Ricordare gli orrori di Pol Pot dimenticando i suoi sostenitori



"E' mio dovere - scrisse il corrispondente del Times alla liberazione di Belsen - descrivere qualcosa che va al di là dell'immaginazione umana". Mi sentivo così, nell'estate del 1979, arrivando in Cambogia subito dopo la caduta del regime genocida di Pol Pot. Immersa in una grigia, silenziosa umidità, Phnom Penh, una città grande quanto Manchester, sembrava aver subito un cataclisma nucleare che aveva risparmiato soltanto gli edifici. Case, appartamenti, uffici, scuole, alberghi, stavano lì, vuoti e aperti, come se fossero stati appena evacuati. Oggetti personali giacevano calpestati per le strade; i semafori erano bloccati sul rosso. Mancavano quasi completamente l'elettricità e l'acqua potabile. Alla stazione, i treni erano fermi e vuoti, scenari di partenze interrotte. Diverse carrozze erano state incendiate e contenevano corpi ammassati. Quando nel pomeriggio prese a soffiare il monsone, le strade furono inondate da turbini di carta: si trattava di denaro. Le strade erano piene di denaro, in gran parte banconote nuove e mai usate uscite dalla Banca Nazionale di Cambogia, che era stata fatta saltare in aria dai Khmer Rossi in ritirata di fronte all'esercito vietnamita. All'interno, un paio di occhiali rotti giaceva su un libro mastro lasciato aperto; io scivolai e caddi pesantemente sul pavimento reso scivoloso dalle monetine. I soldi erano dappertutto. In una stazione Esso abbandonata, un'anziana donna e tre emaciati bambini stavano accovacciati attorno ad una pentola che conteneva un misto di radici e foglie e ribolliva sopra un fuoco alimentato da banconote: migliaia di scoppiettanti, crepitanti riel [la valuta cambogiana - NdT], appena usciti freschi dalla De La Rue di Londra [La De La Rue Company di Londra é una delle maggiori società al mondo che stampa cartamoneta, titoli, valori bollati ecc. - NdT]. Nell'immobilità totale, a parte alcuni colibrì che volavano verso l'alto e poi in basso fin quasi a terra, camminavo lungo un sudicio vicolo in fondo al quale c'era quella che un tempo era una scuola elementare, chiamata Tuol Sleng. Durante gli anni di Pol Pot, era gestita da una sorta di polizia segreta, la "S21", che aveva diviso le classi in "unità di tortura" e in "unità di interrogatorio". Sangue e ciocche di capelli erano ancora lì, sul pavimento, dove la gente era stata mutilata su letti di ferro. Qui circa 17.000 prigionieri subirono una sorta di una morte lenta: un fatto non difficile da confermare, poiché gli assassini fotografarono le loro vittime prima e dopo averle torturate e uccise e gettate in fosse comuni ai margini della città. Furono registrati il nome e l'età, il peso e l'altezza. Un locale fu riempito fino al soffitto con i vestiti e le scarpe delle vittime, compresi quelli di molti bambini. Diversamente da Belsen o da Auschwitz, Tuol Sleng fu principalmente un centro di morte politica. Alcuni importanti membri del movimento dei Khmer Rossi vi furono uccisi, compresi quelli che fin dall'inizio avevano organizzato una resistenza a Pol Pot, di solito dopo aver "confessato" che lavoravano per la CIA, il KGB, Hanoi: qualunque cosa potesse soddisfare la paranoia imperante. Intere famiglie furono segregate in piccole celle, incatenate ad un'unica sbarra di ferro. Alcuni giacevano nudi sul pavimento di pietra. Su una lavagna della scuola c'era scritto: 1. è assolutamente vietato parlare. 2. Prima di fare qualunque cosa, occorre avere l'autorizzazione del guardiano. "Fare qualunque cosa" poteva significare anche solo il cambiare posizione nella cella, e il trasgressore riceveva dalle 20 alle 30 frustate. Le latrine consistevano di piccole scatole di munizioni con la scritta "Made in USA". Se si rovesciava una scatola di escrementi, la punizione era di leccare il pavimento con la lingua, o la tortura, o la morte, o tutte e tre. Tutto questo viene descritto, come forse non é mai stato fatto prima, in un notevole documentario, "S21: La Macchina della Morte dei Khmer Rossi", realizzato dai pochi sopravvissuti di Tuol Sleng. Il lavoro del regista khmer Rithy Panh, ora stabilitosi a Parigi, ha una tale forza che - più di qualunque altra cosa io abbia visto sulla Cambogia in questi 25 anni - mi ha profondamente scosso, evocando l'orrore e l'incredulità che sentii allora. Panh, i cui genitori morirono durante il terrore di Pol Pot, é riuscito a radunare le vittime e i torturatori e gli assassini a Tuol Sleng, che ora é un museo del genocidio. Van Nath, un pittore, é il principale sopravvissuto. Ha i capelli grigi ora; non possono esserne sicuro, ma potrei averlo incontrato al campo nel 1979. Di certo, un sopravvissuto mi