e caparbi?
Con il massacro prima e con la menzogna poi. Alla furia dei suoi mercenari
seguì la ferocia perbene dei suoi scribi, dei suoi cronachisti, dei suoi
commentatori. Per spezzare quell?amoroso legame, quella carnalità celeste
che univa la nostra dottrina e le genti di montagna sono arrivati ad
inventarsi delle Leghe popolari valsesiane contro di noi. Aumentando a
dismisura il nostro numero (più di quattromila laddove eravamo appena
qualche centinaio), ci hanno sottratto sulla carta l?appoggio popolare. Ma
avremmo mai potuto noi resistere più di tre anni in zone tanto dure e inospitali, fra "nevi altissime, vie
inesplorate e luoghi impervi", senza la complicità dei loro abitanti?
Veramente il potere avrebbe inviato un corpo specializzato di balestrieri da
Genova per sconfiggere chi, come noi, con l'arco non era certo un portento?
Tutto ciò non vi ricorda qualcosa, cari valsusini? Nel vostro caso, hanno
invertito la menzogna, ma per ottenere un identico risultato: negare la
dimensione popolare della lotta. Non hanno forse cercato, gli odierni
Clemente V, di far credere che dietro la vostra resistenza c'era solo un
pugno di anarchici, sovversivi, "terroristi" abilmente infiltratisi? Ma se
così fosse avrebbero davvero mandato le loro truppe, ancora una volta, fin
da Genova? La fermezza con cui avete respinto queste odiose e patetiche
macchinazioni intese a dividervi, la caotica armonia con cui le vostre
esigenze di lotta si sono incrociate con le idee e i sogni di tanti venuti
da ogni parte d'Italia - ecco per
noi una gioiosa vendetta della storia degli oppressi contro le menzogne
degli oppressori. Come sbavavano dalla brama di spingervi a creare Leghe
valsusine contro i foresti sobillatori! Sobillatrice, invece, è diventata
l'intera valle. Sarà ancora "düra", come non smettete di ripetere (e
quando un motto di spirito, lanciato in una notte fredda avara di legna
secca, si diffonde così velocemente, al riparo dalle gazzette e dalle
televisioni, significa che il suo messaggio è davvero universale), perché la
vostra avventura collettiva è una promessa di libertà... Finora vi hanno
colpito da destra. Aspettatevi ora le nerbate da sinistra.
I nostri più accaniti inquisitori, come sapete, furono sempre i Minori, cioè
i francescani diventati ordine istituzionale. Si richiamavano a Francesco ma
giustificavano una Chiesa ricca e potente. Si chiamavano fratelli, ma
odiavano la fratellanza. Loro fecero bruciare il buon Segalello nel luglio
del 1300, lui che non si portava seco nemmeno il pane che non consumava sul
posto, perché già quella la considerava accumulazione; lui che aveva
regalato tutti i suoi beni a ladri e giocatori, per pubblico disprezzo della
ricchezza; lui che vedeva nelle merci un ostacolo ad un'esperienza non
mediata del mondo. Furono i francescani a bruciare la moglie di fra Alberto
il fabbro con altri due fratelli; a processare e punire decine di
"dolcini" fino alla fine del Trecento; a far cucir sui loro abiti un
marchio di infamia (non vi ricorda niente?). Ancora oggi, i più acerrimi
nemici dell?emancipazione sono quelli che se ne riempiono la bocca.
Provengono dal movimento operaio, per questo
sono così abili nell'asservire i lavoratori. Si chiamano tra loro
"compagni", come i nostri inquisitori si chiamavano "fratelli". Ma
quanti di questi "compagni", nel breve far d'un secolo, hanno venduto e
represso chi voleva liberarsi assieme agli altri oppressi? Al punto che la
stessa parola "compagno" - che un tempo indicava l?altro con cui spezzare
il pane o con cui fare un pezzo di cammino - è oggi fonte di diffidenza e di
amarezza, legata com?è a una sequela di tristi disillusioni. Tra questi
"compagni", i più vicini al potere (come, all?epoca, i nostri domenicani),
mercanti in un mondo di mercanti, hanno già detto da che parte stanno:
contro di voi. Statene certi: i "compagni" Minori avranno il ruolo più
sottile di spingervi a trattare e a democraticamente desistere. La loro sarà
una repressione lodativa. Mentre planano sulla vostra valle gli avvoltoi
della politica, con i loro specialisti in "democrazia partecipativa",
venditori di palliativi di fronte
ad un sistema che sta portando al collasso ecologico e sociale, abili
estensori di programmi per farvi partecipare al vostro imbrigliamento, è
necessario - permetteteci il consiglio fraterno - che comprendiate appieno
quello che avete già fatto.