raccontò che egli ebbe salva la vita quando si scoprì che era uno scultore e fu messo al lavoro per scolpire il busto di Pol Pot. Il coraggio, la dignità e la calma sopportazione di quest'uomo quando, nel documentario, viene messo di fronte ai suoi torturatori - "gli ordinari e oscuri operai del genocidio", come li chiama Panh - sono indimenticabili. Il film ha uno scopo singolare: un confronto, nel senso migliore del termine, fra il coraggio e la determinazione di quelli come Nath, che vogliono capire, e i carcerieri, la cui catarsi é solo all'inizio. C'é Houi, il vice-capo della sicurezza, Khan il torturatore, Thi che aggiornava i registri, tutti apparentemente distaccati mentre ricordano, quasi malinconicamente, l'ideologia dei Khmer Rossi; e c'é Poeuv, indottrinato e istruito da secondino all'età di 12-13 anni. In un'impressionante sequenza, egli sembra diventare un automa, come se fosse stato risucchiato dalla sua memoria e trasportato indietro nel tempo. Ci mostra, con precisione idiota, in che modo intimidiva i prigionieri, li legava con manette e ceppi, dava o negava loro il cibo, ordinava loro di pisciare minacciando di colpirli con un bastone se una sola goccia cadeva sul pavimento. Le sue azioni mostrano a tutti noi quanto sia vero che gli uomini possono diventare le rotelle di un ingranaggio, i cui inventori e dirigenti garbatamente rifiutano ogni responsabilità, proprio come i leader Khmer Rossi tuttora non sottoposti a processo e i loro sostenitori stranieri. Panh, il cui lavoro documentaristico costituisce di per sé un atto di coraggio, vede qualcosa di positivo anche nel semplice atto di rendere una testimonianza e, a proposito dei prigionieri, vede "nella loro resistenza, una forma di dignità profondamente umana". Egli si riferisce alle "piccole cose, dettagli insignificanti, così sottili e fragili, che ci rendono ciò che siamo. Non puoi mai completamente 'distruggere' un essere umano. Rimane sempre una traccia, anche a distanza di anni\x{2026} il rifiuto di accettare un'umiliazione può talvolta essere trasmesso da uno sguardo di sfida, da un mento leggermente sollevato, dal rifiuto di arrendersi sotto i colpi\x{2026} Le fotografie di alcuni prigionieri e le confessioni conservate a Tuol Sleng stanno lì a ricordarcelo". Sembra quasi irrispettoso essere in disaccordo, a questo punto, ma é necessario. Per troppo tempo, Pol Pot e la sua banda sono stati, in occidente, l'icona di uno spettacolo dell'orrore, di cui non si sono mai cercate le ragioni. E questo straordinario film, bisogna dirlo, aggiunge poco sotto questo aspetto. Quando Pol Pot morì nel suo letto, alcuni anni fa, un redattore di servizi speciali mi chiese di scriverne un articolo. Dissi che lo avrei fatto, ma che una parte importante del pezzo sarebbe stata costituita dal ruolo che i governi "civilizzati" ebbero nel portarlo al potere e nel sostenere e mantenere efficiente il suo movimento. Il redattore rispose che non era interessato. Il genocidio in Cambogia non cominciò il 17 aprile 1975, "Anno Zero". Cominciò oltre cinque anni prima, quando i bombardieri americani uccisero circa 600.000 cambogiani. Ordigni al fosforo e bombe a grappolo, napalm e bombe pesanti che formarono enormi crateri, furono lanciati su un paese neutrale, abitato da un popolo pacifico con case di paglia. In un periodo di sei mesi, nel corso del 1973, furono sganciate sulla Cambogia più tonnellate di bombe americane di quante non ne furono sganciate sul Giappone durante la seconda guerra mondiale: l'equivalente di cinque Hiroshima. Il regime di Richard Nixon e Henry Kissinger fece tutto questo, segretamente e illegalmente. Alcuni documenti della CIA ora declassificati lasciano pochi dubbi sul fatto che il bombardamento servì da catalizzatore dei fanatici di Pol Pot, i quali, prima di quell'inferno, erano appoggiati da una minoranza. In seguito, un popolo colpito si radunò intorno a loro. Nel film di Panh, uno dei torturatori racconta che il bombardamento fu ciò che lo spinse ad unirsi ai ribelli: i Khmer Rossi. Pol Pot completò quel che Nixon e Kissinger avevano iniziato. Ed essendo stati cacciati dai vietnamiti, che provenivano dalla parte sbagliata della guerra fredda, i Khmer Rossi furono messi in salvo in Tailandia dall'amministrazione Reagan, con l'assistenza del governo Thatcher, che inventarono una "coalizione" per fornire copertura alla continuazione della guerra americana contro il Vietnam. Grazie a Rithy Panh per il suo coraggioso film; ciò che ora occorre é un lavoro altrettanto onesto che ci metta di fronte a noi stessi e ci liberi dalla nostra amnesia sul ruolo giocato dai nostri rispettabili leader nell'epica tragedia della Cambogia. Fonte