Avete cacciato manipoli di tecnici e schiere di agenti, avete creato un
villaggio tra una barricata e l?altra, avete portato più cibo di quanto
potevate mangiarne e più grappa di quella necessaria a scaldarvi il cuore.
Avete sbalordito non solo gli amministratori, ma anche i comitati di lotta.
Avete ravvivato quel movimento storico che ha sempre spinto la coscienza
pratica più in là dei discorsi e della teoria. Avete detto "NO" al nemico,
riversando i vostri "sì" nei rapporti sociali, nei desideri, nell?arte
della falegnameria e del blocco stradale. Come in tutte le esperienze
collettive che spezzano l?ordine della passività, le vostre forme
organizzative sono in costante divenire. D?altronde, che modelli proporvi?
La democrazia diretta, i Consigli operai, la Comune? Sarà la lotta a
suggerirveli, come suggerì ai lavoratori del ventesimo secolo la
consapevolezza che la delega irresponsabile (ai dirigenti, agli esperti, ai
portavoce) andava sostituita con il mandato imperativo e revocabile in
ogni istante da parte delle assemblee; che i delegati,
insomma, non dovevano essere permanenti né, tanto meno, stipendiati. Non a
caso la pratica dell?autorganizzazione è nata prima delle teorie su di essa.
Il motivo è semplice. La qualità della partecipazione di tutti alle
decisioni comuni è strettamente collegata alla capacità di dire "NO".
Senza lotta, infatti, non esiste partecipazione di sorta, ma solo la
possibilità di accettare decisioni già prese altrove. Inoltre, come avete
provato direttamente, decidere in prima persona non è soltanto più efficace,
ma anche più appassionante. Ci state prendendo gusto, si vede: assemblee
affollate, dibattiti accesi e franchi, pensionati in trasferta per le
manifestazioni, una ritrovata socialità, dopo anni e anni passati
nell?isolamento, ciascuno a perdere la vita per guadagnarsela. Non avete
bisogno, credeteci, di formulare chissà quali "proposte politiche":
l?innalzamento del piacere di vivere è da sempre i
l criterio più affidabile, la sola proposta che risulti inaccettabile in
questo mondo al rovescio.
Dalla Parete Calva al monte Rubello, dai piccoli villaggi alle vette
innevate, noi abbiamo resistito così a lungo perché ciò che ci legava erano
un sogno e un grande sentimento: la complicità che si rivela agli umani
quando mettono in gioco se stessi e il proprio futuro. In quei momenti la
comunanza con i propri simili rompe le gabbie del Tempo (questa "invenzione
degli uomini che non sanno amare", come abbiamo letto di recente in un
grazioso libercolo circolato dalle vostre parti), fa dialogare gli uomini
d?oggi con i morti, i vivi e i nascituri, spinge le passioni attraverso le
epoche, con balzi di tigre. Un piccolo esempio. Far risuonare un allarme
collettivo per segnalare un pericolo è una pratica montanara che si perde
nella notte dei tempi. Così, dopo le brutali e ignobili cariche dei
gendarmi, il 6 dicembre a Venaus - non s?era ancora levato il sole - si sono
udite le campane e una sirena: la memoria sotterranea riannodava
all?improvviso fili secolari...
La complicità, cari valligiani, è un sentimento sublime. Tornassimo
indietro, rifaremmo ciò che abbiamo fatto, fin sopra un carro o sopra un
torrente, presti di nuovo a far di noi stessi fiamma. L?affetto di tanti
fratelli e di tante sorelle è ancora qui al nostro fianco, settecento anni
dopo. Ma la complicità autentica è rara. Diffidate di chi non dissolve nelle
comuni battaglie le proprie appartenenze di bottega e di parrocchia, lesto
nel rivendicar meriti e abile nel vender santini. Diffidate di chi, accorso
fra di voi, pretende odiar l'odioso Treno ma nulla dice, o fa, contro un
mondo di macchine e di baiocchi: lisciar il pelo ed essere solidali davvero
sono cose affatto diverse, come il seguito non mancherà di mostrare. Un
goriziano d'altri tempi, che nell'animo come nelle vallate cercava sempre i
sentieri scoscesi, scrisse: "Meglio non veder dove si va che andar soltanto
fin dove si vede". Non abbiate paura. Se le mosse del nemico segneranno le
vostre occasioni, sarà
la libertà a suggerirvi il cammino. Fidatevi solo di lei, e tutto andrà per
il meglio.
|